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sabato 8 dicembre 2012

Un vino un libro.. seconda edizione

Stamo lavorando per la seconda edizione di Un vino Un Libro..
A breve le nuove date e i nuovi libri...
Lamberto

Intanto Auguri a tutti !!

venerdì 22 giugno 2012

Un Libro sul vino di oggi

Dioniso Crocifisso, è un libro sul vino ma ancora di più sulla filosofia del gusto del vino. Si pone in chiara critica della moderna enologia che impoverisce il gusto del vino e lo banalizza. Ma secondo  Le Gris c'è di più si arriva a impedire il giudizio su un vino imponendo modelli e paradigmi attraverso la comunicazione e la pubblicità mirata; si impone invece un'estetica del vino " industriale " che impoverisce nelle sensazioni e livella verso il basso la capacità di analisi degli amanti del vino.
Se provate a leggerno è un libro su cui discutere.
Lamberto Tosi
Dioniso crocifisso

giovedì 24 maggio 2012

La Relazione della Prof. Cristina Cassina su Irene Némirovsky, Suite française



1. In prima battuta, vorrei spiegare come ho interpretato questo invito: in un primo momento avevo pensato che l’idea di intrecciare «un vino, un libro» potesse tradursi in un’occasione libera, un’occasione per riflettere e ragionare non necessariamente della presenza del vino in una data opera, quanto dei personaggi, delle situazioni, delle culture che la lettura di un testo può suggerire. Vino come pretesto e tutt’al più contesto, insomma, non come oggetto primo. E il libro che ho proposto, ambientato in Francia, ben si prestava a questo scopo perché ci porta a parlare di un paese che vanta tradizioni vinicole molto antiche e una produzione di altissima qualità.
Poi, entrando nel soggetto e documentandomi, ho trovato che l’idea di lavorare sullo sfondo di questa nobile bevanda ben si addiceva per introdurre l’autrice e la sua opera; e, soprattutto, in ragione della grande quantità di dati in cui mi sono imbattuta, il tema del vino si è rivelato utile per tracciare un percorso.

2. Mossa dal piacere che ne ho ricavato dalla lettura, ho proposto di parlare di un caso letterario di attualità, o meglio, venuto recentemente alla ribalta, e quando dico recentemente mi riferisco a poco più di un lustro. Suite française, è stato edito per la prima volta nel 2004, per i tipi dell’editore Denoël. Di lì è iniziata la ristampa delle opere della Némirovsky: un susseguirsi ininterrotto di pubblicazioni, fino alla proposta, dello scorso anno, di un cofanetto in due volumi che racchiude l’opera omnia. In Italia, fiutando il caso letterario, è la casa editrice Adelphi che già nel 2005 traduceva Suite Française e dava inizio al progetto di pubblicare molte opere di questa autrice; i titoli usciti sono già numerosi: ne ho contati addirittura 16.
Va anche detto che si è parlato di questo caso letterario in termini di “risurrezione”. E questo è il primo elemento che suggerisce di associare il caso della Némirovsky al vino se – freschi delle celebrazioni pasquali – si considera quale significato tale bevanda gioca nella liturgia cattolica.

3. Ma c’è di più. Come il vino buono necessita di invecchiare e di affinarsi prima di essere assaporato in tutte le sue sfumature, così si può dire anche dell’opera della Némirovsky. Una metafora, quella dell’invecchiamento, che mi sento di proporre perlomeno per due ordini di ragioni, per altro opposte.

3.1 La prima è che ci troviamo di fronte a un’autrice a cui la critica letteraria non ha ancora dedicato grande attenzione, o comunque l’attenzione dovuta. Mentre i suoi libri riempiono gli scaffali delle librerie, la saggistica appare in grave ritardo. Su di lei si è scritto non dico poco, ma davvero poco in relazione al successo delle vendite. Ma non dubito che questo vuoto sarà presto colmato. Come storica ritengo che ciò sarà possibile quando i suoi appunti di lavoro, le sue minute, soprattutto il suo diario, saranno più facilmente disponibili ai ricercatori: oggi queste carte sono conservate presso l’Institut de la Mémoire de l’Édition Contemporaine, Imec, nell’abbazia di Ardenne, in Normandia.
La maturazione di un adeguato profilo critico, insomma, è appena iniziata.

