Come promesso riportiamo qui sotto il testo integrale della relazione presentata l'ubdici marzo scorso al primo incontro di Un vino un libro.
Buona lettura!
IGIENE DELLA LETTERATURA
Il
favoloso mondo di Amélie Nothomb
«Ma
il poeta dice: nessuna
cosa è dove la parola manca»
Martin
Heidegger
«Avevo
continuamente fame di cibi infami»
«Nessuno
conosce un individuo come il suo assassino»
«Che
errore, Nina! L'amore non ha nessun senso, ed è per questo che è
sacro»
Amélie
Nothomb, Igiene
dell'assassino.
Recensione
di: Amélie Nothomb, Igiene dell'assassino,
Voland, Roma 2010 (sesta edizione - prima edizione in italiano 1997),
trad. di Biancamaria Bruno - (in italiano anche in Guanda 2002,
stessa traduttrice; prima edizione originale in francese 1992).
Dovendo
decidere quale libro portare a questa nostra duplice degustazione,
letteraria ed enologica, ho chiesto consiglio a mio figlio Giorgio.
“Parla di Igiene dell'assassino della
Nothomb”, mi ha suggerito senza esitazione alcuna. Susanna, mia
moglie, ha subito obiettato che era impossibile parlarne. Che non era
il caso. Troppi dialoghi, troppo filosofico, troppo astratto, troppo
“anomalo” come romanzo; troppo meta-
(metaletterario, metanarrativo), originale e bellissimo, certo, ma
insomma troppo irraccontabile. Da leggere sì, ma da non raccontare.
Interessante prospettiva questa, mi sono detto.
Poi ho pensato che “l'irracontabile” di Susanna non fosse in una
prospettiva teorica e critico-letteraria, ma fosse l'acuta
annotazione di un mio limite di recensore, o più opportunamente il
timore che con un libro del genere io potessi partire per lunghi e
tediosi voli pindarici di ermeneutica letteraria, uccidendo invece
che ravvivando l'interesse alla lettura.
Se
stasera sono qui, non è solo perché vi voglio bene,
come dice la canzone, ma per raccogliere una duplice sfida: quella
implicita nell'immediatezza giovanile del mio primogenito, quella di
mia moglie ben più meditata e argomentata. Va da sé che, se stasera
sono qui con Igiene dell'assassino,
è anche perché questo libro è piaciuto a tutt'e tre e l'autrice
c'intriga non poco.
Amélie
Nothomb (vero nome Fabienne-Claire) nasce nel 1966 in Belgio, ma vi
rimane poco. Il padre, un diplomatico belga d'illustre lignaggio, si
sposta con la famiglia subito, nei primi anni di vita della figlia,
in Giappone, Cina, Stati Uniti, Bangladesh. In Bangladesh Amélie
soffrirà di anoressia, a 17 anni ritorna con la famiglia in Belgio,
si laurea in filologia classica, ritorna in Giappone per lavorare ed
approfondirne la lingua (che sente come sua lingua materna) e dopo
varie vicissitudini torna in Belgio. Per sua ammissione tutti i suoi
viaggi sono stati di fatto dei ritorni, personalmente direi anche
delle “fughe”. Nel 1992, subito dopo la Guerra del golfo,
pubblica il suo primo romanzo Igiene dell'assassino.
Attualmente – pubblicati a cadenze pressoché annuali – ha al suo
attivo circa 23 romanzi, ma per sua ammissione ne ha scritti 81. I
suoi romanzi vanno dalle 100 alle 150 pagine e pare che abbia venduto
qualcosa come 18mln di copie nel mondo. Ulteriori particolari
biografici li potete trovare su internet. La rete è particolarmente
generosa di occorrenze, anche filmate, di questa scrittrice.
Personalmente vi consiglio di ascoltare un incontro fatto alla Scuola
Normale Superiore di Pisa il 24 Febbraio 2015 che trovate su youtube,
in cui viene presentato un nuovo romanzo, Petronille,
e a cui questo mio intervento deve molto.
