1.
In prima battuta, vorrei spiegare come ho interpretato questo invito:
in un primo momento avevo pensato che l’idea di intrecciare «un
vino, un libro» potesse tradursi in un’occasione libera,
un’occasione per riflettere e ragionare non necessariamente della
presenza del vino in una data opera, quanto dei personaggi, delle
situazioni, delle culture che la lettura di un testo può suggerire.
Vino come pretesto e tutt’al più contesto, insomma, non come
oggetto primo. E il libro che ho proposto, ambientato in Francia, ben
si prestava a questo scopo perché ci porta a parlare di un paese che
vanta tradizioni vinicole molto antiche e una produzione di altissima
qualità.
Poi,
entrando nel soggetto e documentandomi, ho trovato che l’idea di
lavorare sullo sfondo di questa nobile bevanda ben si addiceva per
introdurre l’autrice e la sua opera; e, soprattutto, in ragione
della grande quantità di dati in cui mi sono imbattuta, il tema del
vino si è rivelato utile per tracciare un percorso.
2.
Mossa dal piacere che ne ho ricavato dalla lettura, ho proposto di
parlare di un caso letterario di attualità, o meglio, venuto
recentemente alla ribalta, e quando dico recentemente mi riferisco a
poco più di un lustro. Suite
française,
è stato edito per la prima volta nel 2004, per i tipi dell’editore
Denoël. Di lì è iniziata la ristampa delle opere della Némirovsky:
un susseguirsi ininterrotto di pubblicazioni, fino alla proposta,
dello scorso anno, di un cofanetto in due volumi che racchiude
l’opera
omnia.
In Italia, fiutando il caso letterario, è la casa editrice Adelphi
che già nel 2005 traduceva Suite
Française
e dava inizio al progetto di pubblicare molte opere di questa
autrice; i titoli usciti sono già numerosi: ne ho contati
addirittura 16.
Va
anche detto che si è parlato di questo caso letterario in termini di
“risurrezione”. E questo è il primo elemento che suggerisce di
associare il caso della Némirovsky al vino se – freschi delle
celebrazioni pasquali – si considera quale significato tale bevanda
gioca nella liturgia cattolica.
3.
Ma c’è di più. Come il vino buono necessita di invecchiare e di
affinarsi prima di essere assaporato in tutte le sue sfumature, così
si può dire anche dell’opera della Némirovsky. Una metafora,
quella dell’invecchiamento, che mi sento di proporre perlomeno per
due ordini di ragioni, per altro opposte.
3.1
La prima è che ci troviamo di fronte a un’autrice a cui la critica
letteraria non ha ancora dedicato grande attenzione, o comunque
l’attenzione dovuta. Mentre i suoi libri riempiono gli scaffali
delle librerie, la saggistica appare in grave ritardo. Su di lei si è
scritto non dico poco, ma davvero poco in relazione al successo delle
vendite. Ma non dubito che questo vuoto sarà presto colmato. Come
storica ritengo che ciò sarà possibile quando i suoi appunti di
lavoro, le sue minute, soprattutto il suo diario, saranno più
facilmente disponibili ai ricercatori: oggi queste carte sono
conservate presso l’Institut de la Mémoire de l’Édition
Contemporaine, Imec, nell’abbazia di Ardenne, in Normandia.
La
maturazione di un adeguato profilo critico, insomma, è appena
iniziata.
3.2
Suite
française
ha un’altra ragione per richiamare la metafora dell’affinamento
della bottiglia di buona fattura. Romanzo incompiuto – o forse è
meglio dire interminato – fu scritto su un taccuino, racchiuso con
altri oggetti “preziosi” in una valigia di cuoio consegnata alla
maggiore delle due figlie, alla piccola Denise. Il 13 luglio 1942 la
Gestapo preleva Irène Némirovsky. È trasferita in un campo di
internamento, poi parte con il convoglio n. 6 e di lei si perdono le
tracce. Sarebbe morta un mese dopo, a Auschwitz: i registri,
annotano, per febbre tifoide Ma il marito continua a sperare, e cerca
in ogni modo di ottenere uno scambio: lui al posto di lei. Otterrà
invece che anche lui, dopo lei, sarà deportato.
