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domenica 13 maggio 2018

La relazione su I Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese del dott. Francesco Parasole


Dialoghi con Leucò

di Cesare Pavese (1908-1950)

La modernità del mito contro il mito della modernità


«Ciò che è stato sarà»
C. Pavese, Dialoghi con Leucò, passim

«Ogni cosa che faccio è destino»
C. Pavese, Id., La strada (parla Edipo)


«I luoghi, gli spazi che ospitano il manifestarsi di un soggetto si possono dividere in tre categorie: quelli che esistono fisicamente da qualche parte della terra; quelli immaginari, che esistono nella fantasia di chi vuole farci credere di esserci stato (Paese di Cuccagna, Terra di mezzo ecc.); e quelli veri, che ...1 non sono segnati su nessuna carta geografica».2

Ecco, io credo – insieme a Pavese e a molti altri nel tempo – che i miti siano quei luoghi, o spazi, della terza categoria; che i miti siano veri e operativi a vari livelli di consapevolezza (o di inconsapevolezza). E che esplichino la loro esistenza quali luoghi originari del manifestarsi collettivo e individuale di un “qualcosa” o un “qualcuno”. La frase è l'incipit dell'introduzione di Luigi Ballerini alla sua nuova traduzione per Mondadori dell'Antologia di Spoon River. E non a caso. La prima traduzione del capolavoro di Edgar Lee Masters a cura di Fernanda Pivano fu del 1943 per Einaudi; l'opera le fu fatta conoscere proprio da Cesare Pavese3, di cui la Pivano fu allieva, e pesantemente rivisitata e migliorata in sede di editing da Pavese stesso, all'epoca già plenipotenziario editoriale della casa editrice. Spoon River è un luogo mitico e potentemente vero che suggestionò lo scrittore-editore, tanto quanto le “favole” (fabulae)4 della sua memoria classica.

Del resto, già un professore di scuola del I-II sec. d. C., il greco Elio Teone di Alessandria aveva scritto che «Il mito è un discorso falso, icona di verità» (Progymnasmata, 72.28). Che poi la verità si nasconda dietro l'icona di un racconto e di un personaggio e sia sempre, da millenni, sfuggevole, enigmatica e bisognosa di infiniti tentativi di interpretazione è un altro paio di maniche. È qualcosa che ci complica la vita, se solo lo vogliamo, come volle farcela complicare (e come se la complicò sicuramente) Pavese, rincorrendo questo vero che sentiamo esserci e che non vediamo mai del tutto.

Pavese va letto. O meglio, va riletto. Se lo avete letto da adolescenti, ora va riletto. E parlo a quelli della generazione che nacque quando Pavese si uccise, nel 1950, e a quelli che nacquero nel decennio successivo e poco più. Ricongiungere una lettura dell'adolescenza a una rilettura in età adulta può avere l'efficacia rivelativa di un ritorno avventuroso, come quello di Odisseo. È forse, nella vita di ognuno, un necessario percorso iniziatico da compiersi nel gesto circolare e quindi rivoluzionario di discendere in noi (catàbasi) e risalire da noi (anàbasi), se possibile rinnovati.

L'opera di Pavese poi ha la costanza e la lentezza dei classici. Quelli, secondo la definizione di Calvino, che continuano a parlarci a distanza di anni, in ogni epoca della vita, con elementi sempre nuovi di scoperta di noi e del mondo.5 Allora, mi dico, i miti sono come i classici. O meglio, il contrario. Sono tutti quei libri che noi definiamo “classici” ad esser tali perché attingono alla inesauribile ricchezza dei miti. Perché, se guardiamo bene, in principio fu il mito (mythos), il logos venne decisamente dopo.
Fino alle soglie del terzo millennio l'opera di Pavese e la sua tragica (e quindi eroica) figura umana hanno goduto di molti studi critici nazionali e internazionali, di molte edizioni e di traduzioni. Fino al 1999/2000 la bibliografia su Pavese è vivace, o come si dice in gergo feconda.
Ad oggi pare che questo interesse si sia affievolito; certo, nelle università si continuano sporadicamente a discutere tesi di laurea sull'autore, Einaudi continua a ristampare edizioni economiche con ottimi apparati introduttivi, stralci antologici della critica letteraria ed esaustive annotazioni biobibliografiche, come in questa edizione dei Dialoghi con Leucò, che qui si propone (ultima ristampa del 2014), veramente pregevole e corredata addirittura di Note al testo dove si riportano con filologica accuratezza anche le varianti delle minute manoscritte dell'autore, i suoi appunti, le sue annotazioni, le incertezze sul titolo, le prove introduttive e i molteplici schemi della travagliata gestazione contenutistica e redazionale dell'opera; schemi variamente combinati: o per titolo, o per argomento, o secondo i personaggi di ogni dialogo.6 Questo tipo di meritorie edizioni hanno comunque un'evidente destinazione di tipo scolastico. E si sa, quando un autore diventa un autore di scuola rischia di diventare antipatico, se non addirittura di essere destinato all'oblio.

