NATALE
2018 SU GOOGLE & DINTORNI
Appunti
autistici
Francesco
Parasole
Provo
a scrivere (ops, digitare!): “Natale”.
Risultati:
369.000.000 (mi aspettavo di più) in 0,43 secondi. La lista inizia
con l'immancabile Wikipedia. Poi, “lavoretti”, decorazioni,
poesie e ricette.
Allora
provo a scrivere: “Natale 2018”.
Risultati:
330.000.000 in 0,47 secondi. Addobbi, vacanze e mercatini. Se vuoi,
ovviamente, puoi approfondire, selezionare meglio, e mi si suggerisce
di cliccare:
Allora
provo, quasi a sfida, a scrivere: “Santo Natale 2018”.
Risultati:
55.600.000 in 0,33 secondi. Hotels, ristoranti e pizzerie, eventi,
menu del pranzo del santo natale, immagini di location
e due stilizzati angioletti intorno a una culla con sfondo cammellato
(sezione: “immagini”).
Mi
dico che devo essere più aggressivo, il solo “santo” ha prodotto
ben poco di “sacro”. E riprovo con il termine forte
e senza mettere l'anno: “Sacro Natale”.
Risultati:
37.000.000 in 0,38 secondi. Campeggia ancora Wikipedia sub
vocem “Natale”
e te lo spiega (è la stessa voce della prima ricerca, quella più
generica/generale). Poi, “Gastrosofia Natale – Sacro e profano”,
i concerti di Natale, qualche immagine del Papa. Ci si inoltra,
sempre fra sacro e profano, in territori virtuali dall'antropologico
al mistico, ma senza esagerare. Nelle prime 7, 8 pagine si insinuano
ancora “Regali di Natale”, “Arte sacra” (da regalare),
recitine di bimbi negli asili delle suorine, gli orari delle messe in
alcuni siti parrocchiali. C'è una certa attenzione all'aneddoto,
spacciato per Tradizione, e alle Tradizioni vere e proprie (diciamo
così), ma sempre con un occhio che va “dal sacro al profano”.
Per non far torto a nessuno, mi sembra giusto. Per non urtare troppo
suscettibilità laiche, mi sembra giusto.
Mi diverto e con perfidia
(verso me stesso) scrivo: “Spiritualità e teologia del Natale”.
Risultati: 545.000 in 0,54
secondi.
Tolgo “teologia” e
benevolmente metto solo: “Spiritualità del Natale”.
Risultati: 15.500.000 in 0,41
secondi. Volevo ben dire. Qui, i siti cristiani la fan da padrone e
tutto sommato la numerosità mi sembra soddisfacente.
So benissimo che nei 369
milioni della prima ricerca c'erano tutti i possibili “natali”,
anche quelli scritti per sbaglio, e quelli delle occorrenze meno
numerose ma più “religiose”, pure la cosa non mi consola. Anzi.
So benissimo che “Natale”
l'ho scritto solo in italiano e scrivendolo in tutte le lingue del
mondo (ammesso che tutte le lingue del mondo abbiano una parola per
“Natale”) i risultati sarebbero stati, sommandoli, “più
innumerevoli” (che come comparativo non ha senso, ma rende l'idea).
Ma non ho voglia di fare somme, ma soprattutto non conosco tutte le
lingue del mondo. C'è qualcosa di più importante, San Paolo –
almeno in questo – aveva ragione.
Si snocciolano i milioni come
gli anni delle ere geologiche, ma in pochi decimi di secondo. E
questo fa pensare, diciamolo.
Milioni di occorrenze,
organizzate secondo l'assiologia della maggioranza o secondo criteri
economici, tipo quelli delle antiche inserzioni pubblicitarie sui
quotidiani.
Milioni
di occorrenze (ma occorrono?), cui
prodest?
Se va bene se ne guarderanno (consulteranno?) 7 o 8...tutt'al più si
“sfoglieranno” 2 o 3 pagine, delle migliaia. Che valore
conoscitivo (o euristico) ha questo numero esagerato spiattellato con
così negligente sprezzatura?
E
il fatto che Tu
mi dica
(mi rivolgo a Google) quanti decimi di secondo hai impiegato a
recuperare le milionate di cui sopra...cos'è? Mi vuoi forse stupire?
Strabiliare?...Annichilire? E' questo che vuoi? E perché?...mi vuoi
far sentire animale sèssile, più di una pianta che pur, in
manifestazione di seme, a volte viaggia, e viaggia lontano?
Pensieri
pseudostatistici di un ostinatamente rincoglionito laudator
temporis acti?
La rete mi profila. Non le
interessano prospezioni personalizzate, va bene anche l'anonimia a
volte, rispetta la nostra privacy (dice); alla rete è sufficiente il
dato statistico da registrare sotto la categoria ontologica di
“Consumatore”. Niente di nuovo ormai da anni. Domani troverò
molti consigli natalizi utili ad attendermi già alla prima
connessione. Lo avrebbero fatto comunque (ma chi?), il periodo lo
impone, lo so. Ma ogni ricerca produce i suoi effetti amplificati,
veloci e duraturi – i natali non durano a lungo ma gli effetti
sì... E in effetti sono qui che mi interrogo. Mi interrogo ma mi
rispondo poco o nulla. Cazzeggio fra un'angoscia e l'altra e mi vedo
scavare buche nella sabbia, in questo Natale, con un collo che non so
se troppo lungo o troppo corto, di sicuro sempre fuori misura a ogni
buca che vado scavando.