Solo
a guerra finita, quando si ebbe notizia della morte dei genitori, la
figlia Denise si decise ad aprire il taccuino. Lo guardò di
sfuggita, credendo che fossero appunti, una sorta di diario della
madre. Per non straziarsi decise di non leggerlo. Quando trovò il
coraggio, capì che non era di un diario che la madre l’aveva resa
custode, ma del lavoro a cui aveva atteso negli ultimi tempi.
Per
non rischiare di perderlo, si mise a trascriverlo, prima battendolo a
macchina, poi al computer. E perché le parve un lavoro pregevole,
benché incompiuto, decise di depositarlo presso il museo della
memoria, a Parigi. Solo allora capitò tra le mani di persone capace
di valutarne lo spessore letterario. E di farne il libro che ha
riscosso il successo di cui si è detto.
L’affinamento
di Suite
française,
insomma, è avvenuto nel cuoio, non in barrique,
e il caso ha voluto che richiedesse circa sessant’anni.
4.
Alcuni tratti della biografia dell’autrice sono utili a
contestualizzare il suo romanzo più celebre, a coglierne la genesi e
ad avvicinarci al progetto.
4.1
Irina (poi francesizzato Irène) nasce nel 1903 a Kiev, in Ucraina,
unico frutto di un matrimonio non tra i più felici. Il padre,
piccolo commerciante ebreo, porta un nome che la dice lunga sul
destino della famiglia: Nemirovski
= «colui che non ha pace». Anche la madre è ebrea, ma rampolla di
una famiglia di un certo rango, poi decaduta, abituata a passare
qualche tempo a Parigi ogni anno. Se il padre è quasi sempre
assente, perché preso dal lavoro, la madre è invece assente per
altre ragioni: è una donna arida, interessata solo alla sua
bellezza, e al suo successo.
Irène
cresce con l’unico affetto vero, presente, di una governante
francese. Anche per questo parla (e scrive) francese prima ancora di
parlare (e scrivere russo), ma presto padroneggerà quasi altrettanto
bene l’inglese e il tedesco, e si farà nel tempo anche un po’ di
rudimenti di finlandese, di svedese e di yiddish.
Le
condizioni socio-economiche della famiglia migliorano sensibilmente
negli anni della Grande Guerra; il padre fa fortuna con speculazioni
azzardate e ciò consente alla madre di realizzare i suoi sogni:
ascendere nella scala sociale, lanciarsi in spese pazze, gioire tra
balli e una girandola di amanti.
Per
ragioni di affari e di opportunità sociali, si trasferiscono a San
Pietroburgo (allora Pietrogrado) in un grande appartamento, una casa
strampalata dove tutto è di troppo e quel troppo è ammassato alla
rinfusa. Come in un covo di ladri: argenteria comprata alle aste,
senza neppure togliere le cifre degli antichi proprietari, pellicce
di zibellino accatastate in armadi pieni di naftalina, pregiate
bottiglie di Barsac dolce servite in bicchieri di Baccarat per lo più
sbreccati. Ma «nessuno se ne preoccupava, tutti sembravano convinti
che quella ricchezza era passeggera, che sarebbe sparita così
com’era nata.» (Il
vino della solitudine,
p. 92). Ad accompagnare lo status di nuovi ricchi aumenta lo stuolo
di servitori; ma la ragazzina, sempre più sola, trova conforto
soprattutto nei libri e nei suoi primi esercizi di scrittura.
I
dati originari sono tutti qui. Come diceva François Guizot, uno dei
padri della storiografia moderna, bisogna sedersi accanto alla culla,
indagare cioè le origini, se si vuole cogliere i caratteri
principali di una persona come di una nazione. Se c’è una cifra
che ci dà conto di cosa sono stati per lei questi anni di
formazione, questa è dunque la solitudine. Difatti IN descriverà
questi momenti in un romanzo di chiara ispirazione autobiografica che
titola, guarda caso, Il
vino della Solitudine.
