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lunedì 22 febbraio 2016

La scomparsa di Umberto Eco

La scomparsa di Umberto Eco, che ha accomagnato le letture di molti di noi, ha giustamento riverbero sulle pagine dei giornali. Ecco alcuni link per un adeguato ricordo del famoso semiologo.




http://www.libreriauniversitaria.it/libri-autore_eco+umberto-umberto_eco.htm?utm_source=Newsletter&utm_medium=email&utm_content=Subscriber%232928977&utm_campaign=libuni_eco_220216


http://www.ibs.it/libri/eco+umberto/libri+di+umberto+eco.html?utm_source=newsletter_ibs&utm_medium=email&utm_term=&utm_content=20160221_eco&utm_campaign=newsletter_ibs_libri


http://www.ilgiorno.it/milano/umberto-eco-morto-1.1807201

La relazione di Francesco Parasole

Riportiamo di seguito la relazione di Francesco Parasole e alcune foto dell'evento
Grazie  a tutti i partecipanti.
Lamberto Tosi













 
Un vino...un libro...
Edizione 2016

Allegorie, distopie & dintorni
in Quando eravamo prede
di Carlo D'Amicis

«Deus sive natura»

Baruch Spinoza, Ethica

«Mentre arde il corpo di colui che fu mio padre, penso al giorno
in cui mi condusse per la prima volta a cacciare nel bosco, e le cose
si staccarono tra loro pretendendo un nome, una forma, un racconto.
Pretendendo di essere altro da me. Un tempo noi e la natura siamo
stati un bosco solo. Poi una moltitudine di forme viventi.
Ora un luogo da cui dover fuggire»

Carlo D'Amicis, Quando eravamo prede

  • Carlo D'Amicis, Quando eravamo prede, Minimum fax, Roma 2014.
E' uno dei libri più interessanti e belli che abbia letto in questi ultimi due anni. E si pone, a mio parere, alla stessa altezza di altri romanzi distopici divenuti ormai classici della letteratura internazionale. E' di rigore, infatti, menzionare fra i molti possibili: Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson (1907), Il tallone di ferro di Jack London (1908), Noi di Evgenij Zamjatin (1921), Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932), La notte della svastica di Katherine Burdekin (1937), motivo riscritto da Philip K. Dick nel suo capolavoro, La svastica sul sole (1962). Per citare, infine, come è stato giustamente fatto in varie recensioni del romanzo di D'Amicis apparse sulla stampa, i più famosi: da La fattoria degli animali (1945) e 1984 (1948/9) di George Orwell, fino a La strada di Cormac McCarthy (2006). Molti di questi romanzi più che distopici vengono definiti, dai tecnici della critica letteraria e delle sue sotto-sotto-categorizzazioni di genere, ucronici, ovvero appartenenti a un non-tempo, o a una Storia che ha preso altre vie. D'Amicis stesso, per denunciare da subito l'appartenenza di genere ed introdurci nell'atmosfera del romanzo, mette come Soglia una citazione da Il signore delle mosche di William Golding (1954):
«Non c'è niente di vero, naturalmente. Solo un'impressione. Ma sembra che invece di andare noi a caccia, ci sia … qualcuno che dà la caccia a noi».

Carlo D'Amicis, classe 1964, oltre che ottimo scrittore, è persona amabilissima e piacevole, il che non guasta nel panorama degli attuali scrittori che, vivendo sempre meno di diritti d'autore, sono costretti ad inventarsi un “personaggio”, e a realizzare, in occasione delle presentazioni dei loro libri, delle vere e proprie performances in cui il più delle volte il narcisismo e la voglia d'imporsi per simpatia ed eccentricità straripano oltre l'offerta del loro “prodotto”. Carlo D'Amicis è certamente simpatico, ma ascolta e non s'impone, parla ma non declama, e soprattutto risponde alle domande senza seguire il canovaccio prestabilito dagli organizzatori editoriali del tour delle presentazioni.
Noto da tempo come conduttore su Radio 3 della trasmissione Fahrenheit – i libri e le idee (e come non pensare, in questo caso, a un'altra grande distopia “fantascientifica”, quale il romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 del 1953), è anche uno degli autori di Pane quotidiano, programma culturale di Rai 3 condotto da Concita De Gregorio. Come scrittore “ha già al suo attivo” (la formula è questa!) alcuni romanzi: Piccolo venerdì (Transeuropa 1996), Il ferroviere e il golden gol (Transeuropa 1998), Ho visto un re (Limina 1999), Amor tavor (Pequod 2003); per i tipi di Minimum fax sono usciti: Escluso il cane (2006), La guerra dei cafoni (2008), da cui pare si stia scrivendo la sceneggiatura per un film, La battuta perfetta (2010) e, infine, Quando eravamo prede (2014) che, a mio parere, potrebbe anch'esso trasfomarsi in un bel film. Non ho letto gli altri libri di D'Amicis (e lo farò quanto prima, lo giuro), ma la critica dice che Quando eravamo prede è il suo primo romanzo distopico, che per genere, stile ed argomento si discosta dal “realismo” degli scritti precedenti. E noi, per ora, ci crediamo.