3.2 Suite française ha un’altra ragione per richiamare la metafora dell’affinamento della bottiglia di buona fattura. Romanzo incompiuto – o forse è meglio dire interminato – fu scritto su un taccuino, racchiuso con altri oggetti “preziosi” in una valigia di cuoio consegnata alla maggiore delle due figlie, alla piccola Denise. Il 13 luglio 1942 la Gestapo preleva Irène Némirovsky. È trasferita in un campo di internamento, poi parte con il convoglio n. 6 e di lei si perdono le tracce. Sarebbe morta un mese dopo, a Auschwitz: i registri, annotano, per febbre tifoide Ma il marito continua a sperare, e cerca in ogni modo di ottenere uno scambio: lui al posto di lei. Otterrà invece che anche lui, dopo lei, sarà deportato.
Solo a guerra finita, quando si ebbe notizia della morte dei genitori, la figlia Denise si decise ad aprire il taccuino. Lo guardò di sfuggita, credendo che fossero appunti, una sorta di diario della madre. Per non straziarsi decise di non leggerlo. Quando trovò il coraggio, capì che non era di un diario che la madre l’aveva resa custode, ma del lavoro a cui aveva atteso negli ultimi tempi.
Per non rischiare di perderlo, si mise a trascriverlo, prima battendolo a macchina, poi al computer. E perché le parve un lavoro pregevole, benché incompiuto, decise di depositarlo presso il museo della memoria, a Parigi. Solo allora capitò tra le mani di persone capace di valutarne lo spessore letterario. E di farne il libro che ha riscosso il successo di cui si è detto.
L’affinamento di Suite française, insomma, è avvenuto nel cuoio, non in barrique, e il caso ha voluto che richiedesse circa sessant’anni.

4. Alcuni tratti della biografia dell’autrice sono utili a contestualizzare il suo romanzo più celebre, a coglierne la genesi e ad avvicinarci al progetto.

4.1 Irina (poi francesizzato Irène) nasce nel 1903 a Kiev, in Ucraina, unico frutto di un matrimonio non tra i più felici. Il padre, piccolo commerciante ebreo, porta un nome che la dice lunga sul destino della famiglia: Nemirovski = «colui che non ha pace». Anche la madre è ebrea, ma rampolla di una famiglia di un certo rango, poi decaduta, abituata a passare qualche tempo a Parigi ogni anno. Se il padre è quasi sempre assente, perché preso dal lavoro, la madre è invece assente per altre ragioni: è una donna arida, interessata solo alla sua bellezza, e al suo successo.
Irène cresce con l’unico affetto vero, presente, di una governante francese. Anche per questo parla (e scrive) francese prima ancora di parlare (e scrivere russo), ma presto padroneggerà quasi altrettanto bene l’inglese e il tedesco, e si farà nel tempo anche un po’ di rudimenti di finlandese, di svedese e di yiddish.
Le condizioni socio-economiche della famiglia migliorano sensibilmente negli anni della Grande Guerra; il padre fa fortuna con speculazioni azzardate e ciò consente alla madre di realizzare i suoi sogni: ascendere nella scala sociale, lanciarsi in spese pazze, gioire tra balli e una girandola di amanti.
Per ragioni di affari e di opportunità sociali, si trasferiscono a San Pietroburgo (allora Pietrogrado) in un grande appartamento, una casa strampalata dove tutto è di troppo e quel troppo è ammassato alla rinfusa. Come in un covo di ladri: argenteria comprata alle aste, senza neppure togliere le cifre degli antichi proprietari, pellicce di zibellino accatastate in armadi pieni di naftalina, pregiate bottiglie di Barsac dolce servite in bicchieri di Baccarat per lo più sbreccati. Ma «nessuno se ne preoccupava, tutti sembravano convinti che quella ricchezza era passeggera, che sarebbe sparita così com’era nata.» (Il vino della solitudine, p. 92). Ad accompagnare lo status di nuovi ricchi aumenta lo stuolo di servitori; ma la ragazzina, sempre più sola, trova conforto soprattutto nei libri e nei suoi primi esercizi di scrittura.
I dati originari sono tutti qui. Come diceva François Guizot, uno dei padri della storiografia moderna, bisogna sedersi accanto alla culla, indagare cioè le origini, se si vuole cogliere i caratteri principali di una persona come di una nazione. Se c’è una cifra che ci dà conto di cosa sono stati per lei questi anni di formazione, questa è dunque la solitudine. Difatti IN descriverà questi momenti in un romanzo di chiara ispirazione autobiografica che titola, guarda caso, Il vino della Solitudine.
Educata alla francese, per Irène il vino è importante: ne apprezza le qualità, lo conosce e lo sa valutare. Non è un caso se il vino tornerà un’altra volta nella per nulla facile)scelta dei titoli. Già affermata scrittrice, rievocherà una pagina tra le meno gloriose della rivoluzione bolscevica sotto il titolo I fumi del vino. Qui è dipinta la p’janka, parola che in russo significa ubriachezza, e più in generale bisboccia, gozzoviglia, baccanale e con la quale si indica un preciso episodio: il saccheggio di vini ed alcolici nei negozi, nelle abitazioni private, e soprattutto nelle ricchissime cantine degli zar. Lenin, per scongiurare una sbronza collettiva, ordinò di distruggere tutte quelle bottiglie. Agli occhi di Irène, ormai francesizzati, quel saccheggio, quella distruzione, apparirà quasi un sacrilegio, riassunto in questa frase messa in bocca al protagonista: «Uomini che lanciano tutt’attorno bottiglie di un vecchio borgogna pieno di sole francese».

