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mercoledì 15 novembre 2017

Riceviamo e volentieri pubblichiamo....

Eventi della settimana con SCUOLA CARVERpalestra di lettura e scrittura con corsi attivi, o in via di attivazione, in tutta la Toscana:

Lunedì 13 novembre ore 18.30Corso Base di Lettura e Scrittura/La Palestra della Creatività alla Biblioteca Civica Agorà di Lucca (docente FrancescoMencacci).

Sabato 18 novembre ore 10.30, oppure ore 15.00Corso Focus Racconto e Poesia/La Palestra della Parola alla Libreria Feltrinelli di Livorno (docente Valerio Nardoni).

Domenica 19 novembre ore 16.15Corso Arte della Narrazione Orale/La Palestra dell'Oralità alla Libreria Feltrinelli di Livorno (docente Giovanni Balzaretti).

Scuola Carver ricorda che domenica 19 novembre alle ore 18.00 alla Villa del Presidente/Ex Mascagni in via Marradi 116 a Livorno (per gentile concessione della Provincia di Livorno/Murseo di Storia Naturale) il nostro direttore didattico Francesco Mencacci presenta, in compagnia di Alessio Casalini (Valigie Rosse Edizioni), Alessandro Granata e Francesco Parasole, il suo libro "Le Stelle Benevole - Otto conversazioni sugli effetti collaterali della lettura"/Valigie Rosse. Vi aspettiamo!

Scuola Carver ricorda infine che è sempre possibile effettuare una lezione di prova gratuita di tutti i nostri corsi.

Buon divertimento con Scuola Carver!


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martedì 18 luglio 2017

L’Aeroplan Servaj ha cambiato vigna…






L’Aeroplan Servaj ha cambiato vigna…

L’Aeroplan Servaj è decollato per l’ultima volta. E’ giunta l’ora di lasciare quella stretta prigione popolata da poche figure e tante ombre, chiamata Terra, e andare oltre. Lo Spazio e la vera libertà lo aspettano. E’ stato il gabbiano Jonathan Livingston a convincerlo: si deve volare più in alto, più veloci, senza pensare al ritorno.

Dove andare?

C’ha già pensato il Piccolo Principe, preparando uno speciale asteroide tutto per lui. Il terreno è quello giusto e ne ha avuto cura per anni e anni una piccola rosa in trepida attesa, Cristina. Lì, l’aeroplano selvatico inizierà di nuovo il suo lavoro, senza cornacchie o avvoltoi a girare attorno al suo campo sorridente. Il vino sarà il migliore del Sistema Solare. Poi… chissà… verso le stelle!

Buon viaggio

Un Amico






Nota della redazione: questo scritto, inviato da un amico di Domenico Clerico, prematuramente scomparso, figura luminosa dell'enologia di Langa, come ricordo e augurio per il suo viaggio nell'Infinito.

lunedì 10 luglio 2017

La relazione del Prof. Paolo Neyroz su Quer pasticciaccio brutto di via Merulana


GADDA: QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA




Una premessa alla versione cartacea di questa edizione di Un vino un libro che mi ha visto coinvolto: Dopo aver consegnato a Lamberto Tosi il mio intendimento di “recensire”, meglio sfruttare: “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, mi ha preso un profondo sentimento di inadeguatezza. Già, perché di Gadda e di quel libro ne avevano trattato monumenti della Letteratura come Calvino, critici di altissimo livello e di vera professione, persone che Gadda lo avevano conosciuto e ne erano stati amici. Io cosa potevo ancora dire? Se non farmi deridere?
Poi il “vino” mi è venuto in aiuto! Non perchè l’abbia bevuto per dimenticare, non solo almeno, mi è venuto in aiuto perché ho ricordato le origini e il significato che si è voluto dare, sin dall’inizio, a questi incontri di “Un vino un libro”: Parlare di un libro così come si degusta un vino, in modo personale, privato, cercare di esprimere le emozioni che ci da, a prescindere dal valore tecnico e/o professionale del nostro apparato gustativo.
Così son ripartito, confermando la mia partecipazione e azzardando il mio intervento di cui cerco di dare traduzione cartacea in quel che segue.