Quando eravamo prede è anche un romanzo d'avventura (antico macrogenere che non guasta qui menzionare); è la storia di una comunità di cacciatori sui generis che vivono nel Cerchio, un non-luogo in un non-tempo, immersi nel bosco che li nutre e gli dà riparo; oltre il Cerchio, la non precisata Linea, un limes al di là del quale vivono scimmie e gorilla, ovvero femmine e maschi d'uomo; forse il mondo attuale, in un tempo attuale, in un luogo attuale. I cacciatori hanno nomi di animali («...avevano mani di fango e nomi da bestia...si facevano chiamare come l'animale a cui, per indole o fisionomia, sentivano di assomigliare», p.7), Alce, Toro, Leone, Ghepardo, Formica e Farfalla. La comunità vive in uno stato di natura, ma non proprio edenico per dirla tutta; Linea e Cerchio andranno in collisione, natura e cultura confonderanno caoticamente i propri pezzi – ma anche oltre la Linea la “civiltà” non è propriamente civile; delle interferenze e una vera e propria violenza si riverseranno dal mondo esterno nel Cerchio, scombinandone regole e leggi, costringendo la comunità a fare i conti con l'abbandono da parte degli animali, la morte del bosco e il sopraggiungere di altre creature mutanti, inquietanti e portatrici di un ulteriore livello di crudeltà. Costringendo la comunità a fare i conti con una concreta possibilità di estinzione.
Evoluzione ed estinzione si configurano come parole chiavi di questo romanzo. Il Cerchio sembra rappresentare una discontinuità evolutiva (è infatti fisicamente descritto come una valle o una depressione geografica), la Linea, invece, una continuità evolutiva, ma più apparente e supposta che reale. Il tutto narrato in prima persona da Agnello, un bambino di 10 anni, appartenente alla comunità, di cui assisteremo all'accidentato rito di iniziazione a cacciatore e dalla cui voce apprenderemo le leggi del bosco, i rapporti fra i cacciatori, la loro organizzazione sociale e gli eventi funesti che si andranno verificando. Una voce a volte in presa diretta, a volte lontana, dis-locata come quella di Ulisse alla corte dei Feaci.
Il libro procede per scansioni bibliche, che ne informano anche lo stile. I 12 capitoli infatti hanno per titolo altrettante citazioni tratte, per i primi 11 capitoli dall'Antico Testamento (Genesi, libri storici, profetici, sapienziali e un salmo), solo per l'ultimo, il dodicesimo, dal Nuovo Testamento e, non a caso, dall'Apocalisse di Giovanni, l'ultimo testo profetico della Bibbia cristiana. Niente è lasciato al caso in questo romanzo, piacevole da leggersi come un racconto epico, e, al contempo, per potenza allegorica e raffinatezza d'ordito sottotestuale, profondo da meditarsi. Molte sono le Fonti che la memoria letteraria di D'Amicis impiega e trasfigura; e l'esercizio di individuarle aggiunge piacere a piacere. Sicuramente il Testo adottato (l'Urtext) è la Bibbia, il libro per eccellenza, l'enciclopedia della nostra civiltà, che non compare solo nei titoli come citazione, ma anche direttamente nel romanzo come strumento destabilizzante, introdotto nella comunità da una scimmia in fuga dal mondo oltre la Linea.
Al lettore, come per ogni racconto distopico ad elevato gradiente allegorico, si richiede una completa “sospensione dell'incredulità”, una complicità che sappia rinunciare ad ogni criterio di verosimiglianza elementare. Per decodificare in profondità l'allegoria, per alcuni versi esopica, il lettore non dovrà chiedersi, ad esempio, perché i cacciatori usano fucili, bevono birra e hanno dimestichezza con alcune tecnologie, mentre ne ignorano altre. Farsi queste domande o individuare delle incongruenze di questo tipo, significherebbe non essere nella dimensione della favola che la distopia impone; insomma significherebbe non voler leggere, o non voler apprezzare, la Fattoria degli animali solo perché Orwell ha antropomorfizzato gli animali e li ha perfino fatti assurdamente parlare.
La copertina, il titolo e l'elogio dell'imperfetto. Per ogni libro che leggiamo, vale la pena compiere sempre una preliminare ricognizione paratestuale. In realtà, inconsciamente e meccanicamente, lo facciamo sempre quando si tratta di acquistare un libro. Il titolo, se ci colpisce o meno; i risvolti di copertina o la quarta di copertina, se catturano la nostra attenzione e l'argomento ci seduce; l'autore, se lo conosciamo; l'immagine di copertina, se ci evoca “qualcosa” e ci intriga in qualche modo. Poi, magari, indugiamo anche in una prospezione più accurata: l'epigrafe in esergo (la Soglia), se c'è, fino ad arrivare vicini vicini al testo e lambirlo: l'incipit. Se l'incipit ci convince, il libro è aggiudicato. Questa prima recensione, sommaria e prossima al testo vero e proprio, è anche un primo atto critico che, più o meno consapevolmente, noi facciamo stazionando nelle librerie. Pare che alcuni recensori professionisti si limitino solo a quello, per poter poi scrivere il loro articolo. Per non essere condizionati nel giudizio, come recita una battuta nel milieu dei critici letterari. E pare che anche Borges, l'enciclopedico Borges, dalla lettura di una voce di enciclopedia su un autore, dal riassunto di un'opera, o dai risvolti di copertina di un libro, ne ricavasse poi un saggio, su quell'opera e su quell'autore. E pare che ci azzeccasse pure, come stigmatizza Umberto Eco che riporta questa diceria, fra il serio, il faceto.