La costruzione del personaggio riveste particolare importanza in
A.N., perché il personaggio, il protagonista delle sue opere è
quasi sempre lei, come donna e come scrittrice. Detto così, capisco
che posso essere frainteso e chiarisco subito: i suoi scritti sono la
prova della non esistenza della “scrittura di genere”, con buona
pace di chi la pensa diversamente. La N. costruisce i suoi personaggi
così come nella vita di relazione costruisce e gestisce se stessa,
ovvero la sua “immagine”, in una maniera che, definirei con un
certo azzardo, dannunziana. Per carità, è decisamente più carina,
ironica e apparentemente più leggera del nostro D'Annunzio; dotata
di senso dell'umorismo ed eccentrica, e poi non si atteggia a vate.
Insomma, dannunziana ma più simpatica del D'Annunzio. In lei vita
biologica e vita letteraria coincidono; magari, è legittimo pensare,
limitatamente all'immagine pubblica (presentazioni dei libri,
interviste), limitatamente a quella vita di relazione che definiamo
professionale. Ma non è detto.
La
sua figura – sostanzialmente esile – è icona ibrida e variegata:
una gheisha
occidentale, dal sembiante a volte pallido di una maschera incerata
del teatro nō, sempre in vesti dark da Lady Gothic, con
improponibili cappelli neri e incombenti. Alternativamente,
un'ombrosa pamela o una sorta di sproporzionato cilindro ripiegato in
due che le dà l'allure di
una strega androgina, ma al contempo fragile.
Il
“personaggio” Amélie sembra non lesinare particolari della sua
vita privata: l'aver sofferto di anoressia e bulimia, l'aver risolto
con la scrittura questa volontà di annullamento, o meglio, più che
risolto, tenuto sotto controllo; il mangiare tuttora schifezze e il
prediligere smodatamente lo champagne; lo scrivere solo a penna – i
suoi manoscritti sono “veri” manoscritti – e il riporre i suoi
romanzi ancora inediti per tutta la casa in scatole di scarpe. Il suo
sentirsi straniera ed estranea a qualsiasi latitudine e il suo non
essere (non voler essere o non riuscire ad essere) né di
Eva né di Adamo (che è il
titolo di un suo romanzo del 2007). Si ha la sensazione che la N.
porti sulla scena pubblica e incarni in se stessa la medesima cura,
fantasia e raffinatezza con cui scrive. La medesima fascinazione del
limite, dei tabù e della morte, le medesime contraddizioni, la
medesima astinenza e voracità con cui intreccia le sue storie.
Perché sì, nonostante quello che ho detto fin ora, che la potrebbe
equiparare ad un fenomeno fatuo, commercialmente costruito, della
scrittrice maledetta e di successo, le cui vendite sono proporzionali
alla visibilità sui media, A.N. è autrice colta, raffinata e
creativamente efficace. Un geniale ermafrodita della letteratura che,
secondo quanto ci si sarebbe aspettato, avrebbe potuto diventare un
autore di nicchia, per palati esigenti, mentre in realtà ha ottenuto
un successo planetario e pure trasversale.
Dal
punto di vista dei contenuti, molti dei libri della N. sono storie di
autofiction, detto
alla francese e non all'inglese, mi raccomando, perché il termine è
nato in francia ed è stato usato per la prima volta dallo scrittore
francese Serge Doubrovsky nella 4a di copertina di un suo romanzo del
1977 (Fils). E ciò,
con buona pace dei filominimalisti angloamericanofili che pretendono
per i loro beniamini il primato, anche terminologico, dell'inventio
leteraria.
L'autofiction
è un “mentire raccontandosi”.
Un autobiografismo non tanto occulto e mascherato, quanto palese e
menzognero allo stesso tempo. Un autobiografismo trasfigurato,
elaborato, variato ed esagerato dalla fantasia letteraria, ma
poggiantesi su aspetti della vita reale e delle esperienze di chi
scrive.