Dunque,
per Calvino, Gadda è l’autore italiano che meglio di altri ha saputo ritrarre il «mare dell’oggettività», il «magma indifferenziato dell’essere», e, soprattutto, «l’unica punta d’avanguardia nella ricerca formale, che possa affiancarsi a consimili esempi stranieri». Si pensi alle affinità con Joice, alla ricerca ritmica del linguaggio, della sua forma e della sua struttura. Si consideri che uno dei siti più ricchi di informazioni e di testi sull’opera di Carlo Emilio Gadda ha sede a Ediburgo: The Edinburgh Journal of Gadda studies.
Ma andiamo al Pasticciaccio.
Pur composto in date sovrapponibili alla Cognizione, fu pubblicato prima, in un intento, tutto gaddiano, di rappresentare in sequenza il "pasticcio" della realtà e poi, il dolore che ne deriva.
Nelle Lezioni americane, Calvino da molto spazio nel capitolo dedicato alle Molteplicità in letteratura a Gadda e al Pasticciaccio, anzi inizia con questa citazione:

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Con quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero 1, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già, Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo».

Calvino coglie in questa citazione quella che è per Gadda la sostanza del romanzo, ma forse ancor meglio ci può aiutare un ricordo anedottico di Giulio Cattaneo (amico fraterno, collega alla RAI e biografo di Gadda):

Poi si chiuse con altri quattro o cinque scrittori e critici in uno studio di via Asiago leggendo le paginette che aveva messo insieme sbuffando. «Le mie naturali tendenze, la mia infanzia, i miei sogni, le mie speranze, il mio disinganno sono stati, o sono, quelli di un romantico: di un romantico preso a calci dal destino, e dunque dalla realtà. è ovvio ch’io abbia chiesto e chieda al romanzo, al dramma e perfino alla cronaca, alla memoria, quel tanto di fascinoso mistero o di appassionata pittura dei costumi e delle anime che solo potevano aiutarmi a perseverare nella lettura…» E concludeva: «Un lettore di Kant non può credere in una realtà obbiettivata, isolata, sospesa nel vuoto; ma della realtà, o piuttosto del fenomeno, ha il senso come di una parvenza caleidoscopica dietro cui si nasconda un quid più vero, più sottilmente operante, come dietro il quadrante dell’orologio si nasconde il suo segreto meccanismo. Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro quei due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia…»