Trovo la copertina del libro di D'Amicis estremamente interessante, stilizzata e complessa al tempo stesso (in una parola direi “simbolica”) e mi provo a descriverla.
Una testa d'alce, con le sue ampie corna come il largo pettine di un gigante, nascosta dall'altrettanto ampio fondo-schiena dello stesso cèrvide (evidentemente il punto di osservazione è da dietro), con lanceolate orecchie che schizzano dai fianchi, il tutto conficcato in un'altra testa, quella di un uomo nero, dalla bocca e dal naso rosso-sangue e dagli orecchi spessi, che sembra guardarci (ma con quali occhi?) di fronte, come una scultura arcaica, africana o greca, fate voi. E dico “sembra” guardarci, perché il culo dell'alce, dalla coda di cactus fiorito, nasconde quasi del tutto il suo volto.
Se questo è un uomo, dunque, un uomo nero e non un gorilla, la copertina ci rappresenta una sorta di homo theromorphus (“dalla forma bestiale” - non controllate nelle classificazioni dei paleontologi, credo che non esista), la cui umanità di faccia è incisa, interrotta da un deretano bestiale, che non sappiamo cosa stia facendo (se se ne vada, lasciando che l'umano si liberi dalla bestia, o se si insedii meglio, per ricordarci la bestia che s'annida in ogni uomo). Guardate che perifrasi mi tocca fare per non usare un'unica, pertinente locuzione...
Ma questo homo theromorphus non è il classico e pulito centauro della mitologia, né la netta, nella nostra memoria, figura della sirena della fiaba, bensì un moderno, decisamente più incasinato e destrutturato, Minotauro, racchiuso nel circuito del suo labirinto. Questo Minotauro o Mino-alce che sia, è la perfetta rappresentazione iconografica dei personaggi del Cerchio e del loro universo ibridato. Quasi ad indicare, come ci suggerisce il romanzo, non tanto un mondo alla rovescia, un universo reversibile o un decisamente più ameno paese del carnevale, quanto un Eden irreversibilmente decaduto, contaminato, la cui traiettoria ha deragliato dal pacifico binario dell'evoluzione a quello drammatico dell'estinzione. Ma il romanzo non dà mai risposte assolute, né la sua esemplarità è mai monodirezionale e moraleggiante. Forse le cose non stanno proprio così, come vedremo meglio più avanti. Del resto, infatti, anche il mondo oltre la Linea non è un paradiso, anzi, con la sua pulita e crudelissima violenza, è un mondo che ha bruciato le sue possibilità di redenzione, con la sua spietata indifferenza, anche a se stesso, ha dissipato ogni creativa opportunità evolutiva (l'intelligenza) nella coazione a ripetere di modelli difensivi, ma di fatto autodistruttivi (del resto, scimmie e gorilla non sono considerati i grandi imitatori del mondo animale?).
Siamo di fronte alla rappresentazione di due inferni, quello possibile e delle possibilità (il Cerchio) e quello “reale” (il mondo oltre la Linea). Questo ci dice la copertina e il romanzo che vi è custodito. E forse è la Linea stessa, il con-fine, l'ultimo luogo possibile per un'agnizione ancora salvifica. Il punto (cerchio, linea, punto) dove l'evoluzione, per i cuccioli del Cerchio almeno, può intraprendere un'altra strada, cambiare direzione, tornare un po' indietro magari, aggirare e risolvere l'altrimenti inevitabile estinzione.
Le grandi allegorie, in special modo quelle distopiche, come nel caso del libro di D'Amicis, vivono dell'ambiguità e delle potenzialità dei simboli. E la loro ricchezza risiede nelle molteplici letture che se ne possono fare. La loro verità nelle possibilità che evocano e ci suggeriscono. Molto di più, dunque, della descrizione di un mondo-incubo, di una semplice ancorché vibrante denuncia e di una ricetta risolutiva conseguente.

