Tullio
De Mauro (1932 – 2017)
Dei Maestri
in memoriam
Il 5 Gennaio scorso è morto
Tullio De Mauro, accademico, enorme studioso di linguistica (generale, storica,
italiana - e di tutte le aree affini), intellettuale, politico (per breve tempo
è stato anche Ministro dell'Istruzione), un Maestro del nostro tempo, come si
dice in genere. E a questo punto, oltre alla emme maiuscola, ci dovremmo
interrogare sul significato da dare alla parola “maestro” e magari fare una
riflessione anche sull'intera espressione (che tecnicamente dicesi sintagma):
“Maestro del nostro tempo”. In fondo è stato uno dei suoi fondamentali
insegnamenti: riflettere sulle parole; sviscerarne la storia e l'evoluzione dei
significati; mai essere inconsapevoli della parola, o della formuletta che
troppo corrivamente si usa, per pigrizia, condizionamento mentale e desiderio
di essere come tutti (titolo di un romanzo-autofinzione di Francesco
Piccolo del 2013; per inciso, visto che si parla di formule).
“Maestro”, ci avrebbe insegnato
De Mauro, magis-ter in latino, ha la stessa radice di mag-is “più”,
mag-nus “grande”, major “più grande”, “maggiore”. Poi avrebbe
precisato ulteriormente che il suffisso -ter sta ad indicare la
desinenza di un comparativo che si trova anche nel greco e nel sanscrito
(lingue sorelle). Per cui, è “Maestro” chi è “il più grande”, “il maggiore” di
un gruppo, di una comunità. Colui che può insegnare qualcosa a qualcuno, per la
sua competenza, per le sua capacità “maggiore” che può trasferire ad altri, i
discepoli. La versione contratta del termine, “mastro”, indica nella
nostra lingua l'umile, ma capace artigiano, che sa operare con le mani, e pur
tuttavia sa anche trasferire questa abilità tecnica al garzone di
bottega. “Mastro” non si usa più nella nostra lingua, se non come residuato
bellico da sciorinare fra le reliquie riposte nelle vetrinette di collezionisti
nostalgici in via di estinzione. Il maestro è il “Maestro”, il mastro
è l' “intellettuale” (per come la vedo io, attualizzando arbitrariamente).
Purtroppo di questi tempi molti intellettuali si credono Maestri. Ma in genere
sono gli intellettuali meno bravi.
Di contro al maestro c'è il
“ministro” (da minus, minis-ter, “il più meno”, “il minore”),
colui che dovrebbe servire, sottoporsi alle esigenze di una comunità. Ministri
e maestri del nostro tempo...come cambiano i significati delle parole nella
storia!
Sono ormai trascorsi circa tre
mesi dalla sua chiamata ad altra dimensione, quindi non sarebbe forse
necessario ribadire che queste righe non sono un coccodrillo, ma un piccolo
ricordo e una piccola riflessione. I coccodrilli vanno sui giornali il giorno
dopo, finiscono in rete il giorno prima e si sintetizzano con sovrana
approssimazione, più o meno documentata, su wikipedia.
Era fratello del giornalista
Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970; la sua parabola è stata più
fortunata. E' riuscito ad invecchiare e a raccogliere meritati accademici
allori. Cosa che, quest'ultima, non è poi così scontata visto come vanno le
cose nella nostra Università. Con l'impegno di studioso c'è stato anche
l'impegno politico. Ultimamente i Maestri non hanno inciso molto in questo
ambito. Un tempo – per dire, in epoca romana – c'era il negotium e l'otium.
Il primo, ci insegnavano, era la vita attiva del virile romano, l'impegno
militare e politico, lo spendersi per la res publica di cui si era
orgogliosi cives. Il secondo era non l'ozio come dolce far niente, ma il
ritiro a vita privata per dedicarsi allo studio e alla scrittura; era
l'attività della vecchiaia (a 50 anni se andava bene), la tanto agognata
pensione (se c'è qualcosa di “agognato”, di questi tempi poi, è sempre la
pensione, direbbe Paolo Nori, di cui consiglio l'intelligente, piacevole e
preoccupante, Le parole senza le cose, 2016). Studio e scrittura, beninteso,
con l'intento di incidere ancora, per altra via, sul buon governo della
comunità. Poi c'è stato il Principato, poi l'Impero, etc. ma questa è un'altra
storia. Ora, questo quadretto ideale di vita attiva (prassi) e vita privata
(trascorsa nella teoresi) apparentemente ben separate e scandite dalle stagioni
della vita, non stava proprio in questi termini. A volte c'era alternanza, a
volte l'otium era imposto da esilio o proscrizione, dall'ascesa e caduta
della personale fortuna politica. Era il Fato, inteso come temperie politica,
che regolava il più delle volte l'essere in otium o lo stare in negotium.