Educata
alla francese, per Irène il vino è importante: ne apprezza le
qualità, lo conosce e lo sa valutare. Non è un caso se il vino
tornerà un’altra volta nella per nulla facile)scelta dei titoli.
Già affermata scrittrice, rievocherà una pagina tra le meno
gloriose della rivoluzione bolscevica sotto il titolo I
fumi del vino.
Qui è dipinta la p’janka,
parola che in russo significa ubriachezza, e più in generale
bisboccia, gozzoviglia, baccanale e con la quale si indica un preciso
episodio: il saccheggio di vini ed alcolici nei negozi, nelle
abitazioni private, e soprattutto nelle ricchissime cantine degli
zar. Lenin, per scongiurare una sbronza collettiva, ordinò di
distruggere tutte quelle bottiglie. Agli occhi di Irène, ormai
francesizzati, quel saccheggio, quella distruzione, apparirà quasi
un sacrilegio, riassunto in questa frase messa in bocca al
protagonista: «Uomini che lanciano tutt’attorno bottiglie di un
vecchio borgogna pieno di sole francese».
4.2
E il sole francese non è lontano. La barbarie avanza e bisogna
lasciare la Russia: questo diventa l’imperativo per i Némirovsky,
doppiamente in pericolo perché ricchi (nuovi ricchi) ed ebrei. Dopo
un viaggio lungo e travagliato tra la Finlandia e la Norvegia, con i
gioielli cuciti tra le pieghe degli abiti più logori, la famiglia
giunge infine in Francia, così come hanno fatto molti altri. Si
stima infatti che oltre 40.000 russi, lasciato il proprio paese, si
riversarono in Francia: una folla di emigrati in cerca di
sistemazione. A differenza di molti di loro, aristocratici incapaci
di adattarsi alla nuova vita, cioè di mettersi a lavorare, il padre
di Irène non perde tempo e in breve ricostruisce una fortuna. La
vita allora riprende, come prima, anzi meglio di prima. Tornano i
soldi da sperperare in appartamenti che sono vere e proprie
stramberie, in macchine lussuose, in diamanti e, naturalmente, in
fiumi di champagne: in un peregrinare da Parigi a Biarritz (la
Biarritz lanciata dall’ultima imperatrice dei francesi), da
Deauville a Vichy, a Cannes, e poi di nuovo Biarritz e Parigi.
Una
vita frenetica, sregolata, vana e futile, insomma. Con cui Irène ha
un rapporto conflittuale. Ama e odia questa vita al tempo stesso.
Odio: in particolare detesta la madre, che mai si è interessata a
lei e che, di più, ora la percepisce come una possibile rivale e per
questo la costringe, già diciottenne, a vestire come una ragazzina e
a portare lunghe trecce. Amore: siamo negli anni Venti, nei ruggenti
anni Venti, e la musica americana imperversa, così come il cinema.
Questo è ciò che la giovane Irène Némirovsky più ama: il ballo
(intere notti passate a ballare) ma anche andare al cinema e al
teatro, stare con gli amici, prima russi, poi francesi, insomma
divertirsi. Così come, per la prima volta, trova godimento nello
studio: costretta da sempre a lezioni private, a Parigi conosce lo
studio serio e approfondito. Conseguirà due diplomi in Sorbona: in
letteratura russa e in letteratura francese.
Soprattutto
– teniamo presente il significato del suo cognome - Irène ha
bisogno di pace, di costruirsi una vita sua, ritagliata sui suoi
gusti, sui suoi progetti. Ora sa che la pace può esistere perché ha
trascorso una vacanza in campagna presso la famiglia di un’amica
francese: ha conosciuto, lì, la quieta e solida borghesia della
Francia campagnola. Così, non appena si presenta l’occasione
giusta, si allontana dalla famiglia per ritagliarsi una vita tutta
sua, tranquilla, intima, affettivamente normale. Sposa Michel
Epstein, anche lui ebreo emigrato dalla Russia, figlio di un
banchiere e impiegato per un importante gruppo finanziario. E inizia,
al contempo, la sua attività di scrittrice.
4.3.