Queste citazioni aiutano a capire ed interpretare le intenzioni di Gadda nel progettare e scrivere il romanzo, romanzo inteso come genere letterario, come modalità di rappresentazione della realtà e dare, di quella realtà, la visione intima dell’autore. Tentativo di giungere alla verità.
In questo, sempre Calvino trova le basi di un parallelo con Robert Musil: il romanzo enciclopedico. Ingegneri entrambi, credono nella loro formazione tecnica e scientifica come strumento superiore per arrivare a quella verità. Così, come Musil può spendere pagine nella descrizione del funzionamento di una leva per sfruttarne le analogie con realtà sociali e venirne a capo, così Gadda inserisce aspetti tecnici, nel panorama del testo, come a sottolineare l’attendibilità della propria visione nel romanzo.
Il Pasticciaccio, scritto tra il 1945 e il 1948 e apparso in fascicoli sulla rivista fiorentina Letteratura, vede la pubblicazione in romanzo solo nel 1957 e dopo lunghe insistenze dell’editore Livio Garzanti che, dopo averne letto la versione finale, ne fu entusiasta e lo paragonò ai Promessi sposi. Gadda non era facile ad essere convinto, Einaudi lo aveva inseguito per lungo tempo, ma alla fine lo pubblicò Garzanti. Tra i capitoli apparsi su Letteratura e la versione finale del romanzo vi sono differenze sostanziali. Alcuni capitoli vennero fusi insieme e altri aggiunti, ma soprattutto il romanzo vide una riscrittura delle parti dialettali con l’aiuto dell’amico Mario dell’Arco. Nella prefazione Citati racconta di questi ed altri fatti storici intorno al romanzo e alla sua pubblicazione. Uno di questi dice molto della personalità quasi bipolare di Gadda: Il Pasticciaccio non ha un finale, e di questo aspetto, il lettore o un editore comune potrebbero essere rimasti insoddisfatti, ma non Garzanti che ne fiutò le basi per un sequel. Citati racconta che, immediatamente dopo la pubblicazione, Gadda stesso gli riferì delle proprie intenzioni a questo proposito e che aveva già in mente un nuovo scritto sulle 130-140 pagine che avrebbe potuto presentare, come flashback, parti dei capitoli apparsi su Letteratura e poi eliminati. Un idea, si direbbe, molto precisa, ma poi passò del tempo e quella determinazione svanì. Tanto che per non farsi inseguire da Garzanti su quella via, utilizzò una sceneggiatura scritta intorno al 1948 e mai realizzata, Il Palazzo degli ori, per svelare, come fosse fatto risaputo, che l’assassina era la procace Virginia Troddu. Come dire: Caro Garzanti non insista, non ci sono gli estremi!
Si è detto del finale del romanzo, che non ci consegna un colpevole e sembrerebbe lecito aspettarsi che, chi scrive, mettesse in ordine i fatti, ma per riassumere la trama di un testo che ha per titolo Quer pasticciaccio brutto... mi caccerei in un impresa che per essere soddisfacente (per chi non ha idea del romanzo) dovrebbe essere analitica e troppo lunga per essere trascritta in questa sede (un riferimento utile lo si può trovare a: Pasticciaccio.trama).
Voglio qui considerare, invece, la caratteristica portante della stesura formale del romanzo: l’uso del romanesco e di altri lessici dialettali (cfr. il molisano di Ingravallo o il commentato napoletano del Funi).
Scritto in romanesco, si è già detto come Gadda si fece assistere da Mario Dell’Arco per una attenta, maniacale, revisione finale del testo. Vennero modificate parole presenti nelle versioni originali dei capitoli della Letteratura e sostituite con altre, più rispondenti all’uso comune del romanesco.
Nel Pasticciaccio Gadda vuole scrivere come i suoi personaggi avrebbero voluto parlare. Un risultato raggiunto con un intensa ricerca, facendosi accompagnare ai mercati popolari (come racconta Citati nella prefazione) e assorbendo le conversazioni della strada. La sua attenzione per i dialetti è testimoniata dal saggio scritto sul Belli in cui teorizza il dialetto come strumento linguistico più vicino alle origini gnoseologiche del linguaggio e della lingua. In cui scrive dello “...schematismo cachettico delle idee seriose”. Ancora, come ricorda Citati, Gadda dice in una lettera a Gianfranco Contini: “Se avessi fiato (cioè gioventù e denaro) vorrei viaggiare tutt’Italia, impadronirmi dei dialetti: fare un pasticcione con interlocutori nei vari dialetti: un settetto di voci con veneto, bolognese, bresciano, romano, fiorentino, napoletano ecc. ecc. come in certi numeri di “variètè”.
Fin qui, ciò che è consacrato del linguaggio del Pasticciaccio, ma l’invenzione gaddiana non si ferma certo al dialetto, o non è solo nell’uso del dialetto; anzi, a me pare che se Gadda fosse un tennista (e mi scuso con chi legge per la metafora) verrebbe da dire che usa di gran lunga il diritto (il romanesco) per tenere su il gioco, ma i punti, le grandi invenzioni, le fa con il rovescio (l’italiano). Come se il dialetto non lo potesse modificare, profanare con sue invenzioni; mentre, questa attività, se la potesse concedere con l’italiano di cui ha totale controllo. Quella “pubertà facinorosa”, con cui fa dipingere a Don Lorenzo Corpi la Virginia Troddu, oppure quel “Dekirkegaardizzava farabuttelli di provincia” con cui definisce una delle attività della Zamira, sono pure creazioni linguistiche, tipiche di Gadda e solo di Gadda.