Anche il titolo, a suo tempo, mi intrigò alquanto, Quando eravamo prede; e non solo per lo spessore del termine “preda”, così esistenzialmente connotato, così soggetto alla biunivocità e allo scambio dei ruoli, sia in natura che in cultura, ma anche per quell'imperfetto, eravamo, così consono alla dimensione del racconto, e di un racconto distopico in particolare.

Cito di terza mano - cosa che non si dovrebbe mai fare – ancora Umberto Eco:

«L'imperfetto è un tempo molto interessante, perché durativo e iterativo. In quanto durativo ci dice che qualcosa stava accadendo nel passato, ma non in un momento preciso, e non si sa quando l'azione sia iniziata e quando finisca. In quanto iterativo ci autorizza a pensare che quell'azione si sia ripetuta molte volte. Ma non è mai certo quando sia iterativo, quando sia durativo e quando sia entrambe le cose» (da G. Montesarchio, G. Buccoleri, Fabula rasa – dalla favola interpretata alla favola narrata, Franco Angeli 1999, 2002).

L'imperfetto è dunque un tempo a parte. Il tempo dell'introspezione di un personaggio, ma anche il tempo del gioco («si fa(ceva) che io ero..., mentre tu eri... e si andava...»), della favola («C'era una volta»), il tempo incompiuto (imperfetto appunto) che vorremmo durasse un'eternità. Eternità che non possiamo esperire e che non sappiamo esprimere con nessun altro tempo verbale a nostra disposizione. L'imperfetto è una parentesi fra un mai e un per sempre, un ponte fra ciò che non esiste (ma che potrebbe esistere e che si finge) e ciò che esiste (ma che si dimentica, per tutta la durata del gioco o della narrazione). Una sospensione, che descrive, pur tuttavia, e itera, più e più volte. E' qualcosa di perennemente incompiuto e che si ripete, e al contempo uno stato profondo nel passato che perdura nel presente. E' il tempo del non-tempo, ovvero dell'ucronia. Indica un modo dell'azione (e quindi è narrazione pura) ed è futuro nel passato. L'imperfetto è continuità, ma al contempo, per la sua separatezza, anche staticità. E' evocazione (chiamare da un non-luogo a un luogo, seppur provvisoriamente). Con l'imperfetto si evoca. Quindi, non poteva che essere il tempo del Cerchio e delle sue possibilità di esprimersi, della sua possibilità di esserci raccontato. Quando eravamo prede è dunque il racconto di un tempo imperfetto, di una catena interrotta, di una storia che viene raccontata da un non si sa dove e che ci parla di un altrove che forse stiamo già vivendo, ignari di viverlo.
L'imperfetto è ancora una possibilità di equilibrio ed integrazione (di armonia?) fra la physis e il nòmos dei greci, o, se vogliamo, fra la physis e la tèchne. A pagina 12, messo fra parentesi, si legge:

«(Era questo, che tanto ci stancava: l'impulso a sovrastare la natura si accompagnava sempre al bisogno di non sentirla del tutto soggiogata. Perché noi eravamo ancora, allo stesso tempo, la civiltà e il creato. Eravamo l'arma, ma anche il bersaglio)».

