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sabato 29 aprile 2017

Il castello di Ripa d' Orcia : il terroir,  ( terreno, ambiente e opera dell'uomo) fanno sempre la differenza.

In degustazione i suoi vini ad Un vino Un Libro il 6 maggio prossimo al ristorante Antico Uliveto, alle ore 18,00
Qui tutti i suoi vini

http://info1341.wixsite.com/castellodiripadorcia/vini---olio

martedì 25 aprile 2017

Castello di Ripa d'Orcia e Paolo Neyroz per in sabato di cultura enologica e letteraria

Sabato 6 maggio presso il ristorante Antico Uliveto di Pozzi di Seravezza come sempre alle ore 18,00 avremo ospiti Filippo Rossi con i vini del Castello di Ripa d'Orcia e il Prof Paolo Neyroz che ci parlerà del capolavoro di Carlo Emilio Gadda : Quel pasticciaccio brutto di via Merulana. 
Storie che si intrecciano come il i tralci di vite,  vino che si evolvono come romanzi.  Un incontro da non perdere... Vi aspettiamo!
Lamberto Tosi

mercoledì 12 aprile 2017

In ricordo di Tullio De Mauro




Tullio De Mauro (1932 – 2017)
Dei Maestri
in memoriam


Il 5 Gennaio scorso è morto Tullio De Mauro, accademico, enorme studioso di linguistica (generale, storica, italiana - e di tutte le aree affini), intellettuale, politico (per breve tempo è stato anche Ministro dell'Istruzione), un Maestro del nostro tempo, come si dice in genere. E a questo punto, oltre alla emme maiuscola, ci dovremmo interrogare sul significato da dare alla parola “maestro” e magari fare una riflessione anche sull'intera espressione (che tecnicamente dicesi sintagma): “Maestro del nostro tempo”. In fondo è stato uno dei suoi fondamentali insegnamenti: riflettere sulle parole; sviscerarne la storia e l'evoluzione dei significati; mai essere inconsapevoli della parola, o della formuletta che troppo corrivamente si usa, per pigrizia, condizionamento mentale e desiderio di essere come tutti (titolo di un romanzo-autofinzione di Francesco Piccolo del 2013; per inciso, visto che si parla di formule).

“Maestro”, ci avrebbe insegnato De Mauro, magis-ter in latino, ha la stessa radice di mag-is “più”, mag-nus “grande”, major “più grande”, “maggiore”. Poi avrebbe precisato ulteriormente che il suffisso -ter sta ad indicare la desinenza di un comparativo che si trova anche nel greco e nel sanscrito (lingue sorelle). Per cui, è “Maestro” chi è “il più grande”, “il maggiore” di un gruppo, di una comunità. Colui che può insegnare qualcosa a qualcuno, per la sua competenza, per le sua capacità “maggiore” che può trasferire ad altri, i discepoli. La versione contratta del termine, “mastro”, indica nella nostra lingua l'umile, ma capace artigiano, che sa operare con le mani, e pur tuttavia sa anche trasferire questa abilità tecnica al garzone di bottega. “Mastro” non si usa più nella nostra lingua, se non come residuato bellico da sciorinare fra le reliquie riposte nelle vetrinette di collezionisti nostalgici in via di estinzione. Il maestro è il “Maestro”, il mastro è l' “intellettuale” (per come la vedo io, attualizzando arbitrariamente). Purtroppo di questi tempi molti intellettuali si credono Maestri. Ma in genere sono gli intellettuali meno bravi.
Di contro al maestro c'è il “ministro” (da minus, minis-ter, “il più meno”, “il minore”), colui che dovrebbe servire, sottoporsi alle esigenze di una comunità. Ministri e maestri del nostro tempo...come cambiano i significati delle parole nella storia!  

Sono ormai trascorsi circa tre mesi dalla sua chiamata ad altra dimensione, quindi non sarebbe forse necessario ribadire che queste righe non sono un coccodrillo, ma un piccolo ricordo e una piccola riflessione. I coccodrilli vanno sui giornali il giorno dopo, finiscono in rete il giorno prima e si sintetizzano con sovrana approssimazione, più o meno documentata, su wikipedia.