Nel 1973 Francesco De Gregori scrisse Alice, non so se ve la ricordate, quella che “dice”:

Alice guarda i gatti
E i gatti guardano nel sole
Mentre il mondo sta girando senza fretta...

e a un certo punto, verso la fine:

E Cesare perduto nella pioggia
Sta aspettando da sei ore
Il suo amore ballerina

E rimane lì, a bagnarsi ancora un po'
E il tram di mezzanotte se ne va
Ma tutto questo Alice non lo sa...
Il Cesare che aspetta invano Alice sotto la pioggia è Pavese. E, a parte il nome della donna (che poteva anche essere Bice, Berenice...Euridice...), il dato è biografico.
Nei primi anni '70 Pavese era un autore simbolo (c'era già un po' di “riflusso nel privato”...ormai il “riflusso” è solo gastrico e non ci si pone più il problema). Il suo rapporto con la politica fu anomalo rispetto agli altri intellettuali di sinistra (Elio Vittorini compreso). Il suo impegno fu tardivo, tormentato, dalla difficile integrazione. Fu mandato al confino ma non fece la Resistenza, scriveva sull'Unità ma agli interventi politici preferiva quelli culturali. Il viver collettivo gli pesò e la violenza, ogni violenza, da qualsiasi parte provenisse, lo inorridì. Fu “impegnato”, a volte sembra suo malgrado, ma si suicidò per amore, o comunque per una profonda stanchezza del vivere sicuramente più interiore ed esistenziale che ideologica. Tutta la sua opera, che vi risparmio qui di ripercorrere dettagliatamente, affronta temi come la solitudine, la morte, l'inadeguatezza, la marginalità e l'impotenza di aderire al reale da parte dell'intellettuale, del saggista, del traduttore, del poeta e dello scrittore, quale egli complessivamente fu. Tutta la sua opera, dalle poesie di Lavorare stanca, ai romanzi (anche quelli di impegno politico), alla scelta dei testi da tradurre e presentare al pubblico italiano del dopoguerra, alla saggistica sulla letteratura americana e sul mito (quest'ultimo, dal punto di vista antropologico, etnografico e finanche psicoanalitico), denota una profondissima modernità. Ma chi l'ha detto, poi, che scrivere storie della civiltà contadina delle Langhe sia arcaico e ingenuo o, al meglio, crepuscolare e decadente? Sarebbe ora di liberarci dagli stereotipi di certa critica e di certa storia letteraria.
Una buona parte della, come usava dire allora, critica “militante” infatti (almeno fino alla fine del '900), gli imputò da un lato d'essere “datato”, per tutti quegli aspetti realistici e naturalistici dei suoi romanzi e dei suoi racconti, dall'altro lo tacciò di imbelle e, diciamolo, anche di vigliacco: «egli di fronte ad una realtà storica che non accetta e nella quale non trova il proprio ruolo, né come uomo, né come intellettuale, sceglie di rifugiarsi nel mito» (D'Arrigo Patrizia).7 Niente di più sbagliato, a mio parere. Questa fama di fuggitivo gli fu cucita addosso dall'ostilità di alcuni comunisti ortodossi dell'epoca, a giudizio dei quali tutti i suoi studi sul primitivismo, sul mito e sul selvaggio non facevano altro che spianare la strada ad un «insano irrazionalismo». Se ci riflettiamo bene, le cose oggi sono molto cambiate; pensate alla sterminata bibliografia sui miti, alla diffusione delle opere di Jung e degli junghiani, agli studi sulla permanenza del classico e dei suoi stilemi, all'opera di autori quali, per citare i più noti e forse anche i più radical chic, Roberto Calasso e Pietro Citati, che indagano il mito per spiegare il presente.8 Ma Pavese è già stato etichettato (“realista e naturalista ingenuo”(!?)), archiviato e la sua acuta modernità rischia l'oblio.
Egli iniziò ad elaborare la sua teoria del mito in maniera ininterrotta dal 1943 al 1950. La maggior parte del suo lavoro, in questo ambito, confluì in Feria d'agosto del 1946. Opera anomala, eterogenea e modernissima fatta di racconti, interventi saggistici (vi riunisce tutte le sue riflessioni e i suoi studi mitologici apparsi su giornali e riviste), ricordi e appunti di poetica. In parallelo, tutti questi motivi li ritroviamo più intimamente trattati nel suo diario Il mestiere di vivere, tenuto dal 1935 al 1950, il suo zibaldone fino alla morte.
Già in una poesia di Lavorare stanca aveva provato - con enigmatica rarefazione – a dirsi e a dirci cos'è il mito:
Mito

Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov’erano le spiagge d’un tempo.
Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio il fragore del sole
fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca più il cielo; le nubi
non s’ammassano più come frutti; nell’acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.

Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva, c’era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.

Ora pesa
la stanchezza su tutte le membra dell’uomo,
senza pena: la calma stanchezza dell’alba
che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non conoscono il giovane, che un tempo bastava
le guardasse. Né il mare dell’aria rivive
al respiro. Si piegano le labbra dell’uomo
rassegnate, a sorridere davanti alla terra.9


Ma è con I dialoghi con Leucò (scritti dal 1945 al 1947 e pubblicati a Ottobre dello stesso anno) che Pavese dà carne etica, estetica e filosofica alle sue convinzioni riguardo ai miti dell'antichità greco-latina, e non solo. È la sua teoria del mito in azione, drammatizzata secondo gli stilemi del dialogo fra due personaggi identificati, soltanto l'ultimo, dal titolo Gli dèi, sembra multivoce, ma più propriamente lo definirei “anonimo” (perché non c'è identificazione dei personaggi e le voci che interagiscono possono esere 2 o più). Sono 27 dialoghi brevi, più o meno tutti della stessa misura (max. 2 paginette e qualcosa...), preceduti da una didascalia di poche righe, apparentemente asettica, a volte enigmatica, a volte solo ironica e allusiva. Dà molto per scontato – a livello di conoscenza presunta dei miti da parte del lettore – e, facendo finta di denunciare le fonti classiche, di riassumere di cosa si parla ed esprimere un sintetico giudizio etno-antropologico, di fatto nasconde fonti letterarie più peregrine e meno famose e nasconde soprattutto l'intimo rovello poetico che lo infiamma, il vero motore esistenziale di questo libello.
Traggo un esempio dalla didascalia del dialogo Le cavalle, che ha come personaggi il dio Ermete (Ermes) e il centauro Chirone:
«Di Ermete, dio ambiguo tra la vita e la morte, tra il sesso e lo spirito, fra i Titani e gli dèi dell'Olimpo, non è il caso di parlare. Ma che cosa significhi che il buon medico Asclepio esca da un mondo di divine metamorfosi bestiali, vale invece la pena di dirlo» (p.26).10
Vi è come un procedere obliquo (quindi enigmatico), la creazione di una aspettativa frustrata nonostante la preterizione, proprio perché costruita su una metatesi della normale disposizione sintattica delle parole.
Lo stile dei dialoghi, in modica antitesi con le didascalie preliminari, è semplice, chiaro, lineare, serrato, fondantesi su alcune ripetizioni che si rincorrono all'interno dei vari dialoghi; tipo il motivo-chiave: «Ciò che è stato sarà», con minime variazioni sul tema.11 A volte il tono è cupo, a volte dalle movenze comiche di un quadretto campestre o rupestre. A volte enigmatico e allusivo, come un oracolo delfico; a volte di una colloquialità disarmante. A volte tutte queste cose insieme, nello stesso dialogo. Sembra esserci una ricerca di classicità del linguaggio, di ingenuità primigenia, ma priva sicuramente di ogni manierismo e di ogni Arcadia, che in specie dall'Umanesimo in poi caratterizzavano l'uso del racconto mitologico solo in funzione esemplare, estetica e retorica (la similitudine mitologica come stereotipo esemplare o metafora del luogo comune), o tutt'al più allegorica con intento morale o moraleggiante.12 Qui il mito agisce a livelli più profondi ed esistenziali e lo stile pavesiano ci suona poetico, filosofico, esoterico, ritmico e trascinante proprio nella sua apparente perspicuità.
Molti hanno fatto parallelismi con le Operette morali del Leopardi. Io aggiungerei anche la mai citata influenza di autori di dialoghi più antichi (ad es.: Luciano di Samosata II sec. d. C. e Eroda o Eronda, con i suoi mimiambi di periodo ellenistico).
Ma perché Pavese militante riluttante, intellettuale “materialista” dagli sconfinamenti poetici, decide di scrivere non del o sul mito, ma con il mito e dentro di esso? Ce lo dice egli stesso nella presentazione all'operetta. Ce lo dice in terza persona, schermandosi o alienandosi, come se fosse l'editor o il prefatore di se stesso. Si prende in giro, ironizza su di sé, ma al tempo stesso si sdoppia e prende le distanze (come è giusto quando si tratta col mito) – pur tuttavia resta, anche nella dissimulazione, di una terribile serietà, di un tremendo rigore (Pavese è sempre stato così, del resto):
«Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c'è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand'era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l'assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po' straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi».13
Alcuni titoli: La nube, La Chimera, I ciechi, Le cavalle, la belva, Schiuma d'onda, La madre...L'inconsolabile, L'uomo-lupo, l'ospite, l'Isola, Le streghe, Il toro...
Alcuni personaggi dei dialoghi: Edipo e Tiresia (I ciechi), i già ricordati Ermete Ctonio e Chirone (Le cavalle), gli immancabili Eros e Tànatos (Il fiore), Saffo e la ninfa Britomarti (Schiuma d'onda), Orfeo e Bacca (L'inconsolabile), e ancora Achille e Patroclo, Eracle e Prometeo, due pastori, due cacciatori, Calipso, Odisseo, Circe, Teseo, Arianna (Ariadne), Cratos e Bia14, Dioniso e Demetra, la Memoria (Mnemòsine) madre delle Muse ed Esiodo (Le Muse), Leucotèa. Alcuni personaggi, divini, semidivini, eroici e umani, compaiono più volte – è il caso proprio di Leucotèa ad esempio, che parla con Circe nel dialogo Le streghe, e con Ariadne (Arianna) nel dialogo La vigna. Compare solo in due dialoghi, è vero, ma in anfibolica allusività è così presente in tutta l'opera tanto da prenderne possesso nascostamente, come vedremo, anche nel titolo.
E' fondamentale notare che le entità divine che interagiscono (chi parla) sono tutte entità primordiali (ctonie o inferne), ovvero la prima generazione oscura, abissale, sotterranea o terrestre di dèi; le forze primigenie che agiscono dentro di noi, le personificazioni di potenze cosmiche che poi, nel linguaggio astratto, quello del logos e non del mythos, assumeranno statuto ideale (astratto appunto) e disincarnato (il potere, la forza, l'odio, l'amore), o quello di personaggi di fantasia (le ninfe, i titani, i centauri, la Chimera). Non ci sono divinità olimpiche, celesti e superne, del pantheon mitologico classico e tradizionale (Zeus, Apollo, etc.). Ma di esse si parla (di chi si parla).15 Di come si staccarono da Caos e presero il potere, imponendo il logos, il numero e la legge (nomos), la misura e il limite sul cosmo, sugli uomini e le deità della generazione precedente, quelle vicine all'umano e con esso profondamente impastate, nel sangue, nel sesso, nel vino, nella forza irrazionale di sentimenti ineluttabili e misteriosi.
Questa incestuosa prossimità al Caos primigenio, questa commistione di divino e … divino, divino-bestiale e divino-umano, questo indifferenziato nello stadio pre-liminare alla sua differenziazione (animato e inanimato, immortale e mortale), hanno nella resa stilistica pavesiana una loro figura retorica assai ricorrente: l'enàllage (o sillèpsi/sillèssi), in una delle sue forme particolari: quella dello scarto sintattico fra singolare e plurale nelle concordanze grammaticali. Ecco qui di seguito i passi di queste scombinate “concordanze sulla base del senso” (constructio ad sensum):
- L'ospite: «Non c'è dèi sopra il campo» (p.89).
- Il toro: «Ci fu un tempo che l'Ida non conobbe che dee. Che una dea. Era il sole, era i tronchi, era il mare» (p.122).16
- In famiglia: «E' una famiglia che in passato si mangiavano tra loro» (Castore e Polluce parlano della famiglia di Elena; p.127).
- Gli uomini: «Prima, l'uomo, la belva e anche il sasso era dio» (p.146).
Ma chi è questo Leucò del titolo? Me lo chiesi quando da adolscente comprai il libro. D'acchito pensai a un contadino calabro, o al più della Basilicata. Poi scoprii l'arcano. Leucò non era l'Antò, il Giovà, o il Giusè della nostra vocazione toscana a troncare le parole, nomi propri compresi. Leucò è il colloquiale, amicale e diminutivo (ipocoristico, dicono gli eruditi) di Leucotèa, uno dei personaggi dei dialoghi.17 La Dea Bianca.18 La Grande Madre. La divinità femminile primigenia, forse autoctona, regnante prima che giungessero da chi sa dove gli indoeuropei patriarcali a scompigliare tutto.