4.2 E il sole francese non è lontano. La barbarie avanza e bisogna lasciare la Russia: questo diventa l’imperativo per i Némirovsky, doppiamente in pericolo perché ricchi (nuovi ricchi) ed ebrei. Dopo un viaggio lungo e travagliato tra la Finlandia e la Norvegia, con i gioielli cuciti tra le pieghe degli abiti più logori, la famiglia giunge infine in Francia, così come hanno fatto molti altri. Si stima infatti che oltre 40.000 russi, lasciato il proprio paese, si riversarono in Francia: una folla di emigrati in cerca di sistemazione. A differenza di molti di loro, aristocratici incapaci di adattarsi alla nuova vita, cioè di mettersi a lavorare, il padre di Irène non perde tempo e in breve ricostruisce una fortuna. La vita allora riprende, come prima, anzi meglio di prima. Tornano i soldi da sperperare in appartamenti che sono vere e proprie stramberie, in macchine lussuose, in diamanti e, naturalmente, in fiumi di champagne: in un peregrinare da Parigi a Biarritz (la Biarritz lanciata dall’ultima imperatrice dei francesi), da Deauville a Vichy, a Cannes, e poi di nuovo Biarritz e Parigi.
Una vita frenetica, sregolata, vana e futile, insomma. Con cui Irène ha un rapporto conflittuale. Ama e odia questa vita al tempo stesso. Odio: in particolare detesta la madre, che mai si è interessata a lei e che, di più, ora la percepisce come una possibile rivale e per questo la costringe, già diciottenne, a vestire come una ragazzina e a portare lunghe trecce. Amore: siamo negli anni Venti, nei ruggenti anni Venti, e la musica americana imperversa, così come il cinema. Questo è ciò che la giovane Irène Némirovsky più ama: il ballo (intere notti passate a ballare) ma anche andare al cinema e al teatro, stare con gli amici, prima russi, poi francesi, insomma divertirsi. Così come, per la prima volta, trova godimento nello studio: costretta da sempre a lezioni private, a Parigi conosce lo studio serio e approfondito. Conseguirà due diplomi in Sorbona: in letteratura russa e in letteratura francese.
Soprattutto – teniamo presente il significato del suo cognome - Irène ha bisogno di pace, di costruirsi una vita sua, ritagliata sui suoi gusti, sui suoi progetti. Ora sa che la pace può esistere perché ha trascorso una vacanza in campagna presso la famiglia di un’amica francese: ha conosciuto, lì, la quieta e solida borghesia della Francia campagnola. Così, non appena si presenta l’occasione giusta, si allontana dalla famiglia per ritagliarsi una vita tutta sua, tranquilla, intima, affettivamente normale. Sposa Michel Epstein, anche lui ebreo emigrato dalla Russia, figlio di un banchiere e impiegato per un importante gruppo finanziario. E inizia, al contempo, la sua attività di scrittrice.