Saggezza e sapienza erano comunque maggiormente ascoltate, ma la vita
dell'intellettuale anche a quei tempi era complessa e contrastata; insomma è
sempre stata una integrazione difficile quella dell'intellettuale (per
dirla col titolo di un saggio del 1977 del grande latinista Antonio la Penna,
anche se poi lì si parlava del poeta Properzio). Ma Tullio De Mauro era un
intellettuale e un Maestro dei nostri tempi (e ribadiamo la formuletta), e come
tale non soggiaceva alla nobile alternanza degli antichi, ma lavorava su due
scrivanie e, al più, poteva appartenere a una delle due categorie individuate
da Umberto Eco, altro nostro Maestro morto circa un anno prima di De Mauro,
quella degli Apocalittici o degli Integrati. Altra formuletta di
grande fortuna, usata e forse abusata al di là del titolo e della raccolta di
saggi che designa (la prima edizione di Apocalittici e Integrati è del
1964).
Un pensiero cinico-banale: gli Apocalittici
sono quelli che ancora si devono fare uno stipendio e in qualche modo si
devono far notare (lo stipendio, si sa, originariamente era la paga del
soldato, di chi combatteva); gli Integrati sono quelli che, per chiara o
anche oscura fama, lo stipendio ce l'hanno già e devono solo incrementare &
consolidare gli allori e giustificare il Sistema che li paga. Gli Integrati
possono anche criticare, ma sempre dall'interno; gli Apocalittici è
necessario che siano voces clamantium in deserto e che strillino forte,
così vanno in televisione a litigare con Sgarbi, un integrato di lusso che ha
il vezzo di simular l'apocalittico. Il costume mediatico che si è ormai imposto
fa sì che le due categorie stiano sfumando i loro confini e che il livello
dialettico dello scontro, prima ben identificabile e ben radicato su fondamenta
teoretiche inconciliabili (gli Apocalittici erano esistenzialmente
apocalittici, gli Integrati erano esistenzialmente integrati), sia ora
affiorato a modalità d'esecuzione indistinte e tendenti a una superficiale performance
becero-dionisiaca.
Umberto Eco e Tullio De Mauro
furono degli intelligentissimi Integrati e poterono, senza berciare (non
sarebbe stato nemmeno nelle loro corde), sviluppare il loro lavoro al riparo e col
plauso delle istituzioni. Umberto Eco, per intelligenza, acutezza ed
erudizione, è stato il nostro Walter Benjamin – decisamente più prospero e
sereno di quest'ultimo, oltre che più longevo – dotato di un'ironia tanto
corrosiva quanto umoristica e seducente; Tullio De Mauro, per intelligenza,
acutezza ed erudizione, è stato il nostro Ferdinand De Saussure (e non a caso)
– decisamente più prospero e bibliograficamente più prolifico di quest'ultimo,
oltre che più longevo – dotato di posata eleganza, quasi sorniona da solido
buon padre di famiglia.
E c'erano ancora gli
intellettuali di destra e di sinistra, le lotte non erano solo civili, ma anche
e soprattutto sociali. Non che fosse tutto rose e fiori, anzi, ma un più ricco
campo di possibilità poteva ancora far sperare in esiti epocali migliori.
Ancora si assaporavano (pur fra mille difficoltà, anni di piombo e le endemiche
collusioni di sempre) eroiche reliquie di Buona Fede. Alcuni intellettuali
facevano carriera, e venivano chiamati Maestri, altri di meno carriera ma di
facoltà predittive più illuminate furono vittime di una immediata damnatio
memoriae, od oggetto di derisione, salvo qualche sporadica riesumazione
postuma e decisamente intempestiva. E' tutta roba della seconda metà del
novecento e sembrano secoli. La velocità dei cambiamenti ha distorto le
distanze, ed è storia ciò che ieri era cronaca ed è oblio ciò che ieri era
storia.