Nel capitolo primo, dal titolo inequivocabile: Dio vide cosa aveva fatto, ed ecco era molto buono (Gen 1,31), è operativa la memoria della creazione biblica e l'incipit così suona:

«In principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte. (…) Tacere era la più diffusa tra le tecniche con cui miravano ad imitare l'unica autorità che riconoscevano sopra le proprie teste: la natura e le sue leggi».

In questa variazione “umile” della creazione biblica, operata dall'autore, che apparentemente ne sembra una riduzione banalizzante, in realtà risuonano e a distanza si richiamano, dall'Antico al Nuovo Testamento, i 2 più famosi “In Principio” della bibbia cristiana: il Bereshit di Genesi e l'En archè en o Lògos del Vangelo di Giovanni (il primo libro della Bibbia e l'ultimo dei Vangeli). Principi che sono sia “inizi” (origini), ma anche e soprattutto fondamenta perduranti, continue, della realtà creaturale, le Leggi (i Principi, appunto) che la regolano e che la ricapitolano.

Oltre a questi Principi, ci sono le leggi della natura che la comunità rispetta (in genere). Di queste leggi, mano a mano che si procede nella lettura verremo a sapere molto, ma una mi piace qui ricordare e, nel libro, la ritroviamo nell'iniziazione alla caccia di Agnello da parte del padre, Alce. Non si configura propriamente come legge “naturale”, o forse sì, se consideriamo il linguaggio “uno straordinario contagio perpetuo” (Emanuele Trevi).

«”Stabiliamo una regola”, disse sulla zattera che dalla botte ci portava all'altra riva. “D'ora in poi si può uccidere soltanto ciò che ha un nome”. Non c'era niente di più stupido. Per attribuire agli altri animali un'identità dovevamo ammettere la nostra: quindi candidarci a morire con loro. (…)
(Stabiliamo una regola: non si può uccidere ciò che non si conosce.)» (pp.17,19).

Passare dall'indifferenziato al differenziato (dare un'identità), questa forse è la Creazione.

Conoscere è nominare le cose per poterle uccidere. Conoscersi è darci un nome, o quando ci danno un nome. Ricordiamo il già citato: «si facevano chiamare come l'animale a cui, per indole o fisionomia, sentivano di assomigliare» (p.7), a cui potremmo aggiungere: «Agnello, per il momento, era il mio nome. In seguito si sarebbe stabilito se sarei diventato una pecora o un montone» (p.10); che equivale a dire: “in seguito si sarebbe stabilito che scelta evolutiva avrei fatto/avuto”. La realtà si forma (o forse si sostanzia?) dando un'identità alle cose, dando un'identità agli esseri viventi, dando un nome. Che Agnello e i cacciatori del Cerchio siano dei nominalisti, alla stregua dei filosofi della Scolastica medievale, è sicuramente impensabile. Ma è certo, direi, che qui, nella memoria letteraria dell'Autore è operativo, e distopicamente rielaborato, il passo di Gen 2,19-21:

«Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l'uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse».