Veniamo alla carriera: c’è qualcosa di fiabesco nel modo in cui
riesce a imporsi con la sua scrittura descrittiva e realista negli
anni in cui infuriano i movimenti d’avanguardia: mentre si spengono
i fuochi del dadaismo e già prende forma il nascente surrealismo,
lei legge avidamente Proust, si ispira a Flaubert, a Balzac, medita
Corneille e Racine. E scrive e riscrive, per ben quattro anni, un
romanzo.
La
storia del suo esordio è un piccolo romanzo a sé: nel 1929 invia
all’editore Grasset un manoscritto in vista di una valutazione. Si
tratta di David
Golder,
la storia di un finanziere ebreo alle prese con i bolscevichi per
ottenere concessioni petrolifere. L’editore, entusiasta, chiede di
incontrare l’autore ma il manoscritto non è accompagnato da un
indirizzo, bensì da un nome maschile e da un numero di cassetta
postale. Grasset fa dunque scrivere, ma nessuno si presenta; mette
allora annunci sui giornali (tanto per aumentare la suspence)
e un mese dopo, con sua grande sorpresa, scopre di aver a che fare
con una giovane donna di soli 26, la quale ha tardato a rispondere
perché costretta a letto per le conseguenze di un parto non
facilissimo. Golder
avrà un successo “strepitoso”: l’inizio di una brillante
carriera letteraria.
Sulla
quale sorvolo; non c’è tempo per ricordare i molti romanzi,
racconti brevi, saggi, recensioni che escono dalla sua infaticabile
penna. Basterà dire una cosa: alcuni racconti saranno ospitati dalla
«Revue des Deux Mondes», l’olimpo delle lettere francesi.
4.4
Siamo giunti agli anni Trenta: il successo è arrivato, la carriera
di scrittrice è avviata, Irène e il marito sono una coppia felice,
abbastanza serena, allietata dalla nascita di due bambine, di cui
Irène si occupa teneramente (la nonna invece le ignora: divenire
nonna vuol dire misurarsi con il tempo).
In
realtà c’è il problema dei soldi, che non bastano mai dopo la
morte del padre: rovinato dalla crisi del 29, aveva messo ciò che
gli restava in testa alla moglie la quale non passerà mai nulla alla
figlia.
Ma
c’è un’ombra ben più grave all’orizzonte: i coniugi Epstein
sono una coppia di ebrei, per di più apolidi. Di fronte al
precipitare della situazione, tentano più volte di ottenere la
cittadinanza francese facendo leva proprio sulle riconosciute e
apprezzate qualità letterarie di Irène: di una straniera che con il
suo lavoro dà lustro alle lettere francesi. Ma in Francia
l’antisemitismo è ormai forte, l’ostilità contro gli stranieri
è in vertiginosa crescita. Sicché solo le figlie otterranno la
cittadinanza, in virtù dello jus
soli.
Irène non lascia intentata neppure un’altra strada e tutta la
famiglia, nel 1939, si converte al cattolicesimo.
Sappiamo
però che neppure questo passo la metterà al riparo dalla violenza
nazista, dalla discriminazione del razzismo su base “biologica”.
5.
E qui c’è da porsi una domanda: perché questa grande scrittrice,
apprezzata anche al di là della Francia, non si è messa al riparo,
come hanno fatto molti intellettuali, lasciando l’Europa? Su Irène
Némirovsky per decenni è calato il silenzio, ma alla fine degli
anni Trenta era un’autrice molto rinomata. Le sue opere erano
tradotte in moltissime lingue, alcune furono lo spunto per lavori
teatrali e per il cinema: la trasposizione cinematografica di David
Golder,
ad esempio, fu il primo film sonoro realizzato in Francia. Aggiungo
che era pagata molto bene (guadagnava tre volte più del marito).
Insomma, negli anni Trenta il suo era un nome di quelli che contano
davvero, a cui si aprivano le porte … O meglio, quasi tutte.
Non
c’è una risposta sicura, completa, che tutto spiega, ma si possono
fare congetture. Di certo sapeva, ed era stata avvertita. Si sa che
ha rifiutato il consiglio di uno zio di raggiungerla a New York.