Le luci dentro le case
pulsano. Partita doppia del dare e dell'avere. Abeti per lo più di
plastica danno il ritmo a questi giorni santificati a qualcosa. Si
vuole che l'aria sia “magica” (e già questo la dice lunga per un
approccio antropologico che volesse misurare la percezione e le forme
del “sacro” nella civiltà postmoderna). Si vuole che l'aria sia
“magica” e che si senta il profumo del Natale. (oscillo
incoerentemente fra natali minuscoli e Natali maiuscoli, pazienza)
Si vuole che l'aria...etc.
etc. ma è solo freddo e puzzo di scarichi d'auto. Il diesel non va
più di moda e i SUV saranno reietti! L'aria ha i brividi di chi
corre per le strade, smemorati e ritardatari – partita doppia del
dare e dell'avere sempre inconclusa.
“Natale
con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”
(ma ci si confessa almeno una volta l'anno: a Pasqua).
Prescrizioni
(anzi no, “Precetti”) che davano ordine e scandivano la vita, di
ognuno e della comunità. Era il kòsmos
in cui ti muovevi, che ti conosceva e che tu conoscevi. Anche lui si
muoveva con te, talora ti assecondava, tal'altra ti guidava e tu
assecondavi la sua guida come il passeggero del motociclista che
s'inchina e s'obliqua a ogni curva. Ci si spostava lenti e con una
spaziosa armonia di tempi e di luoghi. Quel piccolo mondo ci sembrava
finito, nel senso del limite, quel piccolo mondo ci sembrava
circondato da un altro mondo infinito. Ma fra finito e infinito ci si
viveva bene e belli “come mamma e il buon Dio t'avevano fatto!”.
I cenoni di famiglia (Natale), le gite di primo sole fuoriporta con
gli amici (Pasqua); ed eri soddisfatto, potevi guardarti intorno e
pregustare addirittura la domenica in
albis,
dove il fuoriporta era più azzardoso e più grintosa e ridente la
primavera, o la notte di Capodanno, in cui il gelo era presto
sopraffatto dalle generose misure di vino e spumante che stivavi nel
corpo come la legna per l'inverno nelle cantine ad Agosto. Liberavi
la coscienza nella liturgia pasquale della luce e ti mettevi il
vestito buono (rivoltato, adattato, qualche rarissima volta anche
nuovo – ma dovevano passare lustri) per la messa di mezzanotte di
Natale, al freddo e al gelo delle chieste stipate. Era un mondo in
cui ti aggiravi in lungo in largo, di lato, e tornavi sempre nelle
stesse stanze a ricominciare da capo; un mondo che si ripeteva con
variazioni naturali (nascite, morti). Un mondo circolare, un
labirinto in cui t'aggiravi sicuro col gomitolo d'Arianna dato in
dotazione fin dalla nascita. Ora la cera per le candele, che ti
ustionava le mani e macchiava il polsino del maglione, non si usa
quasi (quasi?) più. Girano per le strade ragazzi giocolieri con
cerchietti verde-luminescenti come collane o braccialetti rotanti,
vagabondano esseri umani con nelle mani dei filamenti trasparenti,
protuberanze sottili dal capino lucente lievemente aspidico,
serpentelli, lucertole aliene imprigionate e fatte oscillare a ogni
passo. La Corte dei miracoli ha cambiato look,
i Sans-papiers
no, hanno solo in più un cellulare d'ultima generazione, che – per
acre ironia e preconizzazione crudele – i creatori hanno chiamato “
Sistema Android”. I natali e le pasque, un tempo polarità
rigenerative, sono se vuoi e con chi vuoi, da consumare senza memorie
né fedi. Senza né capo né coda, senza “Precetti”. Anzi no, con
altri precetti ma mobili, proteiformi e irregolari...sradicamenti
connessi in rete... frattalità dell'esistere.
“E'
Natale non soffrire più...” dice
ancora la canzoncina e il
dolce canto ammaliator si
spande nelle case dalla televisione, lo trovi cantato in mille e
mille versioni su You Tube, Sky (per chi è abbonato) ce l'ha
nell'apposita sezione “canti di Natale”. E' quel “Bianco
Natale...”
che ti invita alla purezza della neve, fredda purezza, freddo candore
che dovrebbe riscaldarti con la speranza di un mondo di pace, di
felicità, di amore ed ergo, senza sofferenza. Si canta di più (o
viene più ascoltato) Bianco
Natale o
il Tu
scendi dalle stelle?
O l'Adeste
fideles?
(oggi è il 24 Dicembre, ho scritto su Gooogle ad...e
la tendina delle meraviglie ha subito prontamente in cima alla lista
suggerito proprio adeste
fideles...mi
legge nel pensiero!...Come posso non soffrire più?) - Non è proprio
il caso di farsi questo genere di domande, al freddo e al gelo.
Semantica
dell'adeste
fideles:
fedeli, poi adepti, poi seguaci, poi...followers...
Quanto
ai discepoli, mi guardo intorno e vedo solo maestri e maestrini, ma
con tanti followers.
Che culo!
Quale delle canzoni di natale
a Natale viene più cantata o ascoltata? Sarebbe una ricerca
sociologica inoziosa. Ma in questo momento mi accontento (lo faccio
quasi sempre) della mia presunzione.
Una
data, un evento, un memoriale, bastassero per la sospensione della
sofferenza! O, meglio, bastasse una festa ad attivare la speranza che
è palliativo delle sofferenze. Quel più,
poi, avrebbe anche la pretesa di essere definitivo. In realtà è
un'esortazione che si nega. La neve copre, non lava. E il freddo,
nonostante la tropicalizzazione delle nostre latitudini, non è
fascìna neppure illusoria per il fuoco della speranza. Alla faccia
d'ogni parènesi, che si vuole tradizionale e rassicurante.
Penso
che le metafore si usurino. Che questo processo c'è sempre stato fin
dai tempi di Omero, ma che ora ci sia un di più nella velocità
dell'usura e nella mala fede dell'impiego di queste metafore. O, se
non c'è mala fede, vuol dire che impersonale, cieco e idiota il
Leviatano
che
è il mondo ci sta inghiottendo nel suo ventre incosciente, con la
nostra connivenza altrettanto inconsapevole o impotente.