Leukòs in greco è qualcosa di molto simile al “bianco” (almeno in quasi tutte le traduzioni), Leucotèa è, appunto, la “dea bianca”, divinità marina, benevola ai naviganti (Om., Od. 5, 333 ss.; Ovid., Metam. 4, 539 ss.). Ma più propriamente è la dea “splendente”, nella radice del cui nome *luk vi è la luce, il lucore (latino lux, lucis), il dilùcolo ambiguo, il bianco certo e lo splendore soprattutto; ma anche il “lupo”, che in greco si dice lykos ed enigmaticamente partecipa della stessa area semantica. Del resto, è da tempo risaputo che le donne corrono coi lupi, come ci racconta la psicoanalista junghiana Clarissa Pinkola Estès, non casualmente, credo, di origini ispano-messicane, in un libro ormai classico.19 Ma la lucentezza di Leucotèa non è la lucentezza, lo splendore olimpico e solare, che acceca, devasta e annichilisce, bensì quello lunare, portatore di uno splendore che aiuta a vedere meglio, perché compromesso con l'oscurità, perché partecipe del suo contrario. Leucotèa è il divino splendore del mito che conduce a più chiare distinzioni o, quando necessario, a più armoniose fusioni e alla vera conoscenza, contro lo splendore del sole, violento, che può anche distruggere e annullare ogni naturale metamorfosi.
In Pavese l'identificazione della “conoscenza” con l'elemento femminile (la Sophìa gnostica?) e al contempo i suoi infelici rapporti con le donne, ci possono raccontare molto della sua storia interiore, senza con questo addentrarci in psicologismi di raccatto. Anzi, volendo espressamente sublimare e schematizzare: la vera conoscenza e l'eterno femminino sicuramente costituirono per lui un problema.20
E, a proposito di metamorfosi, agli inizi della storia degli uomini, quando la stessa si confondeva ancora col mito, Leucotèa non era Leucotèa, bensì si chiamava Ino, figlia di Cadmo (eroe civilizzatore, forse “il brillante”, “il dotato”) e Armonia, e sorella della madre di Dioniso, Semele (“la terra” - termine forse frigio, la cui radice sarebbe analoga al nostro latino humilis da humus). Ino, fu sposa di Atamante e protagonista di vicende di gelosia e infanticidio, si suicidò gettandosi in mare, come la tradizione ci racconta anche della poetessa Saffo. Ma, per quei meccanismi tipici che nei miti presiedono alla dialettica fra vita e morte, si trasformò in divinità delle acque e prese il nome di Leucotèa. Il suo nome originario, considerato di etimo incerto, forse si collega a un significato che indica lo “scorrere” (elemento fluviale), forse a un termine che indica una “candida fanciulla”, o forse ancora al termine greco ìs, inòs, un altro nome per indicare la “forza”, intesa con connotazione vitalistica e orgiastica.21
Ma siamo noi che consideriamo incerto, e quindi non vero, ciò che ci sfugge; siamo noi che pretendiamo parole univoche, con un solo significato possibile, che sappiano organizzare e spiegarci la realtà una volta per tutte. È la nostra povertà di senso che informa il nostro linguaggio. Ma gli antichi sapevano, e lo sapeva Pavese, che la realtà è più complessa delle nostre parole unidirezionali (logoi), che la realtà è esprimibile solo con le parole del mito (mythoi), secondo cui un nome misteriosamente può essere, nello stesso momento, acqua che scorre, candore di fanciulla e oscura, violenta pulsione amorosa.
Questo è un libro di meditazioni, e da meditazione, come certi vini. È portatore di una potente densità simbolica e mediatore (“interprete”) di un immenso deposito sapienziale, che però va attivato secondo le modalità intellettive e intuitive di cui ognuno di noi è capace. È un virus dormiente che aspetta il risveglio che solo il lettore può innescare.
Del resto, originariamente, i miti erano intesi come “discorsi autorevoli” e portatori di verità, mentre le semplici parole, definite logoi, potevano anche ingannare. Solo successivamente il logos, da Eraclito, ma soprattutto da Platone in poi, inizia ad essere la regola/parola razionale, diciamo “scientifica”, il principio regolatore della conoscenza (anche nel suo poter essere vera e falsa). E i miti, di conseguenza, piano piano diventano favolette carine ma a cui non dar credito. Da Vico, ma soprattutto dal romanticismo, dalla critica storica razionalizzante, dalla psicoanalisi simbolizzante, dall'antropologia culturale e dagli studi mitologici