Nello
specifico A.N. ha 5 romanzi (una sorta di pentalogia, o meglio di
“pentateuco”) che rispondono smaccatamente ai canoni
dell'autofiction:
Metafisica dei tubi
(2000), una non-biografia teologica dei primissimi anni di vita
dell'autrice in Giappone; Sabotaggio d'amore
(1993), la storia del periodo subito successivo, vissuto nella Cina
della Banda dei quattro, a Pechino, in un apposito ghetto per i
diplomatici e le loro famiglie; Stupore e tremori
(1999), dove si racconta l'esperienza di lavoro umiliante ed
esilarante di A. presso una multinazionale giapponese – prima del
ritorno definitivo in Belgio - dove farà una vertiginosa carriera
da impiegata ad addetta delle pulizie dei cessi; Né di Eva
né di Adamo (2007), una storia
d'amore con un giovane studente giapponese di buona famiglia a cui
insegnava la lingua francese, che sancisce la sua equidistanza
astinente, forse asessuata, fra maschile e femminile; Biografia
della fame (2004), in cui con
ironia e originale humor ci racconta i viaggi e gli spostamenti da
adolescente con la sua famiglia, attraverso il filo conduttore della
fame, della sua storia nei secoli e del vuoto dell'anoressia in cui
cadee
da cui riesce a sottrarsi grazie alla letteratura.
Come
abbiamo detto, Igiene dell'assassino
è il suo primo romanzo. Spaventosamente perfetto per essere un'opera
prima. Ma anche seconda e terza, per dire...
Il
premio Nobel per la letteratura, Prétextat Tach, tanto obeso quanto
famoso scrittore, misantropo e soprattutto misogino, fra due mesi è
destinato a morire per una rarissima malattia: «Non
senza legittimo orgoglio il signor Tach si seppe colpito dalla
temibile sindrome di Elzenveiverplatz, chiamata più volgarmente
“cancro delle cartilagini”, che lo studioso eponimo aveva
scoperto nel XIX secolo alla Cayenna in una dozzina di ergastolani
reclusi per violenza sessuale con annesso omicidio, e che da allora
non si era mai più ripresentata» (p.5).
Alla
notizia gli organi d'informazione di tutto il mondo si mobilitano
subito per intervistare lo scrittore dalla morte annunciata. Il suo
segretario Ernest Gravelin – che non ha rapporti diretti con il
burbero ottantatreenne, ma solo telefonici (abita al piano superiore
dell'appartemento di Tach) – seleziona, fra le molteplici
richieste, 5 incontri con alcuni giornalisti locali. Si presenteranno
nell'antro dello scrittore quattro uomini, che restano anonimi, e
infine una donna dal nome anonimo, banale, Nina, che è l'essenza
stessa di un diminutivo. I primi 4 giornalisti maschi verranno
irrisi, malmenati dalla logica argomentativa tagliente e dalla
raffinata retorica del premio Nobel, 4 duelli senza storia, e
liquidati infine a male parole. I primi 4 incontri sembrano “sedute
di riscaldamento”, come si dice in gergo sportivo, dove lo
scrittore stigmatizzerà brillantemente l'ignoranza, la mala fede e
il politicamente corretto, ipocrita e superficiale, dei mezzi
d'informazione. Con la femmina invece s'instaurerà da subito un
duello sul piano esistenziale, senza esclusione di colpi, una tenzone
epica dove verranno alla luce teribili segreti, delitti, efferatezze
di una mente diabolica, insomma un giallo vero e proprio e che
quindi, come di prassi, non vi racconterò. E tutto sul filo di
dialoghi in cui cattiveria pura, pura crudeltà, filosofia, teologia
e letteratura saranno protagonisti indiscussi. Ma la filosofia, la
teologia e la letteratura non addolciranno né alleggeriranno gli
orribili eventi che emergeranno progressivamente dal passato della
vita dello scrittore. Anzi, costituiranno lo strumento di una lucida
e insieme malata analisi, che porterà all'inaspettato epilogo l'uomo
e la donna, o meglio, sarà il caso di dire, il maschio e la femmina.