Tu
scendi dalle stelle
… e
vieni in una grotta al freddo e al gelo...freddo
e gelo sembrano un'endiadi, o piuttosto un climax ascendente. Non
solo freddo, ma proprio freddo freddo, insomma gelo. Evidentemente
quello degli spazi siderali non bastava, o era più intollerabile,
oppure il Paradiso era troppo caldo, come una sauna, per lo più
piacevole ma a volte irrespirabile. Evidentemente in quello scendere
al freddo e al gelo c'era un bisogno di qualcosa di più terrestre;
c'era bisogno della grotta... ma non era una stalla, o una capanna?
In questi casi essere filologici non giova e non ha senso. Essere
filologici serve solo a rimanere in superficie, e le superfici sono
piene di contraddizioni e dove c'è contraddizione c'è alibi.
M'immagino
Betlemme come una Rimini in Agosto, tutto esaurito, con in più il
freddo e il gelo...e sorrido. L'ingenuità non mi induce a cancellare
quello che ho scritto (quod
scriptum scriptum,
lo disse anche Pilato), in fondo a Natale si ritorna tutti (un po')
bambini. E questo mi fa venire in mente la
piccola fiammiferaia come
figura femminile del bambinello.
La fiaba ha solo 96.400 occorrenze, nonostante Hans Christian
Andersen, nonostante abbia messo il titolo in italiano, come numero
mi sembra un po' pochino. Vorrei aggiungere alla ricerca un: “figura
cristica” (o “cristologica”); ma tralascio per evitarmi la
frustrazione.
La
bontà del Natale (a
Natale siamo tutti più buoni etc. etc.- tanto per dire). Sarà
decadente ma a volte questa civiltà del tramonto conserva un'ironia,
inconsapevole magari, che ne vale la pena.
I
propositi per il Natale.
Eliminare tutti i vizi capitali meno uno, la “gola”. O forse
qualcun altro potrebbe anche essere recuperato, senza far del male a
nessuno beninteso; un po' di “accidia”, quel pizzico di
“lussuria”, via, possiamo anche permetterceli! Delle “virtù”
c'interessa poco, anche a Natale; e delle “opere di misercordia”
chi si ricorda? Troppa misericordia verso noi stessi distugge ogni
memoria e ogni dottrina.
Si imparava il catechismo a
memoria (“mandare a memoria” si diceva; perché questo “mandare
a...”? Non esistevano ancora banche dati e memorie remote, separate
da noi...). C'era un esame. La suora bacchettava e si facevano “prove
generali” prima che il parroco venisse a verificare definitivamente
la nostra fede. La correttezza della nostra fede, perché si sa, ogni
bimbo dentro di sé – nei suoi sogni e nelle sue fantasie – è un
piccolo eretico. Io stentavo a mandare a memoria (di sicuro stentavo
a capire – e quello che non capivo non riuscivo a mandarlo a
memoria). La suora, nel laboratorio di cucito dove le femmine
facevano scuola di ricamo e i maschi catechismo, non mi prendeva ad
esempio, mi metteva in fondo alla stanza e cercava di evitare che
venissi interrogato. Non era materna clemenza nei miei confronti, era
per non fare figuracce col parroco di cui nutriva, secondo il me di
ora, un colpevole amore. Proposito per il Natale: pensare a Suor
Luisa (così si chiamava) come a una santa. In fondo non mi costa
nulla e l'idea mi diverte. Allora, che proposito è? C'era la cultura
del sacrificio e della vergogna, allora. Mettetela come vi pare, va
bene tutto e avete pure ragione, ma erano due punti d'appoggio che la
leva di Archimede in confronto è una giacchettata!
Presepii
viventi.
E presepii morenti.
San
Francesco (in questo Wikipedia mi sembra esaustiva) ne è
tradizionalmente considerato l'inventore. “Guazzabuglio medievale!”
avrebbe detto il Mago Merlino della Disney. Presepe (18,3 milioni), o
presepio (arcaico: 2,9 milioni), (praesepire
il
verbo antico di derivazione) è parola latina: “recinzione” e
“mangiatoia” per gli animali nella stalla (o nel “recinto”,
appunto). Questa cosa mi fa riflettere. Ogni rappresentazione è uno
spazio recintato, separato, un luogo fittizio di cui, da altri luoghi
(reali), possiamo solo essere spettatori. Anche le sacre
rappresentazioni partecipano della stessa natura (natura? Essenza?
Sostanza?). E la nozione di “sacro”ha in sé qualcosa di
“separato” (segato, tagliato...recintato, ancora). Anche gli
espulsi da una comunità (anche il capro espiatorio degli ebrei) era
“sacro”, in quanto reietto nel rito e maledetto di fatto. La
sacralità originariamente era ambigua: segnava
di volta in volta il benedetto e il maledetto, il positivo e il
negativo. Ma il presepe/presepio è rappresentazione benedetta, e a
Natale non possiamo dilungarci in questi disorsi...La mangiatoia
(sineddoche della recinzione) ci significa
che ogni spettacolo in qualche modo ci nutre, nutre di noi qualcosa
(come le esecuzioni capitali in piazza, ad esempio; come i filmati di
incidenti, guerre o catastrofi, ad esempio). Che anche Google sia un
presepe (IL presepe)? La mangiatoia in cui siamo tutti caduti per una
sterminata, bulimica, abbuffata?
L'iconografia è
apparentemente infinita, dico quella del presepe, e non mi metto a
compulsarla. Ci vorrebbe però un Angelo (osservatore, esattore,
registratore, sterminatore) che passasse di casa in casa – nel
mondo – per registrare quante occorrenze di presepii ancora vengono
messi in scena. Un Angelo-contatore, per dire.