Era fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970; la sua parabola è stata più fortunata. E' riuscito ad invecchiare e a raccogliere meritati accademici allori. Cosa che, quest'ultima, non è poi così scontata visto come vanno le cose nella nostra Università. Con l'impegno di studioso c'è stato anche l'impegno politico. Ultimamente i Maestri non hanno inciso molto in questo ambito. Un tempo – per dire, in epoca romana – c'era il negotium e l'otium. Il primo, ci insegnavano, era la vita attiva del virile romano, l'impegno militare e politico, lo spendersi per la res publica di cui si era orgogliosi cives. Il secondo era non l'ozio come dolce far niente, ma il ritiro a vita privata per dedicarsi allo studio e alla scrittura; era l'attività della vecchiaia (a 50 anni se andava bene), la tanto agognata pensione (se c'è qualcosa di “agognato”, di questi tempi poi, è sempre la pensione, direbbe Paolo Nori, di cui consiglio l'intelligente, piacevole e preoccupante, Le parole senza le cose, 2016). Studio e scrittura, beninteso, con l'intento di incidere ancora, per altra via, sul buon governo della comunità. Poi c'è stato il Principato, poi l'Impero, etc. ma questa è un'altra storia. Ora, questo quadretto ideale di vita attiva (prassi) e vita privata (trascorsa nella teoresi) apparentemente ben separate e scandite dalle stagioni della vita, non stava proprio in questi termini. A volte c'era alternanza, a volte l'otium era imposto da esilio o proscrizione, dall'ascesa e caduta della personale fortuna politica. Era il Fato, inteso come temperie politica, che regolava il più delle volte l'essere in otium o lo stare in negotium. Saggezza e sapienza erano comunque maggiormente ascoltate, ma la vita dell'intellettuale anche a quei tempi era complessa e contrastata; insomma è sempre stata una integrazione difficile quella dell'intellettuale (per dirla col titolo di un saggio del 1977 del grande latinista Antonio la Penna, anche se poi lì si parlava del poeta Properzio). Ma Tullio De Mauro era un intellettuale e un Maestro dei nostri tempi (e ribadiamo la formuletta), e come tale non soggiaceva alla nobile alternanza degli antichi, ma lavorava su due scrivanie e, al più, poteva appartenere a una delle due categorie individuate da Umberto Eco, altro nostro Maestro morto circa un anno prima di De Mauro, quella degli Apocalittici o degli Integrati. Altra formuletta di grande fortuna, usata e forse abusata al di là del titolo e della raccolta di saggi che designa (la prima edizione di Apocalittici e Integrati è del 1964).

Un pensiero cinico-banale: gli Apocalittici sono quelli che ancora si devono fare uno stipendio e in qualche modo si devono far notare (lo stipendio, si sa, originariamente era la paga del soldato, di chi combatteva); gli Integrati sono quelli che, per chiara o anche oscura fama, lo stipendio ce l'hanno già e devono solo incrementare & consolidare gli allori e giustificare il Sistema che li paga. Gli Integrati possono anche criticare, ma sempre dall'interno; gli Apocalittici è necessario che siano voces clamantium in deserto e che strillino forte, così vanno in televisione a litigare con Sgarbi, un integrato di lusso che ha il vezzo di simular l'apocalittico. Il costume mediatico che si è ormai imposto fa sì che le due categorie stiano sfumando i loro confini e che il livello dialettico dello scontro, prima ben identificabile e ben radicato su fondamenta teoretiche inconciliabili (gli Apocalittici erano esistenzialmente apocalittici, gli Integrati erano esistenzialmente integrati), sia ora affiorato a modalità d'esecuzione indistinte e tendenti a una superficiale performance becero-dionisiaca. 

Umberto Eco e Tullio De Mauro furono degli intelligentissimi Integrati e poterono, senza berciare (non sarebbe stato nemmeno nelle loro corde), sviluppare il loro lavoro al riparo e col plauso delle istituzioni. Umberto Eco, per intelligenza, acutezza ed erudizione, è stato il nostro Walter Benjamin – decisamente più prospero e sereno di quest'ultimo, oltre che più longevo – dotato di un'ironia tanto corrosiva quanto umoristica e seducente; Tullio De Mauro, per intelligenza, acutezza ed erudizione, è stato il nostro Ferdinand De Saussure (e non a caso) – decisamente più prospero e bibliograficamente più prolifico di quest'ultimo, oltre che più longevo – dotato di posata eleganza, quasi sorniona da solido buon padre di famiglia.

E c'erano ancora gli intellettuali di destra e di sinistra, le lotte non erano solo civili, ma anche e soprattutto sociali. Non che fosse tutto rose e fiori, anzi, ma un più ricco campo di possibilità poteva ancora far sperare in esiti epocali migliori. Ancora si assaporavano (pur fra mille difficoltà, anni di piombo e le endemiche collusioni di sempre) eroiche reliquie di Buona Fede. Alcuni intellettuali facevano carriera, e venivano chiamati Maestri, altri di meno carriera ma di facoltà predittive più illuminate furono vittime di una immediata damnatio memoriae, od oggetto di derisione, salvo qualche sporadica riesumazione postuma e decisamente intempestiva. E' tutta roba della seconda metà del novecento e sembrano secoli. La velocità dei cambiamenti ha distorto le distanze, ed è storia ciò che ieri era cronaca ed è oblio ciò che ieri era storia.