Sono
i dialoghi la magistrale essenza stilistica di questo romanzo. Tant'è
che ne è stata fatta anche una versione teatrale nel 2012 dal Teatro
Stabile d'Abruzzo con Eros Pagni. Il nucleo contenutistico è
oltremodo vario e profondo, potremmo dire anche metafisico e
metaletterario. Ma anche etichettare così è sicuramente riduttivo
se pur nobile, in quanto nel racconto della N. c'è anche un'estrema
concretezza e fisicità, derivante dall'attenzione spasmodica al
corpo e alle sue possibili rappresentazioni. Lo scrittore obeso, con
i suoi tic e le sue infinite idiosincrasie, la giornalista magra,
battagliera e invadente, che
pur tuttavia diverrà nello scontro l'alter ego,
il doppio rovesciato, dello scrittore. «Scrivere
col corpo»
e «partorire
libri»
sono del resto espressioni ricorrenti nelle interviste di A.N.
Si
è detto che Amélie non è una rappresentante della scrittura
cosiddetta “di genere” (insomma, “femminile”), ma anche i
suoi libri – ed in particolare questo – sfuggono alla
rubricazione in “generi”, quella classica e consolidata. Certo,
si è parlato di autofiction,
di giallo e di metaletterario, nel caso specifico, ma
fondamentalmente l'opera della N. è ibrida ed esistenzialmente
pervasiva, tanto da non poter essere incasellata in nessuna delle
griglie tradizionali care alle storie letterarie, che per loro natura
tendono ad archiviare, una volta per tutte e in maniera consolante,
anche i capolavori. Scrittrice filosofica, ma leggera, ironica e
divertente, ama ricercare l'armonia fra il sé ed il mondo (dice).
Personalità solipsistica e tragica per certi versi, sembra voler
realizzare un'aseità
onnipotente –
quell'attributo dato a Dio dalla filosofia scolastica medievale, di
perfetta indipendenza ed autosufficienza, di perfetta trascendenza –,
soffrendo pur tuttavia della pesantezza dell'essere e dell'esistere.
Molti
lettori e critici, specialmente sul versante femminile, hanno visto
in Nina, l'agguerrita giornalista investigatrice dell'Igiene
dell'assassino, la scrittrice
stessa, mentre per sua esplicita ammissione l'identificazione vera è
quella con Prétextat Tach, perché «dentro
il corpo dell'obeso c'è sempre un'altra persona», dentro il corpo
(si badi, il corpo, non solo la mente) di Prétextat Tach c'è A.N.
Costruirsi
e autodistruggersi, al contempo, è l'ideale paradossale di chi
soffre di disturbi alimentari, di chi, come l'autrice, sente la
pesantezza d'esserci e nel tentativo di costruirsi – rendersi
immune – di fatto anela a liberarsi da se stessa. Ma ecco che nella
vita, così come nell'opera di A.N., scoppia un'epifania: la lingua è
il livello più alto di realtà; e conseguentemente la scrittura è
quel “luogo” - anch'esso paradossale – dove si verifica la
pienezza dell'essere e la dimensione analitica della coscienza che lo
nega. Esistere e pensare sono contraddizioni: chi esiste non pensa
(gli animali, le piante, il mondo inanimato), chi pensa non esiste, o
esiste se scrive, solo se scrive. Linguaggio e scrittura come “tao”
- come “via” paradossale (la “via della scrittura”), percorso
esistenziale di autosussistenza efficace; io sono perché scrivo
storie di me stessa e, scrivendo storie di me stessa, scrivo della
realtà tutta.