Io avevo pastori in gesso,
capanne di legno, fior di farina per neve, cartoni per montagne e per
erba vero muschio di bosco. I magi partivano dal punto più lontano
rispetto alla capanna e di giorno in giorno li avvicinavamo al
bambinello; su scala ridotta sognavamo di un viaggio lunghissimo, nel
tempo e nello spazio. L'oro era la luccicanza della stella cometa, la
sola concessione alla plastica, che sembrava proiettarci in un futuro
opulento, l'incenso era quello bruciato in grani di cristallo nei
turiboli delle chiese (che ti faceva lacrimare gli occhi e tossire),
la mirra questa sconosciuta fascinazione, questa incognita che
aggiungeva mistero al Mistero (e che ora conta 13,5 milioni di
occorrenze in 0,40 secondi).
Occupava un'intera cassapanca,
il nostro presepio, dove era nascosto, come in un sarcofago, il
corredo di mia sorella, messo piano piano da parte per quando si
fosse sposata. Lo scatolone dove si riponevano con cura devozionale,
dopo l'epifania, gli attori e gli scenari della rappresentazione, fu
oggetto di eredità familiare.
Mia sorella, da sposata, si
mise a collezionare i personaggi presepiali della Thun (piccoli
costosissimi boteri che ad oggi contano 62 pezzi, varianti di
colorazione compresi). I miei presepi di anno in anno andarono sempre
più a rimpicciolirsi; i re magi si persero nel loro viaggio fra
labirinti di dune troppo velocemente ridisegnate da venti bizzarri e
fra un'infinità di stelle comete a sciabolare i cieli neanche il
tempo di esprimere il più semplice dei desideri.
Riempi
gli spazi con pensieri tuoi sul Natale...questa
la sorte dei “pensierini”: “test a crocette” e, quando ti va
di lusso (ma proprio di lusso!), “domande aperte”, spazi
predefiniti da compilare a piacere MA con non più di n° xxx di
parole! E' per insegnare la sintesi. Una sintesi talmente sintesi che
può fare a meno della tesi e dell'antitesi. Tempo perso quello speso
a cercare di imparare a ragionare. Tempo pericoloso, soprattutto.
Così, i pensieri
tuoi
saranno i penseri di tutti, salvando la correttezza politica e la
democrazia della rete. Anzi no, la democrazia tout
court.
Gli auguri per mail,
circolarizzati nei whatsapp a tutta la rubrica. Un tempo non lontano,
in realtà lontanissimo, circolarizzati negli SMS (alcuni pensionati,
quelli ancora in vita perché di evoluzione cocciutamente lenta, li
usano tuttora).
I
“se non ci rivediamo/risentiamo più, auguri di buone feste”
(natale capo/fine d'anno messi insieme per far prima) – c'è chi si
strizza le palle o fa altri scongiuri a quel se
non ci rivediamo più -.
Chi fa incetta di agende e
calendari facendo il giro di banche e agenzie di assicurazioni.
Ognuno fa i pellegrinaggi che si merita...
Per
i primi cristiani il dies
natalis
era il giorno della morte. La morte come (vera) nascita all'altro
mondo. Così si rendeva più leggera la vita; anche noiosa, se
vogliamo, come una sala d'aspetto. Ma possiamo sopportarla, la sala
d'aspetto, possiamo anche soffermarci a sfogliare una rivista letta e
stropicciata da molti prima di noi, mentre aspettiamo pazienti il
nostro turno. Ma anche questi sono “gesti” (come li chiamerebbe
Baricco) che sono andati in malora.
Il mio “Segno” dice che
per il nuovo anno dovrò essere positivo e propositivo (anche
l'oroscopista gioca con le parole). Positivo e propositivo significa
non cadere in depressione, non lasciarsi andare (eufemismo). Tutto ti
crolla intorno e dentro, ma devi essere positivo e propositivo,
sottintendendo forse il successo. Ma il successo, per definizione, è
già successo, e tutto quel che può venire dopo se lo rubrico come
“tardivo” mi faccio una cortesia.
Ascolto qualche botto precoce,
prova della tenuta esplosiva e rumorosa di petardi venduti nelle
tabaccherie, e ho nostalgia, ma non so perché. Non ho mai fatto
pazzie da ragazzo per i petardi e le fontane pirotecniche di fatue
scintille. I petardi mi hanno sempre fatto pensare ad aggressive
pete, ma sicuramente è una falsa etimologia e poi questi non sono
pensieri da farsi a Natale.
Poi,
lo so per esperienza, ci saranno anche i botti tardivi, a ripulire, a
chiudere le feste come una nostalgica ringkomposition,
a consumare tutto, ma proprio tutto, il vecchio e il nuovo.
Un
amico, dalla spiccata propensione al misticismo, m'invia su whatsapp
(ancora, ma è un affollamento!) un jingle
bells in
cui una ragazza accovacciata di schiena davanti alla telecamera, con
un cappello da babbo natale lungo fino all'osso sacro e a culo nudo
(un culo portentoso su cui sono dipinte due campane in aurea vernice,
una per chiappa), balla al ritmo della musica, muovendo solo e
alternativamente le due natiche-campane che sballonzolano, ma a
tempo, come burrosi agglomerati in procinto di sciogliersi sulle
illusioni di sguardi senili, insomma non proprio come si
“scioglievano” le campane nella chiese per la Pasqua di
Resurrezione. Davanti a quello spettacolo penso a come anche i
simboli si stiano sempre più confondendo.
I Simboli si confondono ormai;
potrebbe essere il loro destino naturale (etimologico), ma sento che
non è così. Lo sento, e basta.