Memoria corta per le lunghe
distanze di un tempo accelerato. Come possono incidere i Maestri se
prima li mettevamo in croce o al rogo – salvo poi divinizzarli - ed ora, più
diabolicamente, li dimentichiamo? E chi sono i Maestri? E chi sono i
Falsi-Maestri? Domande che vorrei fare ad alcuni sopravvissuti. Uno di questi,
e mi viene in mente di getto, è Massimo Cacciari ad esempio. Gli vorrei
chiedere quando arriva L'angelo necessario (1986) e dove si nasconde Il
potere che frena (2013); e poi tanto so che non gliele faccio queste
domande e mi rifugio – stanco – nella sospensione del giudizio. Ma se viviamo
in un tempo che va da il “non più” al “non ancora” (che più che un tempo
mi sembra uno spazio scosceso sul precipizio), allora, che fine ha fatto
la historia magistra vitae, che ci insegnava che ogni tempo era un tempo
di transizione e meticcio, e che con passo lento o più veloce se proprio non
ritornava in eterno, comunque si ripeteva in corsi e ricorsi quanto meno
analogici, come le incalcolabili variazioni sul tema di un inesauribile
spartito? Se siamo “in-un-non-più-non-ancora” e per giunta “liquido” (Zygmunt
Bauman & Ezio Mauro, Babel 2015), cosa hanno fatto i Maestri fino ad
oggi e chi abbiamo ascoltato noi fino ad oggi per evitare tutto questo? Sembra
che la necessaria memoria abbia ridotto le sue pretese e, affidando il
“dato” (non l'in-fomazione che è nobil cosa) a circuiti siliconici, si
appresti a resistere, larva entropizzata, solo per il tempo di uno spot
pubblicitario. Memoria che ha rinunciato alle sue capacità critico-sinaptiche
per il più veloce & breve & sottile multitasking. Amnesia e anestesia:
alcune parole-chiave (Leonidas Donskis, L'età della desensibilizzazione.
Modernità come amnesia ed anestesia ...2016).
Ma torniamo a De Mauro. Tolto
dall'imbarazzo dell'investimento sapienziale a “Maestro di vita e di pensiero”
(altro sintagmino riposante) – insieme ad Eco e a molti altri, vivi o morti che
siano -, è pur vero che:
- se leggiamo così come lo
leggiamo il Cours de linguistique générale di Ferdinand De Saussure
(1916), lo dobbiamo a De Mauro (ed. critica del 1972);
- se abbiamo a disposizione
vocabolari, dizionari e approfonditi lavori di lessicologia, lo dobbiamo anche
a De Mauro, sapientemente inseritosi nella tradizione dei nostri più famosi
storici e teorici della lingua (e ogni riferimento bibliografico sarebbe
inutile appesantimento, qui basti citare il Grande dizionario italiano d'uso,
UTET in 8 voll.);
- se noi, non addetti ai lavori,
sappiamo qualcosa di interessante sulla nostra lingua e sulle origini del
linguaggio in generale, lo dobbiamo all'imponente lavoro di alta divulgazione
prodotto da De Mauro (Storia linguistica dell'Italia unita, Storia
linguistica dell'Italia Repubblicana. Dal 1946 ai giorni nostri, Il
linguaggio tra natura e storia, Prima lezione sul linguaggio, Lezioni
di linguistica teorica...);
- se la politica e la scuola italiane
hanno in qualche modo affrontato con maggior serietà, o più attenzione di un
tempo, le problematiche linguistiche sul piano sociale e della didattica, lo
dobbiamo anche a De Mauro (In Europa sono già 103. Troppe lingue per una
democrazia?, La cultura degli italiani, Minisemantica e linguaggi
non verbali delle lingue, Minima scholaria, Capire le parole,
Sette lezioni sul linguaggio e altri interventi per l'educazione
linguistica...).