La
poliglossia di A.N., l'aver studiato filologia classica, ha giovato
al suo stile letterario e alla sua “voce” inconfondibile. I suoi
romanzie ed anche il primo, Igiene
dell'assassino,
sono costellati da una raffinata mappa di giochi di parole, giochi
etimologici e calembours.
Un lussureggiare lessicale e sintattico che pur tuttavia riesce ad
equilibrarsi, a trovare la sua giusta misura, attraverso un periodare
godibile, secco ed essenziale. Questa “voce” è talmente
credibile e, di più, retoricamente persuasiva da saper scivolare
nelle sue invenzioni dal reale al surreale con una facilità
affascinante, senza che il lettore percepisca il passaggio, se non a
posteriori, quando ormai la “sospensione dell'incredulità” è
cosa fatta e non si può più tornare indietro. Provare per credere.
Seguace
del motto latino nomen
omen,
la scelta dei nomi dei personaggi nelle sue opere nasconde sempre il
segreto di un destino, il significato di una premonizione, di un
presagio, o semplice e sbrigliata creatività ironico-fantastica. Ad
esempio, il nome dell'immaginario studioso, scopritore
dell'altrettanto immaginaria ed eponima sindrome letale da cui è
affetto il protagonista, Elzenveiverplatz, è un mélange
di termini germanici, dove è ravvisabile una “platz”, “piazza”,
e per assonanza un “Eisen”, “acciaio” (si sta parlando di
“cancro delle cartilagini”!). Propriamente, poi, “Elzen” in
olandese è “ontano”, albero dai molteplici significati occulti,
che attingono alla mitologia celtica e non solo; evocatore di
paesaggi palustri, umidi e putridi. Ma non sovrinterpretiamo,
fermiamoci a questo punto.
Il
nome stesso dello scrittore, Prétextat, pur attestato già in antico
(fu il nome di un santo martire, il vescovo di Rouen del VI sec.; e
questa origine la si menziona esplicitamente anche nel romanzo), è
stato tuttavia da alcuni collegato a “pre-texte”, “pre-testo”,
ovvero la parte biografica vera che si situa “prima del testo”,
prima della finzione letteraria. Oppure, per via etimologica, è
stato collegato al termine latino praetexta,
la toga orlata di porpora, indossata dai giovani romani dall'infanzia
fino all'età virile, in questo riconoscendo un'allusione
all'ossessione del personaggio nei confronti della perdita
dell'infanzia. Ma ancora, si potrebbe dire che Prétextat è il nome
di “colui che tesse intorno” (praetexere)
una trama, una rete o una ragnatela dove vengono intrappolati tutti
gli altri personaggi del romanzo. Lo stesso cognome, Tach, infine,
anch'esso attestato e assai comune,
da alcuni è stato collegato alla parola omofona francese tache,
“macchia”, coi sinistri, oscuri presagi che tale termine
comporta.
Dai
nomi, infine, passiamo ai titoli dei libri di A.N. Avrete sicuramente
notato, da quelli già menzionati, che sono anch'essi assai bizzarri
ed originali, a cominciare proprio da Igiene
dell'assassino. Nella sua
bibliografia enumeriamo a caso: Diario di rondine, Uccidere
il padre, L'entrata di Cristo a Bruxelles, Antichrista, addirittura
un romanzo dal titolo Le catilinarie, Dizionario dei nomi
propri e Cosmetica del
nemico. Ma cosa si intende qui
per “igiene”?
Forse “stile di vita”, forse più etimologicamente “arte della
salute”, o codice di comportamento per il benessere dell'assassino
in questione? Anche in questo caso lo scoprirete solo leggendo. Ci
basti qui concludere che i titoli eccentrici dei libri della N. non
sono certo scelte editoriali imposte, ma titoli creati dall'autrice e
rispondenti/funzionali alla sua linguisticamente raffinata strategia
stilistica e narrativa.