comparatistici ('800-'900) in poi, il mito riacquista interesse. Ancora se ne discute, ancora si sente la necessità di capirne i nascosti, possibili significati. Valenti studiosi sono attivi sulla mitologia sia negli studi accademici, che in quelli di alta divulgazione: traduzioni, interpretazioni e variazioni sul mito vengono pubblicate anche come allegati ai quotidiani.22 Ma, in evidente paradosso a queste “eroiche” sollecitazioni, tanto dotte quanto affascinanti, la nostra “civiltà”, la civiltà di massa, li sta riperdendo, i miti. E anzi chiama “miti” sostituzioni ibride e superficiali, semplici (a volte squallide) “tendenze” effimere di gusti, di costumi e delle novità del momento. Gli eroi civilizzatori del mythos, vengono sostituiti da personaggi triviali, disgustosi e, fortunatamente, di breve orbita dal successo all'oblio. Traiettorie veloci, impersistenti, degradate e degradanti.
(fine della tirata moralistica, o quasi...)
Ma perché Teseo (“il forte”) abbandonò Arianna (“la sacra/pura”) nell'isola di Nasso nessuno se lo chiede più, meglio giustificando così lo squallore dei propri abbandoni (Il toro, Lelego e Teseo).
Perché Orfeo (“l'orfano” - lat. Orbus -, o “l'oscuro”), dopo aver vinto la battaglia/gara con Ade e riconquistata Euridice (“dall'ampia giustizia”), risalendo al mondo dei vivi si voltò volontariamente per riperderla, a nessuno interessa più, per meglio rimuovere ogni consapevolezza interiore, soffocare anche gli ultimi frammenti del discorso amoroso, perdere il senso del limite ed esorcizzare il pensiero di morte (L'inconsolabile, Orfeo e Bacca).23
Perché il re frigio Litierse (“pioggia di rugiada”24) e il pelorosso straniero Eracle (“gloria di Era”) si affrontano in una mietitura di sangue nei campi presso il Menandro, nessuno più se lo chiede, o lo ha dimenticato o non lo ha mai saputo. Così è più facile evitare di riflettere sulle tragedie degli esodi umani e su quelle virtù, già per gli antichi ambigue e scivolose, di accoglienza, ospitalità e rispetto (L'ospite, Litierse e Eracle).
Perché infine Saffo si uccise per amore e come fu mai possibile che anche una ninfa immortale potesse suicidarsi, non ci riguarda, ormai siamo adulti e queste sono favole per bambini, o al più inutili esercizi di erudite elucubrazioni mentali. Perché un dio si suicida? ...che assurda domanda! Eppure Pavese che, meditando sui miti, forse meditava già da tempo alla sua definitiva catàbasi, sapeva che queste domande erano le domande giuste da farsi nell'arco dell'esistenza di quel sogno di un'ombra che è l'uomo (Pindaro) (Schiuma d'onda, Saffo e Britomarti – l'Artemide cretese – poi, ninfa del corteo di Artemide).
Nessuno si fa più le domande che i miti da millenni ci pongono, e a cui forse i miti potrebbero ancora dare faticose risposte. Essi ci ricordano che i nostri sentimenti vivono di trasformazioni, come di trasformazioni vive l'intero universo. Ci ricordano che la linearità è un'illusione prospettica e che ogni trasformazione è cambiare ma anche tornare. Esattamente come l'Arte, il Rito e le Religioni, i miti ci dicono che il mistero c'è e che a volte al mistero si può tentare di dare risposta solo con un altro mistero, e che questo non è eludere più o meno elegantemente la ragione con una ridondanza prestigiatoria. Perché il mistero ci richiama il “tacere”25, come atto volontario che crea il silenzio e non lo subisce. Un “tacere” che non è quello di coloro che, illusi, presumono di nascondere un segreto ad altri inferiori, bensì è il riconoscimento dell'ineffabile che forse solo fuori dalle parole si può, a tratti, ancora com-prendere.
I miti non vanno mai da soli. Essi viaggiano nel tempo non solo col loro corpus di varianti e variazioni, ma anche con tutti gli altri miti con cui s'intrecciano, si contaminano, si espandono in un reticolo di corrispondenze, contraddizioni e ricomposizioni. Tutti i miti, se ci facciamo caso, sono miti di metamorfosi, e quindi variamente s'incarnano e s'accoppiano per incesto o polarità, come le divinità dopo il Caos. E, come le divinità dopo il Caos, sono prolifici. Quando la differenziazione primordiale era gioia, tripudio, sesso, violenza e sangue, naturale orchestrazione fra disordine e ordine.