Eccessiva fiducia nel proprio status privilegiato di scrittrice?
Anche questo è plausibile, e le lettere di alcuni editori lo
confermano.
Ma
c’è un altro elemento che aiuta a capire.
Bisogna
tenere presente che nulla vale più della famiglia per questa ebrea
ukraina che, a dispetto dei soldi, è cresciuta come una senza
famiglia. E la Francia è stata la prima famiglia che Irène ha
conosciuto; la Francia – sono parole sue, vergate negli anni Trenta
– è «il paese più bello del mondo». Il suo primo rifugio, caldo
e accogliente, il suo primo luogo di pace. Sicché non si può
abbandonarlo: né si può emigrare in eterno; alla fine bisogna pur
mettere radici. E difatti, anche all’ultimo momento, quando gli
Epstein avrebbero potuto fuggire in Svizzera, neppure ci provano.
Ora,
per come si è comportata e, soprattutto, alla luce del suo ultimo
lavoro, mi sento però di affermare anche un’altra cosa. La
tragedia, Irène Némirovsky, l’ha voluta subire. Al pari di
Socrate, ha bevuto la cicuta, come atto di suprema obbedienza pur nel
disprezzo dei suoi giudici. E per mostrare, a differenza di Socrate,
l’ingiustizia della Legge e, più in generale, la colpevolezza di
un’intera civiltà, della nazione francese, la nazione colpevole di
aver tradito i suoi alti ideali – uguaglianza, libertà, fraternità
– non avendo saputo, né voluto, proteggere i deboli e i più
indifesi.
Ma,
così, siamo già dentro la genesi di Suite
Française.
6.
Il contesto, innanzitutto: con la sconfitta delle armate francesi, e
la divisione della Francia tra una zona occupata e una cosiddetta
“libera” (lo Stato di Vichy, filonazista), inizia l’emanazione
di differenti statuti riguardanti le persone di razza ebraica, sempre
più subdoli, sempre più minacciosi. Per effetto immediato di queste
disposizioni, il marito perde il lavoro, Irène non può più
pubblicare e soprattutto essere pagata, ma aggirerà questi divieti
con dei prestanome. Nella zona occupata, dove si trovano gli Epstein,
gli ebrei apolidi possono essere prelevati in qualunque momento.
Insomma anche per loro, come per tutti gli ebrei, il presente diventa
estremamente difficile e pericoloso.
Ed
è nel corso di questa tragedia, che riguarda migliaia di persone,
che nasce Suite
Française.
7.
Il romanzo
è
stato scritto da una donna ebrea tra il 1941 e l’inizio del 1942.
Ovviamente, è un libro che non ha nulla a che fare con la scrittura
della memoria. Non solo perché Irène non è tornata dal campo di
concentramento, ma anche perché niente, non un solo accenno in
questo libro è rivolto al problema delle leggi razziali, della
segregazione, della Shoa.
Ora,
questo è un tratto nuovo. In altri libri, soprattutto i primi, Irène
ha messo a tema l’ebraicità. Ha ritratto la spregiudicatezza
dell’alta finanza ebraica ma anche le condizioni disumane in cui
versano alcuni correligionari nei ghetti. Al punto che c’è chi la
prenderà per un’antisemita.
In
realtà in questi libri Irène Némirovsky affronta un altro
problema, quello di un’assimilazione che lei giudica impossibile.
Un tratto peculiare nella sua ricerca letteraria è ciò che lei
chiama «il calore del sangue»: sinonimo grosso modo di gioventù,
energia e destino, una sorta d’istinto che guida i suoi personaggi.
Calandoci nel personaggio “ebreo”, ciò è come dire: non ci si
può togliere l’ebraicità di dosso, neppure quando si è giunti ai
vertici del successo.
L’assenza
della questione ebraica, tuttavia, non significa che questo non sia
un romanzo di denuncia, d’impegno, con implicazioni anche morali.
Al contrario.
8.