Altri amici cherubini in
eccitazione natalizia mi inviano, in ordine di arrivo: un video e una
poesia “buona” su come spendere “bene” il tempo. Del video si
richiede, con la solita formuletta da senso di colpa se non lo fai,
che venga diffuso il più possibile (le visualizzazioni, se virali,
generano sensibilità e ricchezza!). Il filmato è stato girato in un
reparto oncologico in cui giovani, troppo giovani pazienti hanno
organizzato una festa di Natale con tanto di balletto e canzoncina
(il montaggio mostra: corsie luminose di un ospedale, un coro che
canta in un immenso ascensore buio, poi, stacco su singoli cantanti
che, in una sala di registrazione, con cuffie appese a teste
completamente calve, fanno gli assoli previsti – dissolvenza
elfica). Sono una sequenza di minuti che non possono non stringere il
cuore, ma anche far pensare – e non me lo spiego – a una forma
eccentrica di pornografia. La poesia, invece, potrei anche
trascriverla ma sento che se lo facessi sprecherei quel tempo che la
stessa ti invita a impiegare bene.
Poi ci sono le foto
tradizionali, alberi di natale, soprattutto luminosi alberi di
natale, ricchi di palle barocche e di auguri, e qualche presepe
stilizzato sotto una stella cometa fuggiasca.
Immagini
che si rincorrono, si intasano, si intrecciano nell'etere (etere?),
che ti rimandano, che mandi e a volte anche tu ri-mandi. Immagini di
riciclo. Doppioni dell'era del virtuale. Almeno, una volta, quando si
scrivevano solo cartoline d'auguri, ti facevi la lista dei prescelti
e spedivi – una volta sola, senza doppioni – magari anche con un
tuo
dedicato
e delicato pensiero. E se ricevevi una cartolina – anche se uguale
fra mille -, quel “tanti cari auguri...” pur banali e formali,
scritti a mano, avevano comunque il valore di un pensiero riservato
solo a te, il predestinato, un pensiero lunghissimo fra lo scrivere
il tuo indirizzo, vergare l'augurio e firmarlo. E ogni cartolina
diventava il segnalibro dei libri che stavi leggendo in quel momento
della tua vita. Pensate che bizzarria!
Del
Natale (ma prima ancora dell'Avvento) dicesi “periodo
di raccoglimento”.
Immancabile in ogni novena, liturgia, omelia. Invece dovrebbe essere
periodo di dispersione, per cercare e finalmente accogliere.
Disperdersi per raccogliere (ci giro su e intorno, insisto con
volontà di ridondanza). Natale dunque, “periodo
di accoglimento”.
Ma per sapere accogliere
come
si deve, è necessario sapersi disperdere
come
si deve. Un'umanità dispersa (anche questa espressione la ritrovi
nella liturgia – e l'immagine è quella del gregge senza pastore)
un'umanità dispersa che cerca e accoglie è una comunità più
unita. Bisognerebbe maggiormene riflettere sulla verità di certi
forse solo apparenti paradossi. Natale periodo di raccoglimento,
Natale periodo di accoglimento. Ma poi, perché solo a Natale?
C'è
un'urgenza e un'emergenza insieme che durano e si trasformano veloci,
e richiedono allo Spirito di volgersi nuovamente altrove e ancora,
ancora... Rinnovare l'ubi
vult a
rosa dei venti, di volta in volta secondando e pur guidando le nomadi
ruote del carro dei periodi. Barbari, mutanti, migranti...siamo
tutti sinonimi.
Una
mistica nuova, forse, quella del tacer
facendo.
Non nuova in fondo, anche perché mi accorgo con una certa delusione
estetica che suona come il motto di un corpo militare. Pazienza, m'è
venuta così.
Vado
a un concerto. Nella chiesa di San Ferdinando (chi era costui?).
Assisto anche alle prove, due ore prima del concerto vero e proprio.
Il Gloria
di
Vivaldi, per coro e orchestra, non è di facile esecuzione
polifonica. Di solito durante le prove cerco di leggere e mi porto
sempre un libro (perché allora vado alle prove e non vado
direttamente al concerto?). E' come acclimatarsi all'acqua sempre
troppo calda delle vasca, forse è per questo che faccio per lo più
solo la doccia. Anche al Natale bisogna acclimatarsi, evidentemente.
Il libro (già letto in passato) è Penultime
notizie circa Ieshu/Gesù
di Erri De Luca (2011 – questa volta su Google, per cercare l'anno
di edizione, non è stato sufficiente digitare solo “Penultime...”,
ho dovuto scrivere il titolo per intero; non mi “hanno” letto nel
pensiero, o erano distratti, una volta tanto!). Le prove mi prendono
e la rilettura langue (ed è forse per questo, che è comunque una
rilettura, che non mi sento in colpa più di tanto). Comunque, fra un
suscipe
deprecationem nostram...e
un quoniam
tu solus Deus...cha
a più voci si rincorrono, inesorabilmente incalzati dagli archi,
annoto: “sdraiarsi nella polvere per essere richiamati nel tempo
immancabile... Tempi d'altra umanità...dove si restava incinta di un
annuncio...l'inizio è un caracollio di violini…ungere è, in
realtà, più un impregnare...”.
Ascolto da una voce sradicata dallo stomaco, senza respiro, un
miserere
nobis che
mi strugge.
Non
c'è solo De Luca, qui, ma anche uomini di buona volontà di cui
vorrei far parte piena. Il testo latino del Gloria,
da cui dipende la nostra traduzione in italiano, inneggia alla “pace
agli (per gli) uomini di buona volontà”. Il testo greco
differisce. Il testo greco parla di “in terra pace fra gli uomini
di
retto intendimento”,
c'è qualcosa per tutti, allora, nella versione greca, c'è qualcosa
di più universale e, se vogliamo, laico. Non che il retto
intendimento differisca
molto dalla buona
volontà,
ma lo trovo comnque più abbordabile. La volontà è inflessibile.
L'intendimento è tensione, nel cui statuto è possibile il cadere e
il rialzarsi, il tentare anche vano, la buona fede malriposta che
giustamente reclama clemenza e misericordia. La volontà c'è o non
c'è, e mi turba l'aut
aut.
(In questo caso, ringrazio Google che mi ha dato a disposizione il
testo greco in 0,32 secondi, segnalandomi 38.200 occorrenze per
“gloria
in excelsis Deo –
testo”). Per inciso, l'incipit
della
più famosa preghiera dossologica cristiana si trova attestato nel
Vangelo di Luca. Ma valle a capire 'ste associaciazioni...De Luca,
Luca, questo Gloria
di
Vivaldi...