E di volta in volta un mito incarnato è una storia, una storia da raccontare. Le ambiguità del mito sono le ambiguità della nostra esistenza che, come un oracolo delfico, necessitano sempre d'incessante interpretazione; di ermeneutica (la scienza di Ermes, dio dei ladri e dei crocicchi e guida delle anime nell'Ade), non di critica, superficiale esercizio di razionalità, consolatorio e presupponente. Pavese di questo ebbe contezza e non si rifugiò nel mito, semplicemente perché al mito nessuno sfugge, al mito non si sfugge comunque.
Semmai è il mito che ci sfugge, ci ricorda ancora Pavese, quando cerchiamo di razionalizzarlo, quando lo fissiamo in rappresentazioni artistiche (poetiche, figurative...) il mito muore (quel mito muore), subito disponibile per altre esistenze; perché sempre «il corpo di un uomo / pensieroso si piega, dove un dio respirava».
Maurizio Bettini, attualmente uno dei migliori filologi classici in circolazione, fondatore presso l'Università di Siena del Centro di Antropologia del Mondo Antico (AMA), espertissimo nell'ermeneutica dei miti, ci ricorda che la migliore definizione di “mito” ce l'ha data il mitologo e filologo classico Walter Burkert (1931-2015) che lo intende come «un racconto tradizionale fornito di significatività». La distinzione fra “significato” (Bedeutung) e “significatività” (Bedeutsamkeit), ci racconta ancora Bettini, è fondamentale nella terminologia ermeneutica tedesca. La “significatività” è “l'efficacia di quel significato”, ovvero come dire che non solo “il racconto del mito ha un senso, un significato, ma questo senso è significativo, in quanto influisce sui comportamenti, sulle scelte, sulla pragmatica di una comunità”.26 E qui Bettini fa l'esempio del mito di fondazione di Roma (Romolo & Remo) e di come tale mito abbia efficacemente agito nella civiltà romana e sia stato funzionale alla costruzione non solo di un'identità, ma soprattutto di un impero.27
Sulla nozione di Bedeutsamkeit mi sentirei tuttavia di andare oltre, proprio in relazione al tema del mito. E aggiungerei che questa “significatività” è anche una capacità che ha il mito (un corpus mitologico) di generare molteplici se non infiniti significati. Come un codice genetico dalle indefinite e indefinibili combinazioni.
Pur tuttavia, nell'agire mitico (che è agire simbolico) c'è tutta una gerarchia che carica di significati alcuni frammenti di reale. Nella realtà naturale nessun gesto e nessun luogo vale più di un altro. Perché il mito si attivi e diventi ciò che di assoluto è rinvenibile nel reale, c'è bisogno almeno di un dio e di un uomo, c'è bisogno che si riflettano l'uno nell'altro, magari si guardino in cagnesco, lottino, si scambino di ruolo. C'è la necesità di un respiro reciproco e che i loro indistinguibili passi stupiscano la terra.
E se i miti, e le loro variazioni, contengono l'impronta originaria di tutte le possibili storie, il deposito imperscrutabile e primigenio di pulsioni trasformative e sapienza, ancora variamente operanti sul piano personale e collettivo, non possiamo non pensare alla nozione di archetipo28ma forse, anche in questo caso, con una variazione rispetto alle già molteplici e più o meno fluide definizioni. E provo a dirlo con una similitudine: gli archetipi, da cui scorrono i miti millenari della Tradizione, sono come stampi di gesso che accolgono il nostro metallo fuso, dandogli forma e consistenza nel tempo, una foma e una consistenza sempre sensibile alle metamorfosi. Non sono semplici “modelli”, irraggiungibili come le idee di Platone, lontani, solari e olimpici, sono stampi che ci stanno vicino, addosso, intorno a noi e, in apparente paradosso, dentro di noi. Dobbiamo morire e risorgere ogni volta (scendere e risalire) per cambiarci e tentar di cambiare, o più semplicemente, e sarebbe già sufficiente per noi perenni apprendisti, per assecondare la natura senza violarla, in noi e fuori di noi.
Questo il modernissimo, fragilissimo, esoterico e sapiente Pavese lo sa, e resta ancora sotto la pioggia ... ma Alice, evidentemente, no... tutto questo Alice non lo sa...