4.3. Veniamo alla carriera: c’è qualcosa di fiabesco nel modo in cui riesce a imporsi con la sua scrittura descrittiva e realista negli anni in cui infuriano i movimenti d’avanguardia: mentre si spengono i fuochi del dadaismo e già prende forma il nascente surrealismo, lei legge avidamente Proust, si ispira a Flaubert, a Balzac, medita Corneille e Racine. E scrive e riscrive, per ben quattro anni, un romanzo.
La storia del suo esordio è un piccolo romanzo a sé: nel 1929 invia all’editore Grasset un manoscritto in vista di una valutazione. Si tratta di David Golder, la storia di un finanziere ebreo alle prese con i bolscevichi per ottenere concessioni petrolifere. L’editore, entusiasta, chiede di incontrare l’autore ma il manoscritto non è accompagnato da un indirizzo, bensì da un nome maschile e da un numero di cassetta postale. Grasset fa dunque scrivere, ma nessuno si presenta; mette allora annunci sui giornali (tanto per aumentare la suspence) e un mese dopo, con sua grande sorpresa, scopre di aver a che fare con una giovane donna di soli 26, la quale ha tardato a rispondere perché costretta a letto per le conseguenze di un parto non facilissimo. Golder avrà un successo “strepitoso”: l’inizio di una brillante carriera letteraria.
Sulla quale sorvolo; non c’è tempo per ricordare i molti romanzi, racconti brevi, saggi, recensioni che escono dalla sua infaticabile penna. Basterà dire una cosa: alcuni racconti saranno ospitati dalla «Revue des Deux Mondes», l’olimpo delle lettere francesi.

4.4 Siamo giunti agli anni Trenta: il successo è arrivato, la carriera di scrittrice è avviata, Irène e il marito sono una coppia felice, abbastanza serena, allietata dalla nascita di due bambine, di cui Irène si occupa teneramente (la nonna invece le ignora: divenire nonna vuol dire misurarsi con il tempo).
In realtà c’è il problema dei soldi, che non bastano mai dopo la morte del padre: rovinato dalla crisi del 29, aveva messo ciò che gli restava in testa alla moglie la quale non passerà mai nulla alla figlia.
Ma c’è un’ombra ben più grave all’orizzonte: i coniugi Epstein sono una coppia di ebrei, per di più apolidi. Di fronte al precipitare della situazione, tentano più volte di ottenere la cittadinanza francese facendo leva proprio sulle riconosciute e apprezzate qualità letterarie di Irène: di una straniera che con il suo lavoro dà lustro alle lettere francesi. Ma in Francia l’antisemitismo è ormai forte, l’ostilità contro gli stranieri è in vertiginosa crescita. Sicché solo le figlie otterranno la cittadinanza, in virtù dello jus soli. Irène non lascia intentata neppure un’altra strada e tutta la famiglia, nel 1939, si converte al cattolicesimo.
Sappiamo però che neppure questo passo la metterà al riparo dalla violenza nazista, dalla discriminazione del razzismo su base “biologica”.
5. E qui c’è da porsi una domanda: perché questa grande scrittrice, apprezzata anche al di là della Francia, non si è messa al riparo, come hanno fatto molti intellettuali, lasciando l’Europa? Su Irène Némirovsky per decenni è calato il silenzio, ma alla fine degli anni Trenta era un’autrice molto rinomata. Le sue opere erano tradotte in moltissime lingue, alcune furono lo spunto per lavori teatrali e per il cinema: la trasposizione cinematografica di David Golder, ad esempio, fu il primo film sonoro realizzato in Francia. Aggiungo che era pagata molto bene (guadagnava tre volte più del marito). Insomma, negli anni Trenta il suo era un nome di quelli che contano davvero, a cui si aprivano le porte … O meglio, quasi tutte.
Non c’è una risposta sicura, completa, che tutto spiega, ma si possono fare congetture. Di certo sapeva, ed era stata avvertita. Si sa che ha rifiutato il consiglio di uno zio di raggiungerla a New York. Eccessiva fiducia nel proprio status privilegiato di scrittrice? Anche questo è plausibile, e le lettere di alcuni editori lo confermano.
Ma c’è un altro elemento che aiuta a capire.
Bisogna tenere presente che nulla vale più della famiglia per questa ebrea ukraina che, a dispetto dei soldi, è cresciuta come una senza famiglia. E la Francia è stata la prima famiglia che Irène ha conosciuto; la Francia – sono parole sue, vergate negli anni Trenta – è «il paese più bello del mondo». Il suo primo rifugio, caldo e accogliente, il suo primo luogo di pace. Sicché non si può abbandonarlo: né si può emigrare in eterno; alla fine bisogna pur mettere radici. E difatti, anche all’ultimo momento, quando gli Epstein avrebbero potuto fuggire in Svizzera, neppure ci provano.
Ora, per come si è comportata e, soprattutto, alla luce del suo ultimo lavoro, mi sento però di affermare anche un’altra cosa. La tragedia, Irène Némirovsky, l’ha voluta subire. Al pari di Socrate, ha bevuto la cicuta, come atto di suprema obbedienza pur nel disprezzo dei suoi giudici. E per mostrare, a differenza di Socrate, l’ingiustizia della Legge e, più in generale, la colpevolezza di un’intera civiltà, della nazione francese, la nazione colpevole di aver tradito i suoi alti ideali – uguaglianza, libertà, fraternità – non avendo saputo, né voluto, proteggere i deboli e i più indifesi.
Ma, così, siamo già dentro la genesi di Suite Française.