Nella
sua veste di metaromanzo (una delle tante vesti di cui abbiamo
cercato di dar conto), vengono riportati anche i titoli delle opere
immortali di Prétextat Tach: Apologetica della dispepsia,
Il solvente, Perle per un massacro, Budda in un bicchiere d'acqua,
Attentato alla bruttezza, Preghiera con scasso, La sauna e altre
lussurie, Prosa della depilazione, Stupri gratuiti tra le due guerre,
Crepare senza avverbio, La grazia concomitante, La crocifissione
indolore ed altre astratte
amenità di questo tipo. Non mi stupirei se alcuni dei circa sessanta
romanzi ancora non pubblicati dalla N. avessero proprio i titoli
delle opere attribuite a Prétextat Tach in Igiene
dell'assassino.
Questo
romanzo si presta bene come strumento – tipo sussidiario – dei
corsi di scrittura creativa che ora vanno tanto di moda anche in
Italia. Non solo infatti c'è la possibilità di smontarlo in tutte
le sue componenti narrative, identificandone i generi e gli
ingredienti, di studiarne l'estrema perizia dei dialoghi (la
scrittura del dialogo è una delle attività più complesse per
l'aspirante scrittore), di evidenziarne la sapiente tessitura
dell'intreccio, sotto l'apparente linearità della successione di 5
interviste, ma è anche un piccolo vademecum di
riflessioni sull'arte e la letteratura, su vezzi e vizii dei
letterati, un piccolo, aureo compendio di teoria letteraria. Che in
quanto tale, per A. N. è teoria esistenziale.
Con
Igiene dell'assassino siamo
di fronte ad un romanzo incompiuto che arriva alla sua compiutezza
sessant'anni dopo; un epilogo che è rivelazione (ogni giallo ha la
sua soluzione) ma anche esito tragico. Del resto «in
una carriera di successo ci vuole un romanzo incompiuto per essere
credibili» (p.10), ci dice Prétextat; e ancora, riguardo al
mestiere dello scrittore, «come vuole che uno scrittore sia pudico?
E' il mestiere più impudico del mondo: attraverso lo stile, le idee,
la storia, le ricerche, gli scrittori parlano sempre di se stessi, e
con le parole. Anche i pittori e i musicisti parlano di se stessi, ma
con un linguaggio molto meno crudo del nostro. No, giovanotto, gli
scrittori sono osceni; se non lo fossero, sarebbero ragionieri,
conducenti di tram, centralinisti, sarebbero rispettabili»
(pp.13-14).
A
cosa mira il protagonista? Ce lo dice la N. stessa, mira a suscitare
«disgusto,
riso ed entusiasmo» (p.33), che è il compito della scrittura più
efficace. A uno dei giornalisti maschi che ha letto superficialmente
un suo libro, Prétextat dice: «Come se scrivessi per scuotere la
gente! Se lei non avesse letto quel libro in diagonale, giovanotto,
come probabilmente ha fatto, se l'avesse letto come bisognava
leggerlo, con le budella, per quel poco che ne ha, avrebbe dato di
stomaco» (p.40) … e ci s'intrattiene sull'estetica del vomito.
E
ancora, sulla lettura e la comprensione: «Sì, i miei libri sono più
nocivi di una guerra, perché mettono addosso la voglia di crepare,
mentre la guerra mette addosso la voglia di vivere. Dopo avermi
letto, la gente dovrebbe suicidarsi.
-
Come spiega che non lo faccia?
-
Questo
poi si si spiega molto facilmente: è perché nessuno mi legge. In
fondo, forse è questa la spiegazione del mio straordinario
successo: se sono così famoso, caro signore, è perché nessuno mi
legge» (p.46), mi legge veramente, aggiungeremmo.
Che
sia anche questo il motivo del successo della scrittrice? Una sorta
di fraintendimento di massa del senso profondo del suo scrivere?