Memoria corta per le lunghe distanze di un tempo accelerato. Come possono incidere i Maestri se prima li mettevamo in croce o al rogo – salvo poi divinizzarli - ed ora, più diabolicamente, li dimentichiamo? E chi sono i Maestri? E chi sono i Falsi-Maestri? Domande che vorrei fare ad alcuni sopravvissuti. Uno di questi, e mi viene in mente di getto, è Massimo Cacciari ad esempio. Gli vorrei chiedere quando arriva L'angelo necessario (1986) e dove si nasconde Il potere che frena (2013); e poi tanto so che non gliele faccio queste domande e mi rifugio – stanco – nella sospensione del giudizio. Ma se viviamo in un tempo che va da il “non più” al “non ancora” (che più che un tempo mi sembra uno spazio scosceso sul precipizio), allora, che fine ha fatto la historia magistra vitae, che ci insegnava che ogni tempo era un tempo di transizione e meticcio, e che con passo lento o più veloce se proprio non ritornava in eterno, comunque si ripeteva in corsi e ricorsi quanto meno analogici, come le incalcolabili variazioni sul tema di un inesauribile spartito? Se siamo “in-un-non-più-non-ancora” e per giunta “liquido” (Zygmunt Bauman & Ezio Mauro, Babel 2015), cosa hanno fatto i Maestri fino ad oggi e chi abbiamo ascoltato noi fino ad oggi per evitare tutto questo? Sembra che la necessaria memoria abbia ridotto le sue pretese e, affidando il “dato” (non l'in-fomazione che è nobil cosa) a circuiti siliconici, si appresti a resistere, larva entropizzata, solo per il tempo di uno spot pubblicitario. Memoria che ha rinunciato alle sue capacità critico-sinaptiche per il più veloce & breve & sottile multitasking. Amnesia e anestesia: alcune parole-chiave (Leonidas Donskis, L'età della desensibilizzazione. Modernità come amnesia ed anestesia ...2016).

Ma torniamo a De Mauro. Tolto dall'imbarazzo dell'investimento sapienziale a “Maestro di vita e di pensiero” (altro sintagmino riposante) – insieme ad Eco e a molti altri, vivi o morti che siano -, è pur vero che:

- se leggiamo così come lo leggiamo il Cours de linguistique générale di Ferdinand De Saussure (1916), lo dobbiamo a De Mauro (ed. critica del 1972);

- se abbiamo a disposizione vocabolari, dizionari e approfonditi lavori di lessicologia, lo dobbiamo anche a De Mauro, sapientemente inseritosi nella tradizione dei nostri più famosi storici e teorici della lingua (e ogni riferimento bibliografico sarebbe inutile appesantimento, qui basti citare il Grande dizionario italiano d'uso, UTET in 8 voll.);

- se noi, non addetti ai lavori, sappiamo qualcosa di interessante sulla nostra lingua e sulle origini del linguaggio in generale, lo dobbiamo all'imponente lavoro di alta divulgazione prodotto da De Mauro (Storia linguistica dell'Italia unita, Storia linguistica dell'Italia Repubblicana. Dal 1946 ai giorni nostri, Il linguaggio tra natura e storia, Prima lezione sul linguaggio, Lezioni di linguistica teorica...);

- se la politica e la scuola italiane hanno in qualche modo affrontato con maggior serietà, o più attenzione di un tempo, le problematiche linguistiche sul piano sociale e della didattica, lo dobbiamo anche a De Mauro (In Europa sono già 103. Troppe lingue per una democrazia?, La cultura degli italiani, Minisemantica e linguaggi non verbali delle lingue, Minima scholaria, Capire le parole, Sette lezioni sul linguaggio e altri interventi per l'educazione linguistica...).

Detto questo, consapevole di aver fatto solo una parsimoniosa spigolatura bibliografica dell'opus demauriano (e più sul versante divulgativo che su quello accademico), ne consegue che il Professor De Mauro si è reso altamente benemerito nei confronti delle patrie lettere, della didattica della lingua italiana e della disciplina linguistica in generale. Talmente benemerito che nelle Università una disciplina come Linguistica Generale, se non data come obbligatoria nel piano di studi, è disertata dagli studenti. Talmente benemerito che gli studi di linguistica (storica – la vecchia cara Glottologia – e teorica), sempre nelle Università, devono essere rimpastati e ristrutturati (maquillage) in corsi di tecnica della traduzione e di interpretariato (guai a parlare di letteratura straniera! Le lingue straniere vanno imparate solo per lo scambio orale). Talmente benemerito che è di questi giorni il lamento geremiaco di molti docenti universitari sull'ignoranza linguistica (a tutti i livelli) dei loro studenti. Dove vanno gli insegnamenti dei Maestri? Ma ancor peggio, dove vanno a finire gli insegnamenti di validi e valorosi intellettuali, che senza pretese ma con grande solido e serio lavoro studiano, analizzano e scrivono su argomenti e problemi che nessuno leggerà, se non, quando ci va di lusso, come obbligo scolastico? Che ne è rimasto dei discepoli e dei garzoni di bottega?