Si è detto in precedenza del romanzo enciclopedico e Gadda, ora, che siamo entrati nel Pasticciaccio, lasciatemi ricordare la descrizione della locomotiva che arriva alla stazione di Cerveteri, di come sbuffi e di come lavorino gli stantuffi: “...l’aspettazione d’uno straordinario fenomeno: e cioè il travenire nero del convoglio, il sottosoffiare e soprasoffiare del vapore, fluido meraviglioso, che conferisce virtù ed attitudine locomotoria al merci, anche in salita, nonchè al misto 181: il quale difatti, già in ansimo, annunciava il lùbrico gioco de’ manovellismi su su su fu fu fu...”, e come superi grazie a quelli la livelletta dell’Ing. Negroni: “Intanto sopravveniva davvero il feffe-feffe, a tutta faffa:.. nella tragica ascesa della livelletta dell’ingegner Negroni.
Una menzione particolare agli “alluci”: “Con particolare vigore enunciativo, in un mirabile adeguamento al magistero dei secoli, erano effigiati gli alluci”, e come questi siano colti in un affresco di un tabernacolo in localià Due Santi e siano presi a pretesto/simbolo della pittura religiosa rinascimentale: “La storia gloriosa della pittura nostra, di una parte di sua gloria è tributata agli alluci. La luce, e gli alluci, sono ingredienti primi e ineffabili d’ogni pittura che aspiri a vivere...”, e ancora: “Il metatarso medesimo protubera pollice pedagno rivale del michelangiolano e palatino (a significare il miracolo, o meglio l’audicolo, della castità virile) nei Sacri Sponsali dell’Urbinate, oggi a Brera”.
Stessa enciclopedica dedizione la si ritrova, e a Gadda viene spontanea, lui ex-ingegnere minerario, nella descrizione della recuperata refurtiva in gioielli: “...anche, un anello, del suggerimento cristallografico di Dio: memoria, ogni gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio: verace sesquiossido Al2O3 veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe...”.