6. Il contesto, innanzitutto: con la sconfitta delle armate francesi, e la divisione della Francia tra una zona occupata e una cosiddetta “libera” (lo Stato di Vichy, filonazista), inizia l’emanazione di differenti statuti riguardanti le persone di razza ebraica, sempre più subdoli, sempre più minacciosi. Per effetto immediato di queste disposizioni, il marito perde il lavoro, Irène non può più pubblicare e soprattutto essere pagata, ma aggirerà questi divieti con dei prestanome. Nella zona occupata, dove si trovano gli Epstein, gli ebrei apolidi possono essere prelevati in qualunque momento. Insomma anche per loro, come per tutti gli ebrei, il presente diventa estremamente difficile e pericoloso.
Ed è nel corso di questa tragedia, che riguarda migliaia di persone, che nasce Suite Française.

7. Il romanzo è stato scritto da una donna ebrea tra il 1941 e l’inizio del 1942. Ovviamente, è un libro che non ha nulla a che fare con la scrittura della memoria. Non solo perché Irène non è tornata dal campo di concentramento, ma anche perché niente, non un solo accenno in questo libro è rivolto al problema delle leggi razziali, della segregazione, della Shoa.
Ora, questo è un tratto nuovo. In altri libri, soprattutto i primi, Irène ha messo a tema l’ebraicità. Ha ritratto la spregiudicatezza dell’alta finanza ebraica ma anche le condizioni disumane in cui versano alcuni correligionari nei ghetti. Al punto che c’è chi la prenderà per un’antisemita.
In realtà in questi libri Irène Némirovsky affronta un altro problema, quello di un’assimilazione che lei giudica impossibile. Un tratto peculiare nella sua ricerca letteraria è ciò che lei chiama «il calore del sangue»: sinonimo grosso modo di gioventù, energia e destino, una sorta d’istinto che guida i suoi personaggi. Calandoci nel personaggio “ebreo”, ciò è come dire: non ci si può togliere l’ebraicità di dosso, neppure quando si è giunti ai vertici del successo.
L’assenza della questione ebraica, tuttavia, non significa che questo non sia un romanzo di denuncia, d’impegno, con implicazioni anche morali. Al contrario.