Detto questo, consapevole di aver
fatto solo una parsimoniosa spigolatura bibliografica dell'opus
demauriano (e più sul versante divulgativo che su quello accademico), ne
consegue che il Professor De Mauro si è reso altamente benemerito nei confronti
delle patrie lettere, della didattica della lingua italiana e della disciplina
linguistica in generale. Talmente benemerito che nelle Università una
disciplina come Linguistica Generale, se non data come obbligatoria nel piano
di studi, è disertata dagli studenti. Talmente benemerito che gli studi di
linguistica (storica – la vecchia cara Glottologia – e teorica), sempre nelle
Università, devono essere rimpastati e ristrutturati (maquillage) in
corsi di tecnica della traduzione e di interpretariato (guai a parlare
di letteratura straniera! Le lingue straniere vanno imparate solo per lo
scambio orale). Talmente benemerito che è di questi giorni il lamento geremiaco
di molti docenti universitari sull'ignoranza linguistica (a tutti i livelli)
dei loro studenti. Dove vanno gli insegnamenti dei Maestri? Ma ancor peggio,
dove vanno a finire gli insegnamenti di validi e valorosi intellettuali, che
senza pretese ma con grande solido e serio lavoro studiano, analizzano e
scrivono su argomenti e problemi che nessuno leggerà, se non, quando ci va di
lusso, come obbligo scolastico? Che ne è rimasto dei discepoli e dei garzoni di
bottega?
Lo so, posso sembrare un laudator
temporis acti (Orazio, Arte poetica). Ebbene lo sono. Ma ancora mi
chiedo cosa possa aver pensato negli ultimi giorni terreni una personalità come
quella di Tullio De Mauro, o come quella di Zygmunt Bauman, o di Remo Ceserani,
o del meno noto, ma a me molto caro, grecista Graziano Arrighetti? Cosa hanno
pensato del loro lascito, e del mondo che lasciavano, tutti alle soglie di
questo anno, come se si fossero dati un disperato appuntamento? Cosa pensano
maestri e mastri della loro eredità e dei loro eredi nel momento del commiato?
Non è questione di maggioranza o
minoranza, di massa o di élite. Il problema qui è stabilire se sono
stati i maestri che ci hanno reso orfani o se è l'umanità che si è fatta
orfana, per meglio estinguersi in anticipo. Avendo il vizio assurdo (Davide
Lajolo, 1960) di leggere, trovando tesori di sapienza in molti libri, pur affogati nelle immense
discariche a cielo aperto dell'editoria multimediale contemporanea, sono
propenso a credere che ci stiamo rendendo orfani, nonostante i maestri e i
mastri. Sono propenso a credere che, impantanati nell'Edipo o nel Narciso,
senza vie d'uscita e propensi a
rinunciare a qualsiasi eredità (se non magari a quella porzione che ci fa più
comodo, quella degli errori dei padri), si sia ben lontani dall'assumere (o
sussumere) in noi il benefico complesso di Telemaco, quello del giusto
erede, così ben descritto da Massimo Recalcati (Il complesso di Telemaco.
Genitori e figli dopo il tramonto del padre, 2104).
Ora, è possibile che a molti di
noi possa importare poco leggere Saussure in edizione critica, essere informati
sulla nostra storia linguistica e anche più semplicemente andare a cercare su
un buon vocabolario l'esatto significato di una parola; tanto abbiamo Internet
e dove ci manca la parola italiana subito ci sovviene quella inglese a
risolvere anche il più passeggero dei dubbi semantici. E poi, diciamocelo,
questo De Mauro mica ha scoperto un'app per android...e neppure
il vaccino per l'Ebola, se è per questo.
Ora, è possibile che a molti di
noi imparare semplicemente a pensare con la propria testa, partendo magari da
un più consapevole uso della lingua, sia picciol cosa. Che a molti di noi la
parola “filologia” sappia di muffosi scartafacci, o sorpassata tecnica
ricostruttiva e che non venga più considerata acuto esercizio di libertà
(Luciano Canfora, Filologia e libetà, 2008). Pazienza, di sicuro non
leggeranno queste righe e mi ridurranno, con la loro per altro legittima
indifferenza, all'autoreferenzialità più sterile, quella di un atto
comunicativo che nega se stesso nell'assenza di un interlocutore.
Livorno, 10 Aprile 2017
Francesco
Parasole