Lo so, posso sembrare un laudator temporis acti (Orazio, Arte poetica). Ebbene lo sono. Ma ancora mi chiedo cosa possa aver pensato negli ultimi giorni terreni una personalità come quella di Tullio De Mauro, o come quella di Zygmunt Bauman, o di Remo Ceserani, o del meno noto, ma a me molto caro, grecista Graziano Arrighetti? Cosa hanno pensato del loro lascito, e del mondo che lasciavano, tutti alle soglie di questo anno, come se si fossero dati un disperato appuntamento? Cosa pensano maestri e mastri della loro eredità e dei loro eredi nel momento del commiato?

Non è questione di maggioranza o minoranza, di massa o di élite. Il problema qui è stabilire se sono stati i maestri che ci hanno reso orfani o se è l'umanità che si è fatta orfana, per meglio estinguersi in anticipo. Avendo il vizio assurdo (Davide Lajolo, 1960) di leggere, trovando tesori di sapienza  in molti libri, pur affogati nelle immense discariche a cielo aperto dell'editoria multimediale contemporanea, sono propenso a credere che ci stiamo rendendo orfani, nonostante i maestri e i mastri. Sono propenso a credere che, impantanati nell'Edipo o nel Narciso, senza vie d'uscita  e propensi a rinunciare a qualsiasi eredità (se non magari a quella porzione che ci fa più comodo, quella degli errori dei padri), si sia ben lontani dall'assumere (o sussumere) in noi il benefico complesso di Telemaco, quello del giusto erede, così ben descritto da Massimo Recalcati (Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, 2104).            

Ora, è possibile che a molti di noi possa importare poco leggere Saussure in edizione critica, essere informati sulla nostra storia linguistica e anche più semplicemente andare a cercare su un buon vocabolario l'esatto significato di una parola; tanto abbiamo Internet e dove ci manca la parola italiana subito ci sovviene quella inglese a risolvere anche il più passeggero dei dubbi semantici. E poi, diciamocelo, questo De Mauro mica ha scoperto un'app per android...e neppure il vaccino per l'Ebola, se è per questo.

Ora, è possibile che a molti di noi imparare semplicemente a pensare con la propria testa, partendo magari da un più consapevole uso della lingua, sia picciol cosa. Che a molti di noi la parola “filologia” sappia di muffosi scartafacci, o sorpassata tecnica ricostruttiva e che non venga più considerata acuto esercizio di libertà (Luciano Canfora, Filologia e libetà, 2008). Pazienza, di sicuro non leggeranno queste righe e mi ridurranno, con la loro per altro legittima indifferenza, all'autoreferenzialità più sterile, quella di un atto comunicativo che nega se stesso nell'assenza di un interlocutore.

Livorno, 10 Aprile 2017

                                                                                  Francesco Parasole  




     



lunedì 10 aprile 2017

Una poesia di Giovanni Giudici

DESCRIZIONE DELLA MIA MORTE

Poiché era ormai una questione di ore
Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
Era arrivato l’avviso di presentarmi
Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
L’avvenimento era importante ma non grave.
Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista
E che si esorta: sii uomo, non è niente.
Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro?
Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era
Quello che normalmente penso che dovrà essere,
Ma nel paese vicino al mio paese
Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
C’era un bel sole non caldo, poca gente,
L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica,
Disse: prego di là – dove la cassa era pronta,
Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,
E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato,
Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio
Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
Sarà meno d’un attimo – mi assicurò la signora.
Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
Era una specie di garrota o altro patibolo.
Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
Domandando se mi avrebbero rasato
Come uno che vidi operato inutilmente.
La donna scosse la testa: non sarà niente,
Non è un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
Che importa anche se era questione solo di ore.
C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.

martedì 4 aprile 2017

Il menu della serata del 8 aprile prossimo

Qui sotto riportiamo il menù elaborato da il ristorante Antico Uliveto e Tenute di Badia per la cena della serata del 8 aprile. Come sempre saranno presenti i produttori ed il relatore.
 Vi aspettiamo.
Lamberto Tosi