Conoscere e dare un nome, compiere l'atto creativo della differenziazione attraverso il linguaggio (Dio è La Parola; noi siamo le parole), è votarsi alla morte, e alla possibilità di dare la morte. Secondo determinate scelte evolutive, o “direzioni” evolutive che Qualcuno o Qualcosa ha preso per noi, e che noi, a un certo grado di sviluppo, autonomamente prendiamo. L'economia della creazione e l'economia del libero arbitrio (per così dire), qui si confrontano, si scontrano, forse si mescolano, producendo mostri. Deragliandoci nella distopia. Ma quale?
Mentre l'utopia è un mondo irreale e di sogno, un buon-non-luogo in cui vivere, la distopia, che i dizionari avvertono essere il contrario della prima, è sempre un mondo da incubo, un cattivo-(doppio)-luogo in cui vivere, ma soprattutto la conseguenza di qualcosa o qualcuno che ci ha condotto fino lì.
Il termine utopia è attribuito a Tommaso Moro (XV/XVI sec.), che così titolò la sua più famosa opera. Distopia è termine usato per la prima volta, pare, da John Stuart Mill (XIX sec.). Il conio di formazione dal greco è facile: dys (male-cattivo) – tòpos (luogo). Ma, se lo traduciamo in italiano, fuor dall'ambito letterario e filosofico, abbiamo pari pari il termine “dislocazione” (cioè, “spostamento”), il cui significato nell'uso resta sostanzialmente neutro (una vox media). Nella terminologia medica, però, più etimologicamente attenta, “distopia” è «la dislocazione di un viscere o di un tessuto dalla sua normale sede», niente di buono presumo.
Volendo ancora giocare un po' con questa parola, esiste un'altra possibilità di significato, attivabile con una “variazione fonematica minima” (come direbbe un linguista): se cambiassimo il prefisso dys (male-cattivo) con dis (lat. Bis, due volte; quindi qualcosa di doppio), avremmo una dis-topia che è un doppio-luogo.
Il doppio, la duplicità, la doppiezza, non godono nella nostra cultura, fin dai primordi, di buona fama. Pur tuttavia, in uno sbocco d'ottimismo, immaginiamoci questa “distopia”, questo spostamento, questo luogo messo a parte dal tempo e dallo spazio che conosciamo, come un luogo del bivio, o un punto dove il sentiero si biforca e c'impone una scelta nel percorso. Un luogo a parte, dove è ancora possibile bene o male, fra bestialità e umanità, scegliere la direzione giusta da prendere. Se immaginiamo in questo modo la “distopia” creata da D'Amicis, ecco che la possiamo identificare col Cerchio e il bosco e la comunità di creature “giustapposte” che lo abitano, così in BI-lico fra umano e ferino, fra evoluzione, ma anche estinzione.
Ma se il Cerchio è questo, allora la “distopia” come cattivo-luogo e basta, la “vera” distopia irreversibile, non può essere altro che il mondo dei gorilla e delle scimmie, il mondo oltre la Linea, il nostro mondo, così asettico, sterile, violento e totalmente disumano. Il mondo dove una scelta è stata già forse da tempo fatta ed è la scelta dell'estinzione. Il nostro mondo che D'Amicis, volutamente non racconta, perché ci siamo dentro, lo viviamo, ma a cui allude, e che rappresenta, nella trama del libro, solo attraverso le sue pesanti “interferenze”.
Il Cerchio, allora, è l'anello mancante che si racconta attraverso un cucciolo. L'anello mancante che, pur nei pericoli che corre e nella sua brutalità quotidiana, può ancora redimersi e sperare di diventare, conquistando memoria e capacità di sogno, utopia. Un luogo privilegiato dove una comunità di disperati minotauri può ancora provare a scegliere una terza via di evoluzione, dove umanità e ferinità trovino da soli e finalmente, senza che nessuno prometta loro alcuna “terra promessa”, quel paese dove scorre latte e miele e il lupo vive con l'agnello. Quel paese da cui forse “ora” (l'ora narrativo che giustifica il c'era una volta) sta raccontando la sua storia la voce dislocata di Agnello.
Oltre la Linea, scimpanzé evoluti, complessi e contagiosi, celebrano l'incubo, la distopia del mondo presente dove, per dirla con Orwell (1984): «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza»; e l'utopia, una speranza che non sappiamo sperare. E neppure più sognare.



Seravezza, 20 Febbraio 1016

Francesco Parasole






Altri riferimenti & annotazioni sparse
(se c'è tempo, o mentre si cena) + citazioni capitolari

Versetti biblici sono i capitoli, la Bibbia è portata dalla scimmia che dalla Linea entra precipitosa nel Cerchio, col suo pick-up, per fuggire da non si sa cosa. La scimmia resterà incinta di Toro...maternità simbolicamente connotata (“maternità mariana”). L'introduzione della Bibbia provoca l'interrogazione su Dio. Dal pregare e dall'imprecare al bosco, si passa a pregare e ad imprecare a Dio. La religione (“legame”) c'è anche nel Cerchio, cambia l'onnipotenza ontologica.

Sulla tipologia del sesso nel Cerchio e la questione della sterilità del branco, delle donne in montagna (come delle Oreiadi) e della Cagna ai fornelli, del voyeurismo non proprio mistico di Alce, non ho detto. Dovrete pur leggervelo, il libro!
Così come anche dei monocoli “topi” invasori, dagli occhi di bragia, e tutta la relativa evocazione infernale, dalla morte del bosco, la scomparsa degli animali in poi...
Potente la scena del bosco che si ribella all'introduzione della scimmia (non solo “Maria”, ma anche “Eva” … mutatis mutandis per non offendere la sensibilità di nessuno).

Trovo che sia una chicca (anche metonimica, riguardo alla rappresentazione e al disvelamento mitologico dei cacciatori) il punto in cui il navigatore del pick-up della scimmia dentro il Cerchio non funziona più, e la donna “attiva” una statuina di San Cristoforo cinocefalo! A parte tutto quel che si può dire su questo santo del III sec., dalla copiosa letteratura sia di parte orientale che di parte occidentale (sinassari, menologi, agiografie, acta martyrum, la Leggeda aurea di Jacopo da Varagine, etc.), patrono dei pellegrini e dei motociclisti, la sua funzione di psicopompo è stupendamente congruente al mondo in cui si trova proiettata la scimmia e al teromorfismo dei suoi abitanti.