La preghiera va dal basso
verso l'alto (come il calore?), anche se questa è da subito un
trionfo magnisonante e sublime che ti strappa in 0,001 secondi oltre
il fior della pelle.
Ho bisogno di consolarmi, lo
scopro d'improvviso come una rivelazione. Ho bisogno di consolarmi
per consolare e questo non mi fa sentire in colpa, almeno per oggi,
almeno in questa sera, in questo Concerto di Natale, nel gelo di
questa chiesa che ora mi semba un forno mentre guardo gli occhi di
mia figlia, che si chiama Gioia, e che con lo smartphone (sistema
“Android”) registra quella musica mentre cerca di individuare nel
coro la figura della madre che canta fra i contralti.
In
ufficio, ridotto ai minimi termini, alla Vigilia, in cui si lavora
sempre solo di mattina, per la prima volta non abbiamo fatto i
brindisi di auguri né mangiato tartine e dolci. “Crisi” conta
97,5 milioni, “disoccupazione” ne conta solo
17
milioni, tondi tondi. Dentro un'emergenza continua alcune urgenze da
onorare. E “onore” qui ha perso la parte nobile, per mantenere
del crudele gioco di parole, la banale feccia dell'”onere”.
Questo
Natale dell'era globale che richiama pecore e pastori (molti), re
magi (pochi), angeli della speranza, e imbonitori o guerrafondai che
rassicurano le masse (i greggi, tanto per restare in metafora), che
richiama alla pace preparandosi alla guerra e stende nastri luminosi
su perduranti guerre dimenticate, rendendo ogni cosa così vicina da
occultarla, accecandoci senza veggenza, richiama anche i lupi (e come
non potrebbe con così tante pecore?): homo
homini lupus (da
Plauto a Hobbes – rivincita obliqua dello stato di natura) – e
sue varianti a piacere (cercate su Google!).
Ecco,
a questo punto di questa sorta di effemerica,
e forse effimera (lo so, è più forte di me!), narrazione ci sta
bene il paragrafo: letture
in corso.
Le mie letture natalizie. Non che la cosa interessi, lo so bene, e
non penso che qui e ora s'innalzi l'attenzione assopita
dell'eventuale lettore
generico e indistinto o
di quello (sempre eventuale) distinto, compìto e di egregia
personalità.
Comunque,
in questo periodo ho fra le mani nell'ordine: L'uomo
invaso (racconti)
di Gesualdo Bufalino, Stranieri
residenti – una filosofia della migrazione
di Donatella Di Cesare e The
Game
di Alessandro Baricco (dono di natale di mia suocera da me
occultamente pilotato...perché per manifesta antipatia ho da tempo
deciso che Baricco me lo faccio solo regalare). Di Bufalino mi
piacerebbe realizzare, con umiltà, un canone inverso (è troppo
sublime!), della filosofa Di Cesare mi piacerebbe riuscire a
distillare un manuale pratico, del tipo Guida
a...
(è troppo rigorosa!), di Baricco ne farei una traduzione più
sincera, meno sussiegosa/leziosa e rispettosa delle fonti, che usa e
non dice – in specie quelle di pensiero (è sempre troppo
gigione!). Ma soprattutto eliminerei quell'ottimismo narcisista,
malcelato da una problematicità di maniera, che patentemente trasuda
dalle sue, sia pur condivisibili in parte, analisi della mutazione
in atto.
E questo già ne I
barbari,
di cui The
Game
è continuazione, approfondimento e aggiornamento. Un ottimismo che
non trovo né in Bufalino né nella Di Cesare; e
quest'assenza/essenza naturale me li rende più cari e sim-patici.
Mi
sento un guardiano
di rovine che
interpella invano l'Immenso
Assente...dotato di una distratta veggenza,
mi sento viandante circondato da un cimitero
marino,
migrante stanziale che si prova a considerare ogni terra non madre
ma
sposa,
a considerarsi straniero
per
meglio comprendere l'altro. Un meteco ma ai tempi di Platone, che
l'aveva vista lunga su certe cose. Poi mi dico che se fossi stato
davvero un meteco, Platone non l'avrei visto nemmeno col binocolo e
allora mi tranquillizzo un po' per questa mia distanza, che pur mi
privilegia e mi rende “contemporaneo” (ma a chi?). Stizzisco
della presunzione sia pur veritiera (e magari c'è anche un po'
d'invidia, lo confesso; vizio ahimè non natalizio) di chi, troppo
seducente e curioso del Gioco,
con intelligente e magistrale colpo mi invita a “rovesciare la
mappa” e a
non chiedermi quale tipo di mente ha creato Google, ma quale tipo di
mente ha generato l'uso di Google.
Ogni libro mi rende perplesso, e forse proprio questo è lo scopo dei
libri, renderci perplessi come antidoto ai nostri delirii di
onnipotenza, al nostro borioso “tirarsela”, alle nostre
credulonerie da eccesso di informazioni.
Nel
periodo dedicato alla più elevata celebrazione dell'Incarnazione,
e questo già da un paio di millenni e rotti, il corpo è diventato
prima progressivamente, più velocemente ora, il
relitto supremo di
cui disfarci (altri tipi di fitness
si
profilano, vedrete!); ogni realtà si disincarna e per le generazioni
in corso e a venire i guadi di vita si fanno più numerosi, infidi e
complessi.
(“Incarnazione” fa 1,9
milioni, “disincarnazione” fa solo 60mila e rotti e, udite udite,
“fitness” è a quota 3,150 milioni).
Un esempio azzeccato (tratto
da Baricco, ahimè!): Amazon ha fatto morire le Latterie. Ora
rinascono locali “citazione delle vecchie latterie” (Carofiglio
in un suo romanzo aveva inventato l'”Osteria del caffellatte”).