Desidero aggiungere in questo intervento alcune considerazioni personali che annoterei sotto la definizione di relazioni e eredità di Gadda.
Prendiamo il Montalbano di Camilleri; come per Gadda, il linguaggio di Montalbano non sempre è di facile comprensione, molti termini vengono mutuati dal siciliano, il commissario di Camilleri non “guarda”, ma “talia”. Il romanesco o il molisano di Ingravallo sono sostituiti dal siciliano di Montalbano, ma il risultato (ricercato) è il medesimo: sia Ingravallo che Montalbano sono parte del magma della realtà, ci vivono dentro come parte integrante e si muovono al suo interno. Sono miscibili con la realtà di cui si occupano. L’uso del linguaggio dialettale li rende indistinguibili (coresponsabili) della tragedia in cui si muovono le vittime e i loro carnefici. Il Maigret di Simenon, per fare un esempio, no: Maigret indaga, agisce nella realtà di un crimine, ma poi ha la sua bolla domestica in cui tornare, in cui separarsi dal magma; la moglie, la sua pipa, la sua poltrona sono separate e lo separano dal mondo là fuori.
Più che un eredità, quella con Camilleri la definirei così, quella che sento con la seguente annotazione è una pura relazione a distanza: con il Maestro e Margherita di Bulkacov. Se chiudo gli occhi, di quel romanzo ricordo bene un gatto, forse nero, ma a cui certamente si attribuiscono caratteri magici e diabolici. Gadda trasforma una gallina in diavolo, siamo quasi all’epilogo e il brigadiere motociclista Pestalozzi, ispirato da una soffiata della Mattonari Lavinia, trova nella casa della cugina, Mattonari Camilla, i gioielli sottratti alla contessa Menegazzi. Nel lasciare la casa per essere condotta in commissariato a Marino la ragazza (Mattonari Camilla), attraversando l’aia, osserva ed incrimina una gallina di essere il diavolo che l’ha tradita: “Il diavolo, per la ragazza, s’era tramutato in gallina: quella che nell’orticino fa lo gnorri, e leva peritosa la zampa, e posa: a beccuzzare, scaccozzare. Una delle tre: ma quale? E così, presso casa, tra una stoppia e l’altra, egli tentava con un ovo al giorno (che non si poteva mai sapere quale era, delle tre, quella che l’aveva fatto quel giorno), nella povertà e nella solitudine della campagna senza grangia egli tentava le anime: poi le denunciava al maresciallo, agli informatori del Signore: facendo, lui diavolo, o lei, gallina, facendo tuttodì le viste d’esser solo intento a razzolare, a cercar bachi. ...Diavolo, nun c’era dubbio, e spia, immaginò la ragazza con una mano bicornuta verso i polli: spia, spia: insinuatosi per ispoglie mentite nell’ambito del domicilio, di quel rurale, ferroviale domicilio, eccola, eccolo: se la spasseggiava com’un pollo, col fare, propriamente d’un pollo: come un signore co li guanti gialli a via Veneto, cor vetro all’occhio, cor fiore bianco a l’occhiello: se spidocchiava una spalla, cor becco, tutto superbioso, e poi l’altra: cacarellava, così, come gnente fosse, ma approfittava tratanto de la facilitazione d’esse un pollo, guardava de fianco, proprio come fanno li polli, s’incaricava d’allumà dentro la cucina, si la porta era aperta. ...Registrava di pupilla matta e riteneva di rètina: con quell’occhio laterale che cianno i polli che pare una trovata di Picasso, un oblò del cesso, d’un cesso vuoto di ogni intendimento e d’ogni attitudine a spiare, babordo o tribordo. E invece te guardeno. Si, era il diavolo...”.


Gadda si definiva o avrebbe voluto essere definito un neorealista, Calvino considera il Pasticciaccio il romanzo di e su Roma scritto da un non romano. Le relazioni con il Pasolini di Ragazzi di vita e Una vita violenta sarebbero lineari se non fosse che Pasolini rifiutò sempre ogni parentela con il gran Lombardo. Di fatto, la periferia romana di Gadda anticipa le visioni borgatare di Pasolini. Visioni, che di Roma e dell’Italia, il cinema neorealista ci ha regalato e di quel cinema, Gadda avrebbe voluto far parte, se non altro come compagno di strada parallelo. Con il cinema ebbe però solo una concreta relazione: Un maledetto imbroglio di Pietro Germi. In un certo senso, un avanguardia del cinema preso dai fatti di cronaca che Pietro Germi poi fece, ma Germi e Gadda non si prendevano, o meglio, Germi non si prendeva con Gadda. Le poche volte che Gadda visitò il set non lo voleva e pregava lo sceneggiatore, Alfredo Giannetti, di cacciarlo. Non aveva (Germi) neanche letto il libro e chiedeva al produttore: “«Senti, ma chi è l'assassino? Io non sono riuscito a capire, sono arrivato a metà. Pieno di parole complicate…». Di quel film Gadda concesse la realizzazione, ma non ne fu lo sceneggiatore. Lui aveva scritto una sceneggiatura con Il Palazzo degli ori, ma non ne fece mai nulla. Un maledetto imbroglio fu l’unico film che autorizzò. In quello, la trama e i personaggi sono rivoluzionati: La Liliana Balducci, diviene Banducci, il commendator Angeloni, funzionario pubblico, diviene il commendator Anzaloni, collezionista d’arte, e lo stesso funge da derubato al posto della contessa veneziana Teresa Menegazzi. L’assassino poi si scopre ed è Diomede, fidanzato di Assuntina a servizio nel palazzo. Germi impersonò Ingravallo, ma la fisionomia del Don Ciccio di Gadda era piuttosto quella di un Franco Franchi. In qualcosa però Germi riuscì; a dare un volto reale alle giovani ragazze del Torraccio di Gadda: La domestica Assuntina Crocchiapani di Claudia Cardinale.