Ritorno a una frase centrale: «Il paese più bello del mondo»: così
Irène Némirovsky vede la Francia negli anni Venti, quando vi giunge
dopo essersi lasciata alle spalle i pogrom di Kiev e la Russia dei
bolscevichi. Ora, Suite
Française
è il rovesciamento di questa percezione giovanile, è lo
sradicamento dal suo cuore dei sentimenti che ha a lungo coltivato
nei confronti di questo paese. Quantomeno lo è l’inizio del
romanzo: laddove ritrae in modo impietoso la fuga dei francesi, la
rotta all’arrivo dei tedeschi.
Non
pochi critici, per altro, vi hanno visto in filigrana il racconto
dell’altra emigrazione da lei vissuta, quella che ha coinvolto
migliaia di persone che fuggivano la guerra civile. Il dramma,
mutatis
mutandis,
è lo stesso. E stesse sono le miserie umane, gli egoismi, la
vigliaccheria, in rari casi l’eroismo e l’altruismo, che in tale
contesto possono affiorare.
Così,
nel suo ultimo lavoro, gli estremi infine si toccano: questa donna
slava ed ebrea – ma francese per cultura, indole, elezione –
ritrova «nel paese più bello del mondo» lo stesso calice amaro che
i suoi antenati hanno dovuto bere per secoli. Per parte sua, non si
sottrae al destino. Ma il suo compito più urgente, dato che non le
resta più nulla, è di denunciare la follìa di un’epoca.
Scrive
Suite
française tra
il 41 e il 42, intermezzando i racconti che deve mandare a Parigi se
vuole continuare a sfamare la sua famiglia, ma ritagliandosi uno
spazio suo (a suon di medicinali). Uno spazio per la sua creatività
e per il piacere che ancora trova nello scrivere.
Uno
spazio questa volta non censurato: negli ultimi tempi, la necessità
l’ha spinta a scrivere racconti “piazzabili”. Ma questo no:
Suite
Française è
il suo grande lavoro, dove gli odii, le amarezze, il disprezzo
accumulati negli ultimi tempi possono infine tradursi in pura
creazione letteraria. Qui – per ritornare al tema del nostro
incontro – si coglie appieno quell’acidità “elevata”,
“marcata”, che tanto si apprezza nei vini corposi.
9.
Da un appunto del suo diario: «Mio Dio, cosa mi combina questo
paese? Dal momento che mi respinge, osserviamo freddamente,
guardiamolo mentre perde l’onore e la vita».
Il
progetto da cui muove Suite
française
è dunque quello di raccontare, freddamente, lucidamente, la disfatta
morale del paese più bello del mondo. E il programma enunciato nel
titolo, un chiaro calco delle Suites
françaises
di Bach, è rispettato: l’opera è concepita come un insieme che
avrebbe dovuto scandirsi in cinque movimenti. Il che, per inciso,
farebbe pensare alla Suite
n. 1
(o alla sesta sinfonia di Beethoven). Come che sia, Irène Némirovsky
redasse i primi due movimenti, abbozzò il terzo, poco o nulla riuscì
a scrivere del quarto e del quinto.
Sotto
il profilo stilistico, l’idea davvero innovativa è quella di fare
un romanzo in presa diretta, come nel cinema, componendo sull’onda
degli avvenimenti, di quadri che cambiano continuamente sotto i suoi
occhi. Di qui l’assillo della documentazione, per lei che da sempre
è in cerca di realismo: trovare a tutti costi i giornali, studiare
mappe geografihe, avere colloqui con i testimoni. E tutto questo
nella consapevolezza della tirannia del tempo, di un tempo che sa che
non avrà.
È
sufficiente richiamare i singoli capitoli per farsi un’idea di cosa
stava progettando:
Tempesta
di giugno
… 1940: la fuga verso le campagne verso il sud, l’esodo.
Introduzione di vari personaggi, perché si tratta di un romanzo
corale, dove gioca una grande varietà di caratteri, di tipi.
Dolce
… l’occupazione tedesca, seguita in un piccolo borgo di campagna.
Focus su alcuni personaggi, e un intreccio d’amore.