Le incursioni dei gorilla nel Cerchio, invece, sono degne delle fiction di Fox-Crime.
Notevole per valenza simbolica l'incontro/scontro del lupo con Agnello, durante la reiterata Iniziazione a cacciatore di quest'ultimo.
Ma da nessuna parte sembrava esserci un rifugio per l'Agnello (p.34): biblico (e ce ne sono altri).

Leggere eventualmente pp.48-51, l'orso e dintorni.

Vita e morte nel bosco s'intridono.

L'allegoria di Quando ervamo prede si fonda su motivi e figure archetipiche attinte dalla mitologia occidentale (greco-latina), tenute insieme da un'intelaiatura biblica (giudaico-cristiana) e intrecciate per significare altro (come tutte le allegorie, che secondo Aristotele (ma anche Cicerone e Quintiliano) sono “metafore continuate”). Qualche incursione Zen: il tiro con l'arco insegna a pensare senza pensare … a volere senza volere (p.10). Il tutto è governato con consapevolezza antropologica e filosofica (creazionismo, evoluzionismo); e forse anche teologica: (mi fu chiaro, allora, che ognuno aveva il suo Dio e ne faceva quello che voleva) (p.175).
L'allegoria è un discorso che significa altro, immagini che adombrano altre immagini fra cui sussiste un rapporto esclusivamente analogico, rapporto sostanzialmente ineffabile e quindi linguisticamente esprimibile solo attraverso uno scarto, una deviazione. Fra le immagini s'instaura un confronto, per vicinanza, e se il confronto risulta “esemplare”, e molto prossimi i pensieri, i concetti e le immagini, lo chiamiamo parabola (“paragone”: “metto di lato”, “metto al fianco”), e se c'è qualche morale, apologo (qualcosa che discende dal logos, che, come tutti ormai ben sappiamo, non è solo “parola”, ma Parola, etc.).
Infine, il problema del linguaggio:
    • Va bene. E se anche fosse? Se i suoni che ora sto emettendo non fossero parole ma solo versi animaleschi, perderebbero per questo di senso? Di valore? Di bellezza? Non abbiamo sempre detto che niente, a questo mondo, è più perfetto della perfezione animale? -
    • Noi non siamo più animali, Agnello -. Fece una breve pausa. Poi aggiunse:
    • Né siamo ancora esseri umani -.
    • E cosa siamo allora? - (p.129).

Spunto: Agnello come alter ego postmoderno dell'Emilio di Rousseau?
(Nel qual caso Farfalla corrisponderebbe ad una postmoderna Sofia).

Le citazioni bibliche capitolari (non tutte letterali, alcune modificate):

Cap. 1: Dio vide ciò che aveva fatto, ed ecco era molto buono. (Gen 1,31).

Cap. 2: Cosa può esserci in comune tra il lupo e l'agnello? (Sir (Eccl), 13,17).

Cap. 3: Era per me un orso in agguato. (Lam – Ger, 3,10).

Cap.4: E voi li avvertirete da parte mia.
Trova un suo riscontro in 2 passi del profeta Ezechiele:
  • Ez 3,17: Figlio dell'uomo, ti ho posto come sentinella per la casa di Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Il profeta come sentinella.
  • Ez 33,7: stesso testo ripetuto, stessa esortazione al profeta/sentinella. La domanda esistenziale è: In che modo potremo vivere? (Ez 33,10).

Cap. 5: Oh come siede solitaria, la città che abbondava di popolo. (Lam – Ger, 1,1). Ancora le Lamentazioni di Geremia (l'esordio). La traduzione più propriamente recita: Come mai siede solitaria la città che era gremita di popolo? La citazione da interrogativa viene trasformata in assertiva.

Cap. 6: Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. (1Sam, 2,6). Preghiera di Anna, madre di Samuele.

Cap. 7: Ecco, io sono un albero secco. (Is 56,3).
L'intero versetto recita: Non dica l'eunuco: ecco io sono un albero secco!

Cap. 8: Spargerò per i monti la tua carne. (...e riempiròle valli della tua carogna.) (Ez 32,5).