Si è parlato dell’invenzione, della rivalutazione gaddiana della gallina come oggetto di descrizione letteraria e non posso pensare come questa non sia stata colta da Dino Risi per il suo film Vedo nudo del 1969. Strutturato in episodi, ha come unico interprete protagonista Nino Manfredi che, nell’indimenticabile “Udienza a porte chiuse”, interpreta un contadino che si deve difendere dall’accusa di aver abusato di una gallina. Interrogato dal giudice, spiega e interpreta le movenze del bipede come e quali esse sono: vere e proprie avances erotiche. In quella recitazione sembra rivivere la gallina-diavolo della Camilla Mattonari, uguali nell’intento traditore e tentatore, quella di Gadda e quella di Risi-Manfredi.

Venendo ai giorni nostri cosa ci rimane di Gadda? L’eleganza di un linguaggio irriverente come linea sommersa, ma presente, di intelligenza.
Alla fine degli anni 60’, non in una rete secondaria, non in una fascia poco seguita, ma su RAI 1 e la domenica pomeriggio, compaiono tre strani personaggi. Uno che prende a male parole il pubblico (lo stesso pubblico normalmente blandito e abbindolato), gli altri due che, in un atmosfera canora dominata dai Claudio Villa e dalle movenze coreografiche di un Don Lurio, cantano e danzano in modo apparentemente improvvisato e sguaiato. Sono il Prof. Kranz (Paolo Villaggio) e Cochi e Renato (Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto), il “variètè” di Gadda con linguaggio reinventato. Il germe che, inoculato e incubato per anni, viene alla luce all’improvviso. Il successo è enorme, ma mi chiedo chi abbia avuto il coraggio e l’intelligenza di scritturare in RAI certi personaggi. Forse la lobby milanese del Derby. Gadda parlava dello schematismo cachettico delle idee seriose e queste avevano i loro portatori e non è escluso che qualche resistenza ci sia stata all’apparire di un nuovo linguaggio. La risposta, ancora più irriverente ed elegante, venne data con alcune canzoni di Enzo Jannacci. Altro personaggio che mi piace vedere come ulteriore inoculo gaddiano nella cultura musicale italiana. Nella Canzone intelligente (interpretata da Cochi e Renato), Jannacci scrivendo idee seriose, cerca di dimostrare quanto siano ridicole allo sciocco in blu (il committente serioso in abito blu):
mi piacerebbe cantar
una canzone intelligente
che segna un filo logico.....importante
e che sia piena di bei ragionamenti
insomma una canzone....intelligente
che farà cantar, che farà ballar,
che farà ballar......lo sciocco in blu..

Un intento tutto gaddiano, come il linguaggio incomprensibile, ma allusivo, visionario e musicale di Silvano:
amami amami graffiami sgonfiami
e amami sdentami stracciami applicami
e dopo stringimi
dammi l'ebressa dei tendini oh jeah
prendimi con le tue labbra caressami
rino non riconosco gli aneddoti
e sfondami spostami tutte le efelidi
aprimi
picchiami solo negli angoli oh jeah
brivido
no non distinguo piu' i datteri
jeah jeah jeah
silvano non volevo dei ciccioli
silvano mi hai lasciato sporcandomi
e la gira la gira la roda la gira
e la gira la gira la roda la gira
e la storia del
nostro impossibile amore continua
anche senza di te


FINE

1 Nel testo, in caratteri blu sono inseriti i collegamenti al The Edinburgh Journal of Gadda studies