Cattività
… entra in gioco la politica; certi personaggi fanno le loro
scelte: chi entra nella resistenza, chi si schiera con Pétain, ma
sotto sotto tiene contatti con la resistenza …. Nb, siamo
all’inizio 42!
Battaglie
…. scenari di guerra, perché la guerra continua ... deve
continuare!
La
Pace
…. perché la guerra, prima o poi, sarebbe finita e ci sarebbe
stata una pace: questa avrebbe potuto essere la Pax
britannica,
o la Pax
sovietica
o la Pax
germanica.
L’ipotesi che potesse trattarsi di una Pax
Americana
– faute
de temps
– non l’ha mai sfiorata.
10.
Entrare nel testo, togliere il piacere della sorpresa, sarebbe un
oltraggio, come sperperare del buon borgogna. Segnalo solo un
passaggio, quasi un flash, dal secondo movimento, Dolce.
Per
riprendere il filo, mi piace sottolineare la centralità di un luogo:
la cantina dell’agiata famiglia su cui fa perno il capitolo.
È
lì che Lucile, donna intelligente, colta, raffinata, ma sacrificata
dalle circostanze della vita, fa la sua vera scelta. Lucile vive con
la suocera, una donna austera, di vecchio stampo, accecata di amore
per il figlio, ora in guerra. Combattuta tra i sentimenti verso
l’ufficiale tedesco alloggiato nella sua casa e la lealtà verso la
sua patria (non certo verso il marito, che la tradisce da anni con
una modista), Lucile sceglie la patria. E questa scelta si consuma in
cantina: lo si capisce dal fatto che vi scende per prendere una
bottiglia per il contadino che ha ucciso un tedesco e che lei
nasconde ai piani superiori.
Ma
a quale rischio! Non solo quello più ovvio, di essere scoperta dai
tedeschi. Ce n’è un altro, che si comprende riportando un pensiero
della suocera: «Il vino in qualche modo fa parte dell’eredità e,
a questo titolo, è sacro, come tutto ciò che è destinato a durare
dopo la nostra morte». Ora, per fortuna in cantina era buio e il
caso ha voluto che Lucile prendesse del normale rosso da pasto.
Perché questa è la realtà: la suocera è disposta anche a farsi
fucilare per aver nascosto il contadino, ma mai le avrebbe perdonato
il sacrificio di una di quelle bottiglie pregiate – gli Chablis
negli ultimi scaffali, o gli Chateaux d’Iquêm sotterrati nella
sabbia – che ha avuto in consegna dal marito per trasmetterle al
figlio (Suite
Française,
pp. 317-8).
Il
capovolgimento di prospettiva è a 180°. Se in I
fumi del vino
Irène stessa si scandalizzava per l’oltraggio al borgogna, ora
questa sacralità del vino, che simboleggia i valori e le tradizioni
francesi, è diventata oggetto di amara ironia, di acido disincanto …
Il cerchio, insomma, si è chiuso.
12.
Ricapitolando:
un romanzo sulla guerra, nel quale l’autrice descrive la lotta tra
l’individuo e la comunità (ne è un esempio la figura di Lucile),
la lotta tra i destini individuali e la Storia, quella con la s
maiuscola: la storia che stritola gli individui non meno dei popoli,
che falcia tutti, siano essi francesi, russi, ebrei.
Un
romanzo ambizioso, da tutti i punti di vista: Irène Némirovsky
voleva scrivere qualche cosa che non passasse, che restasse nel
tempo. Cito un ultimo appunto, del 1941: «Cercare di mettere insieme
il maggior numero possibile di cose, di argomenti che possano
interessare la gente nel 1952 o nel 2052». Date che, nella sua
mente, significavano un tempo di pace - uno più vicino uno più
remoto – ma sempre di pace.
E
allora: la guerra, la pace, la Russia, la Francia … Come non
pensare che siamo all’ombra del grande capolavoro di Tolstoj? A cui
Irène Némirovsky si è realmente ispirata, lo mostrano tanti passi
dei suoi appunti. Ma da cui prende le distanze se ciò che ha
lasciato, a ben vedere, è un grande affresco dove c’è Guerra
ma
nient’affatto
Pace.