Direi che riguardo ai libri che ho per le mani può bastare...ma
prima di chiudere:
Semantica della citazione:
citazione...poi, copia-incolla (c'è differenza, c'è differenza...
credetemi sulla parola!).
Oddìo,
ancora rincorso da mille pensieri (i miei pensieri sono solo
riferimenti,
ma mi accontento), un paio di postille ci sarebbero, anzi tre.
Postilla
1 – a proposito di semplicità
e
complessità.
Nella commistione di questa ormai realtà di due mondi, che
attraverso la Rete e le AP(plicazioni) ci faciliterebbe la vita,
apparentemente senza intermediarii (“Sacerdoti” li chiama
Baricco, copiando e non lo dice), in questa commistione,
gerarchizzata da algoritmi “democratici”, dove la verità è
stabilita dalle “pagine” più cliccate, in questa commistione,
dicevo, ci si perde come in un periodo troppo lungo da sostenere...ma
il paradosso è che se l'algoritmo è complesso, la sintassi è di
una semplicità mostruosa.
Postilla
2 – a proposito del sacro.
Il mondo digitale compresso, leggero e veloce è entrato nel mondo
materiale, esteso, pesante e ancor lento; un ossimoro:
un'incarnazione disincarnata (e disincarnante). Il mondo digitale,
zippato, ha reso confini
secondari il
virtuale e il materiale. Il sacro
ha
sempre avuto bisogno per de-finirsi del trascendente.
Senza Trascendenza non c'è sacralità della vita e mistero di vita.
Non più “la Vergine partorirà un figlio”...Ecco, o mio ideale
Teofilo, io penso che il virtuale
sia diventato una sorta di degradazione eonica del trascendente,
una sua pallida ma omnipervasiva rappresentazione tecnologica, ad uso
e consumo (soprattutto consumo) dell'homo
novus,
questo sogno di un'ombra (Pindaro) senza speranza e destino di
rendenzione o, almeno, riscatto. Si è tagliata la testa al
Minotauro. Ma è ancora Natale e ancora si fanno riecheggiare nel
deserto delle chiese le ostinate antiche parole dei profeti. Si è
tagliata la testa al Minotauro, ma ancora una “Vergine partorirà
un figlio”, con la genetica, certo, o col viatico del più
autorevole degli Oracoli. Ci saranno nuovi calendari e nuovi altri
natali, e di anno in anno calendari e natali li sceglierete
voi...sarete liberi di cliccare sul natale a voi preferito e di
consultare i responsi di Google certi delle verità, complici delle
verità del Nuovo Pitone.
Postilla
3 – leggo (ancora da Baricco!...non me ne libererò mai...) che su
You Tube ogni minuto vengono caricati (alleggeriti) 400 ore di video.
Per me c'è di che avere qualche problema in più con la nozione di
tempo. Mi dico che ci vorrebbe un nuovo Heidegger che scrivesse
almeno un'appendice (dei paralipomeni,
ma che dico!, degli aggiormenti, o, piuttosto, un tutorial)
a Essere
e tempo.
Poi, mi ri-dico, che sarebbe come attendersi la spiegazione della
teoria dei quanti dall'uomo di Neanderthal.
La
parola “uomo” mi fa venire in mente altre cose. Si parla di
“migrazione dei dati”. E tutti intenti a questa operazione
dimentichiamo volentieri altre tragiche migrazioni. O le
minimizziamo, o ci fanno paura (la polarità è meno impegnativa
delle sfumature). Soluzione: ma se trasformassimo anche l'uomo in un
dato
(perché,
non lo è già?...una voce dal fondo...), ecco che il gioco è fatto
(the
game)
e possiamo anche metterci la coscienza a posto. Voilà! Puah!
Finisco così e qui questi
miei esercizi di autismo. Allenarsi è importante. I fatti son ben
poca cosa. Ma ci sono e, quindi, la narrazione continua. Pranzo di
Natale in famiglia. Classico. Ritrovarsi anche con chi durante l'anno
non ci siamo cercati. Mangiare molto e molto parlare di argomenti
volatili, non urtare suscettibilità solo sopite, retorica della
reticenza, affetti che comunque (oh, stupore!) ci sono, ci sono
ancora. Scambiarsi regali più poveri con la sorpresa di sempre.
L'esercizio del ricordo, qualche amnesia che viene prontamente
risolta da una rapida consultazione sullo smartphone, ma senza
eccessi. Lo so che un tempo ci saremmo alzati e, raggiunta la
libreria, con la mano sospesa a scorrere i volumi, avremmo estratto
risposte come da una dispensa domestica di scorte, patrimonio del
focolare...avremmo magari indugiato, confrontato con altri reperti e
nuovamente riposto la reliquia nel suo sacrario, soddisfatti della
ricerca. Tutto questo lo so e lo ricordo come un gesto elegante, una
cortesia d'altri tempi. Mi sorprendo a stare bene, ad essere quasi
felice. La mia è una golosa felicità endorfinica: trangugia dolci e
si sente venialmente colpevole. Scopro di non annoiarmi, anzi.
Aspetto Santo Stefano, il
protomartire. Aspetto – con un po' d'ansia in verità – l'ultimo
dell'anno, perché vorrei che il prossimo fosse migliore. Ce la
metterò tutta, parola di lupetto! Aspetto l'Epifania come
un'etimologia che finalmente si avveri. Ma ringrazio comunque per
l'anno che scivola via.
Intanto,
mia figlia ricorda di quando cantava Astro
del ciel...con
un'infantile ma significativa variazione...Nastro
del ciel...(e
lo vedo, ora, quel “nastro” a infiocchettare tutto il cielo, ma
soprattutto il mio orgoglio di padre).