8. Ritorno a una frase centrale: «Il paese più bello del mondo»: così Irène Némirovsky vede la Francia negli anni Venti, quando vi giunge dopo essersi lasciata alle spalle i pogrom di Kiev e la Russia dei bolscevichi. Ora, Suite Française è il rovesciamento di questa percezione giovanile, è lo sradicamento dal suo cuore dei sentimenti che ha a lungo coltivato nei confronti di questo paese. Quantomeno lo è l’inizio del romanzo: laddove ritrae in modo impietoso la fuga dei francesi, la rotta all’arrivo dei tedeschi.
Non pochi critici, per altro, vi hanno visto in filigrana il racconto dell’altra emigrazione da lei vissuta, quella che ha coinvolto migliaia di persone che fuggivano la guerra civile. Il dramma, mutatis mutandis, è lo stesso. E stesse sono le miserie umane, gli egoismi, la vigliaccheria, in rari casi l’eroismo e l’altruismo, che in tale contesto possono affiorare.
Così, nel suo ultimo lavoro, gli estremi infine si toccano: questa donna slava ed ebrea – ma francese per cultura, indole, elezione – ritrova «nel paese più bello del mondo» lo stesso calice amaro che i suoi antenati hanno dovuto bere per secoli. Per parte sua, non si sottrae al destino. Ma il suo compito più urgente, dato che non le resta più nulla, è di denunciare la follìa di un’epoca.
Scrive Suite française tra il 41 e il 42, intermezzando i racconti che deve mandare a Parigi se vuole continuare a sfamare la sua famiglia, ma ritagliandosi uno spazio suo (a suon di medicinali). Uno spazio per la sua creatività e per il piacere che ancora trova nello scrivere.
Uno spazio questa volta non censurato: negli ultimi tempi, la necessità l’ha spinta a scrivere racconti “piazzabili”. Ma questo no: Suite Française è il suo grande lavoro, dove gli odii, le amarezze, il disprezzo accumulati negli ultimi tempi possono infine tradursi in pura creazione letteraria. Qui – per ritornare al tema del nostro incontro – si coglie appieno quell’acidità “elevata”, “marcata”, che tanto si apprezza nei vini corposi.


9. Da un appunto del suo diario: «Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita».
Il progetto da cui muove Suite française è dunque quello di raccontare, freddamente, lucidamente, la disfatta morale del paese più bello del mondo. E il programma enunciato nel titolo, un chiaro calco delle Suites françaises di Bach, è rispettato: l’opera è concepita come un insieme che avrebbe dovuto scandirsi in cinque movimenti. Il che, per inciso, farebbe pensare alla Suite n. 1 (o alla sesta sinfonia di Beethoven). Come che sia, Irène Némirovsky redasse i primi due movimenti, abbozzò il terzo, poco o nulla riuscì a scrivere del quarto e del quinto.
Sotto il profilo stilistico, l’idea davvero innovativa è quella di fare un romanzo in presa diretta, come nel cinema, componendo sull’onda degli avvenimenti, di quadri che cambiano continuamente sotto i suoi occhi. Di qui l’assillo della documentazione, per lei che da sempre è in cerca di realismo: trovare a tutti costi i giornali, studiare mappe geografihe, avere colloqui con i testimoni. E tutto questo nella consapevolezza della tirannia del tempo, di un tempo che sa che non avrà.
È sufficiente richiamare i singoli capitoli per farsi un’idea di cosa stava progettando:
Tempesta di giugno … 1940: la fuga verso le campagne verso il sud, l’esodo. Introduzione di vari personaggi, perché si tratta di un romanzo corale, dove gioca una grande varietà di caratteri, di tipi.
Dolce … l’occupazione tedesca, seguita in un piccolo borgo di campagna. Focus su alcuni personaggi, e un intreccio d’amore.
Cattività … entra in gioco la politica; certi personaggi fanno le loro scelte: chi entra nella resistenza, chi si schiera con Pétain, ma sotto sotto tiene contatti con la resistenza …. Nb, siamo all’inizio 42!
Battaglie …. scenari di guerra, perché la guerra continua ... deve continuare!
La Pace …. perché la guerra, prima o poi, sarebbe finita e ci sarebbe stata una pace: questa avrebbe potuto essere la Pax britannica, o la Pax sovietica o la Pax germanica. L’ipotesi che potesse trattarsi di una Pax Americanafaute de temps – non l’ha mai sfiorata.