Lettura
(e scrittura) sono come il cibo, come una degustazione di cui non si
può fare a meno, lettura (e scrittura) ci devono modificare,
esattamente come mangiare tanto o poco ci fa ingrassare o dimagrire,
altrimenti siamo dei «lettori-rana»:
«Come
uomini-rana, attraversano i libri senza prendere una goccia
d'acqua...Sono i lettori-rana. Costituiscono la stragrande
maggioranza dei lettori umani, e tuttavia ne ho scoperto l'esistenza
molto tardi. Sono così ingenuo. Pensavo che tutti leggessero come
me; io leggo come mangio: questo non significa solo che ne ho
bisogno. Significa soprattutto che entra nelle mie componenti e le
modifica. Non si è gli stessi che si mangi sanguinaccio o caviale;
allo stesso modo non si è gli stessi se si è appena letto Kant (Dio
ne scampi), o Queneau. In realtà, quando dico “si” dovrei dire
“io e qualche altro”, perché la maggior parte della gente emerge
da Poust o da Simenon in uno stato identico, senza aver perduto una
briciola di ciò che erano e senza aver acquisito una briciola in
più. Hanno letto, ecco tutto: nel migliore dei casi, sanno “di che
cosa parla”. Non pensi che esagero. Quante volte ho domandato a
persone intelligenti: “questo libro vi ha cambiato?”. E mi hanno
guardato, con gli occhi sgranati, con l'aria di dire: “perché
avrebbe dovuto cambiarmi?”» (p.48).
Dalle
metafore che equiparano lettura e scrittura a cibo, e alle modalità
di cibarsi, era inevitabile che il romanzo virasse anche verso
l'altro scontato tòpos
metaforico, la sessualità e l'erotismo (o meglio l'autoerotismo)
(pp.57-62). Ma anche questo approcciarsi di A.N. ad un universo
metaforico in fondo non originale, è fatto con la crudezza, la
potenza e la capacità di rinnovare cose note, proprie di una grande
scrittrice che sa guardare dal suo personalissimo buco di serratura.
Il
duello finale di Prétextat Tach con Nina è il culmine di uno
scontro apocalittico in cui non si sa chi vince o chi perde, o se ci
sono vinti e vincitori. I soliti multilivelli di lettura che ci fanno
sospendere il giudizio, o ci inducono all'azzardo esegetico
destinato, per lo più, ad una piacevole frustrazione. Del resto «la
scrittura comincia là dove si ferma la parola, ed è un grande
mistero il passaggio dall'indicibile al dicibile. La parola e lo
scritto si danno il cambio e non combaciano mai» (pp.118-119). La
scrittura è il solo “dicibile” possibile, dunque?
Il
testo è una “gigantesca cartilagine verbale”, un “tessuto
spugnoso” pronto a riempirsi d'ogni cosa. Esso si riempie
soprattutto di metafore; e cos'è la metafora ce lo dice l'obeso
scrittore: «la metafora è un'invenzione che permette agli esseri
umani di stabilire una coerenza tra i frammenti della loro visione»
(p.132). Ma se la scrittura non può esimersi per sua natura
dall'impiego della metafora, la lettura deve essere “carnivora”,
non metaforica o simbolica. Impresa impossibile dal momento che ci
vien da pensare che lettura e scrittura siano un unico gesto. Un
gesto “criminale” e necessario per Prétextat Tach, perché «di
fronte a un universo informe e insensato, lo scrittore è costretto
ad assumere il ruolo del demiurgo. Senza l'azione formidabile della
sua penna, il mondo non sarebbe mai stato capace di dare contorno
alle cose, e le storie degli uomini sarebbero rimaste sempre vacue,
come strabilianti locande spagnole» (p.137).
Nell'augurarvi
una buona degustazione e una buona lettura, che siano ristoro e
premio per avermi sopportato, concludo questa mia conversazione con
alcune parole del cinico, obeso, geniale e immondamente puro
Prétextat Tach, consiglio ed esortazione per noi e per i nostri
tempi: «modificare lo sguardo: è questa la nostra opera più
grande» (p.49).
Pozzi
di Seravezza, 11 Marzo 2017
Francesco
Parasole