Cap. 9: Allora disse: “chi ti ha fatto sapere che eri nudo?”. (Gen 3,11) … hai forse mangiato dell'albero ...

Cap. 10: Fuggono, fuggono i re degli eserciti! (Sal 68,13).
...nel campo presso la casa ci si divide la predaCanto davidico di gloria e trionfo.

Cap. 11: Corona dei vecchi sono i figli. (Pr 17,6). Intero:
Corona dei vecchi sono i figli dei figli, onore dei figli i loro padri. L'immagine – Corona dei vecchi - si ritrova in un altro libro tardo-sapienziale, Sir 25,6, dove però il motivo di vanto è: un'esperienza molteplice.

Cap. 12: Ecco io sono l'alfa e l'omega. (Ap 1,8 – 21,6 e 22,13). Si chiude con l'Apocalisse di Giovani e un'espressione ripetuta 3 volte nello stesso testo. Apocalisse dove ciò che viene svelato continua a restare un mistero, in un non-tempo, in un non-luogo, a cui potremmo dare il nome di speranza. Se speranza fosse profezia.


FP


domenica 21 febbraio 2016

Il nuovo incontro Giardini Ripadiversilie e il Prof. Paolo Neyroz

Dopo il bel successo del primo incontro con I Giusti e Zanza e Francesco Parasole , ci aspetta il nuovo incontro del 19 marzo prossimo con i vini dell' Azienda Giardini Ripadiversilia, realtà versiliese della Costa Toscana, e il prof. Paolo Neyroz che ci intratterrà con 

“Il più mancino dei tiri” a Dino Zoff :
Da Edmondo Berselli a “Dura solo un attimo la gloria”

Sempre alle ore 17,00 presso il Ristorante Antico Uliveto.


In formazioni sull'azienda
http://www.giardiniripadiversilia.it/index2.html


Informazioni sul relatore
https://www.unibo.it/sitoweb/paolo.neyroz/cv

domenica 14 febbraio 2016

Parlano di noi _ prossimo incontro.

Un articolo sull'incontro di Sabato prossimo e sulla manifestazione su quotidiano LA NAZIONE.

mercoledì 10 febbraio 2016

domenica 7 febbraio 2016

La scomparsa di Giacomo Tachis



La scomparsa di Giacomo Tachis , uno dei maestri dell'enologia italiana moderna e professionista di fama internazionale, lascia un vuoto difficile da colmare.
L'onore che abbiamo avuto di ospitare nella nostra rassegna la Figlia Ilaria ci dà l'occasione di porgerle le più vive condoglianze anche da queste pagine.
 Non sta a noi tessere le lodi di questo importantissimo attore del mondo enologico , ma ci pare essenziale ricordarlo come profondo conoscitore della vite e del vino e ancor di più dei territori e delle potenzialità di ogni zona viticola mondiale.

Lamberto Tosi


mercoledì 3 febbraio 2016

Il menù della serata del 20 febbraio prossimo

Il Menù della serata del 20 Febbraio prossimo: Per informazioni e prenotazioni rivolgersi la ristorante. 
Ristorante a Seravezza

Primo incontro
Un Vino Un Libro
Sabato 20 Febbraio
Ore 17,00 – ingresso gratuito
Dott. Francesco Parasole
 "Quando eravamo prede" di Carlo D'Amicis
Azienda I Giusti&Zanza Vigneti
di Fauglia (PI)

Nemorino IGT Toscana bianco – Trebbiano, Semillon
Nemorino IGT Toscana rosso - Shyra, Sangiovese, Merlot
 Ore 20,00 Cena degustazione
Vini in degustazione I Giusti&Zanza Vigneti
Belcore IGT Toscana rosso – Sangiovese, Merlot
Perbruno – Shyra
Dulcamara IGT Toscana rosso – Cabernet sauvignon e Franc. Merlot, Petit Verdot



Menù

Flan di carciofi su salsa al parmigiano
Tagliatelle di castagna con ragù di cinghiale
Chitarra di cinta senese con rapini
€ 25,00



Ristorante
Antico Uliveto
Via Martiri di Sant’Anna 76 Pozzi di Seravezza LU
Tel 0584 768882 www.antico-uliveto.it




Un Vino Un Libro
Quinta Edizione
A cura di Lamberto Tosi


Secondo Incontro 19 Marzo
Terzo Incontro 16 Aprile

Blog http://unvinounlibro.blogspot.it/

  

Sabato 20 Febbraio


Un Vino Un Libro
Quinta Edizione

A cura di Lamberto Tosi