Mio figlio, Giorgio, tiene in
braccio con nobile e fiera tenerezza SOFIA, mia nipote. Sono nonno da
poco più di due mesi, è bellissima e solo Lei meriterebbe altre
10-100 pagine (per amore e per abituarmi a un'idea, nuova di
millenni, che si è incarnata, al contempo e per polarità che si
attraggono, in Lei e in me)...: scintilla di stellare essenza, il
miele dolce del suo respiro, un sudore profumato e leggero a
separarla dal mondo recente, come un'ostinata reliquia onirica
dell'amnios che l'avvolgeva nel suo cosmo uterino. Consapevole
professo d'eresia, con Lei ho compreso il senso dell'Adorazione
Eucaristica nel ventre oscuro delle chiese, a mala pena illuminato da
esili teorie di candele.
“Cera,
frutto della fatica delle api”, mi sembra dicesse un'antica
liturgia pasquale – se ben ricordo, ma non vado su Google. Mi piace
l'idea che lo scarto
possa considerarsi dono prezioso, che la cera, frutto secondario per
la logica umana dell'operosità delle api, assurga al podio dell'oro,
dell'incenso e della mirra. Mi sento la cera di quelle candele, mi
sono consumato, illuminando poco e con luce incerta, ma anche da
questa materia di carne, da questa semplice, povera cera molliccia, è
nata Sofia. Non sto scivolando nel rincoglionimento, improvvisando
prove di barocco smelenso (a proposito di cera e miele),
tranquilli!...E' orgoglio che si
nasconde maldestramente e senso del tempo che si
trascorre nel fremito residuo di un vento fuggiasco. E' adorazione
che tenta, inutilmente, malamente, di farsi parola. Come
chi ha un pensiero eccessivo ma non sa trovargli parole
(Bufalino)...e si appoggia a quelle di un altro o china il capo
all'ineffabile (che c'è, lo giuro, io lo vedo).
Sofia
è “sapienza”, tutti lo sanno e se non lo sanno vanno a vedere su
Google, quando si deve scegliere il nome. Evito esoterismo mistica e
gnosi. Ma spero, con un'intensità tale che possa raggiungere le
stelle (il desiderio), che sia nomen
omen.
Lo desidero per Lei. Ne abbiamo bisogno.
In
fondo, cosa abbiamo in più delle incertezze dei cavernicoli?
L'evoluzione, l'oltremondo
digitale
hanno forse dissipato le nostre paure? In qualche modo ora siamo più
coscienti della nostra cecità, e questo per molti (i molti?)
risulta tanto intollerabile da farci connettere a un mondo omologato
per drogarci di un'allegra tristezza, di una libertà atona ed
eteroimposta, di passioni
tristi (come
direbbe Miguel Benasayag). O forse, più semplicemente, la tribù si
è allargata e la caverna pure, per necessità (ma quale?). E nella
grotta, sfrattati i protagonisti del Miracolo, ci stiamo assiepando
per riscaldarci meglio, meglio sgomitare, ma anche per consolare le
nostre paure, accettando come vere le ombre proiettate sulla parete.
In questo abbiamo trovato la nostra perfezione, ma ciò che è
perfetto
è “portato a termine”. Una volta per tutte. E allora mi dico che
sì, c'era bisogno, c'è
bisogno
di Sofia.
Per sfida, o tresca con me
stesso (direbbe Bufalino), digito con un refuso: “Nitale”.
C'è!,
sono deluso (che fa rima con refuso, accipicchia!). C'è, ed è un
villaggio dell'India e conta 102mila occorrenze, ma con le varianti
(fra cui un “Nital” soluzione
di acido nitrico e alcol usato
per incidere i metalli).
Riprovo
ancora: “Nitale”... niente da fare … scorro le pagine:
villaggio, composto chimico e ammennicoli vari... speravo in un più
logico “forse cercavi...Natale...?”,
o in un più beffardo: “forse cercavi Pitale...?”.
Che, nel caso, mi avrebbe quasi convertito. Non si sfugge alla
perfezione di Google!
Potrei
ulteriormente cimentarmi con tutte le restanti vocali...netale,
notale, nutale...ma
non ne ho voglia e, ormai per fede stanca, credo che comunque ci
sarebbero dei risultati. Google conosce anche le parole del caso!
Tutto è attestato, tutto è perfetto,
non ci sono refusi in questo mondo. O se ci sono, sono perfettamente
rubricati.
Penso che ci sarebbe bisogno
di un altro momento aurorale. Di un refuso, qualcosa d'inattestato,
senza occorrenze, di unico e irrubricabile. Di un “errore di
sistema” che ci facesse ripartire, ricominciare addirittura. Questo
mi innervosisce di begli spiriti la pelle e m'intriga e m'inquieta,
lo sento un dovere da nonno, una responsabilità che devo a Sofia.
Allora mi sorge spontanea (se
qualcosa sorge è sempre “spontaneo” direbbe Paolo Nori), la
preghiera per questo Natale (e per quelli che verrano, finché potrò
pregarli):
Fa'
che in questo mondo s'incarni il Refuso,
fa'
anche che ognuno abbia il suo da condividere con l'altro
ma
senza metterlo in rete.
Fa'
che ci sia l'inciampo e lo scandalo (come di pietra)
ma
senza confusione di lingue o senza la lingua del solo algoritmo.
Fa'
che qualcosa di unico possa continuare a stupirci e a farci sperare.
Facci
crescere oltre la tecnologia e facci assaporare i limiti
del
nostro esserci e dell'essere nomadi, tutti.
Facci
essere sempre tutti stranieri,
per
avere il coraggio e il piacere di conoscerci di giorno in giorno nel
viaggio.
Facci
accogliere lo scarto, l'errore, come l'obliqua significanza
del
soffio di luce che crea nel mistero.
Dacci
la gioia – fuori dal protocollo della statistica -
di
una ri-velazione che s-veli e al contempo nasconda, per meglio
amarlo,
il
senso della nostra esistenza.
Amen!
Francesco Parasole