10. Entrare nel testo, togliere il piacere della sorpresa, sarebbe un oltraggio, come sperperare del buon borgogna. Segnalo solo un passaggio, quasi un flash, dal secondo movimento, Dolce.
Per riprendere il filo, mi piace sottolineare la centralità di un luogo: la cantina dell’agiata famiglia su cui fa perno il capitolo.
È lì che Lucile, donna intelligente, colta, raffinata, ma sacrificata dalle circostanze della vita, fa la sua vera scelta. Lucile vive con la suocera, una donna austera, di vecchio stampo, accecata di amore per il figlio, ora in guerra. Combattuta tra i sentimenti verso l’ufficiale tedesco alloggiato nella sua casa e la lealtà verso la sua patria (non certo verso il marito, che la tradisce da anni con una modista), Lucile sceglie la patria. E questa scelta si consuma in cantina: lo si capisce dal fatto che vi scende per prendere una bottiglia per il contadino che ha ucciso un tedesco e che lei nasconde ai piani superiori.
Ma a quale rischio! Non solo quello più ovvio, di essere scoperta dai tedeschi. Ce n’è un altro, che si comprende riportando un pensiero della suocera: «Il vino in qualche modo fa parte dell’eredità e, a questo titolo, è sacro, come tutto ciò che è destinato a durare dopo la nostra morte». Ora, per fortuna in cantina era buio e il caso ha voluto che Lucile prendesse del normale rosso da pasto. Perché questa è la realtà: la suocera è disposta anche a farsi fucilare per aver nascosto il contadino, ma mai le avrebbe perdonato il sacrificio di una di quelle bottiglie pregiate – gli Chablis negli ultimi scaffali, o gli Chateaux d’Iquêm sotterrati nella sabbia – che ha avuto in consegna dal marito per trasmetterle al figlio (Suite Française, pp. 317-8).
Il capovolgimento di prospettiva è a 180°. Se in I fumi del vino Irène stessa si scandalizzava per l’oltraggio al borgogna, ora questa sacralità del vino, che simboleggia i valori e le tradizioni francesi, è diventata oggetto di amara ironia, di acido disincanto … Il cerchio, insomma, si è chiuso.

12. Ricapitolando: un romanzo sulla guerra, nel quale l’autrice descrive la lotta tra l’individuo e la comunità (ne è un esempio la figura di Lucile), la lotta tra i destini individuali e la Storia, quella con la s maiuscola: la storia che stritola gli individui non meno dei popoli, che falcia tutti, siano essi francesi, russi, ebrei.
Un romanzo ambizioso, da tutti i punti di vista: Irène Némirovsky voleva scrivere qualche cosa che non passasse, che restasse nel tempo. Cito un ultimo appunto, del 1941: «Cercare di mettere insieme il maggior numero possibile di cose, di argomenti che possano interessare la gente nel 1952 o nel 2052». Date che, nella sua mente, significavano un tempo di pace - uno più vicino uno più remoto – ma sempre di pace.
E allora: la guerra, la pace, la Russia, la Francia … Come non pensare che siamo all’ombra del grande capolavoro di Tolstoj? A cui Irène Némirovsky si è realmente ispirata, lo mostrano tanti passi dei suoi appunti. Ma da cui prende le distanze se ciò che ha lasciato, a ben vedere, è un grande affresco dove c’è Guerra ma nient’affatto Pace.


sabato 5 maggio 2012

Sabato 19 maggio alle 16, 00 Giovanni Beani con le sue Spirali Alchemiche e La vernaccia di San Gimignano di Poggio Alloro ci intrettarrenno per la serie un Un Vino Un Libro.
Si ringrazia fin d'ora Medea, Pasticceria La Parigina, La Misericordia di Seravezza , Il Comune di Seravezza, La Fisa delegazione Versilia,  e tutti coloro che ci hanno seguito nei vari incontri, perando di avervi interessati e deliziati. Lamberto Tosi

 http://www.fattoriapoggioalloro.com/