Livorno, 14 Aprile 2018


Francesco Parasole




1Così «scrive Melville in Moby Dick a proposito di KOKOVOCO («un'isola lontana dei mari del Sud e dell'Ovest» e patria del selvaggio fiocinatore Queequeg)», Luigi Ballerini in Monologhi e polifonie d'oltretomaba, Introduzione alla Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, Introduzione, Traduzione e Note a cura di Luigi Ballerini, Mondadori, Milano 2016, p. v.
2Ibidem.
3Così pare che disse: «Ero una ragazza quando ho letto per la prima volta Spoon River: me l'aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c'è tra la letteratura americana e quella inglese». Da wikipedia, senza fonte.
4Il termine fabula in latino è l'equivalente semantico del greco mythos. Nella cultura classica latina, e poi medievale, le opere di mitografia erano organizzate per fabulae o per genealogiae, vedasi ad es. la Genealogia deorum gentilium libri, scritta da Giovanni Boccaccio dal 1360 al 1374, da considerarsi a buon diritto il primo manuale di mitlogia della cultura medievale occidentale.
5Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano, ristampa 2017 ("Il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano molti dettagli e livelli e significati in più. Ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.").
6Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Introduzione di Sergio Givone (1999), con Note al testo, Appendice: Cronologia della vita e delle opere, Bibliografia ragionata, Antologia della critica, Einaudi, Torino (1947, 1964, 1973,1999 e 2014).
7Patrizia D'Arrigo, Mito e Modernità nei Dialoghi con Leucò, in http://www.italianisti.it/upload/userfiles/files/D%27Arrigo%20Patrizia.pdf – a cui devo anche il riferimento alla canzone Alice di Francesco De Gregori.
8Di R. Calasso basta dare uno sguardo al catalogo di Adelphi per renderci conto dell'impressionante continuità della sua opera riguardo ai miti (Da La rovina di Kasch (1983), Le nozze di Cadmo e Armonia (1988) a Il cacciatore celeste (2016) e, tutto sommato, anche a L'innominabile attuale (2017) – un vero e proprio work in progress, com'è stato definito). Del più defilato, e solo di poco meno prolifico in materia, Pietro Citati, ricordiamo: La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo, Mondadori, Milano 1996 (ora Adelphi, 2009); il forse ormai un po' datato L'armonia del mondo. Miti d'oggi, Rizzoli, Milano 1998 (ora Adelphi 2015, non so se aggiornato dall'autore); il seducente La mente colorata. Ulisse e l'Odissea, Mondadori, Milano 2002 (ora Adelphi 2018); Sogni antichi e moderni, Mondadori, Milano 2016.
9 [ottobre 1935] Lavorare stanca (Einaudi, Torino 1946; 1998, p. 99).
10Con queste “didascalie” Pavese sembra alludere agli Argumenta posti all'inizio delle edizioni dei testi teatrali latini (prima o dopo l'elenco delle Personae “personaggi”). Anche in questo caso un'attualizzazione del “classico” raffinata, sottile, fatta per così dire di tocchi e di spostamenti minimi ma d'indubbia efficacia.
11I due (Achille e Patroclo) p.60: «Solamente per loro [gli dèi] quel che è stato sarà». La rupe (Eracle e Prometeo) p. 73:«Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà». L'inconsolabile (Orfeo e Bacca) p. 77: «...pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci [nell'Ade], che ciò che è stato sarà...alla vita con lei [Euridice], com'era prima; che un'altra volta sarebbe finita. Ciò che è stato sarà... ». Gli dèi (anonimia mitica primordiale) p. 170: «Non c'è vuoto né attesa. Quel che è stato è per sempre».
12Quel fenomeno estetico che gli studiosi tedeschi definiscono klassische Dämpfung, «attenuazione del classico». Quando cioè il riferimento alla classicità, ai miti della classicità, diventa o vuoto e formulare, o lo si eleva a modello insuperabile, irragiungibile, ottenendo così lo stesso effetto di discontinuità, allontanamento e impoverimento di senso.
13Ho evidenziato in grassetto quelli che, a mio vedere, sono passaggi-chiave, o termini-chiave allusivi a più profonde connotazioni significative, pur nell'apparente colloquialità degli stessi (lo stile è quello del c.d. Sermo humilis ma estremamente dissimulante nella sua chiarità).
14In greco kràtos e bìa (qui personificati alla maniera di Esiodo (Theogonia, VIII a.C.) e dei miti primigenii) sono due apparenti sinonimi indicanti la «forza». Il primo, non a caso di genere maschile, indica la “forza come potere”, derivante cioè da un'autorità istituzionale e normativa, razionale. Il secondo termine, di genere femminile, indica la “forza naturale”, la forza come violenza irrazionale, quella degli elementi, quella orgiastica (bacchica), bruta e oscura. Kràtos e Bìa compaiono insieme nel Prologo del Prometeo incatenato di Eschilo (Tragedia rappresentata intorno al 470 a.C.), dove significativamente è soltanto Kràtos a parlare.
15Chi parla e di chi/cosa si parla sono due delle molteplici suddivisioni, trovate nei manoscritti e negli appunti di Pavese sull'opera, con cui egli elaborò la faticosa redazione dell'ordine dei dialoghi, dei titoli da assegnare e degli argomenti e miti da trattare.
16Qui, in aggiunta, abbiamo una delle figure più enfatiche della ripetizione, l'epanalessi: era...era...era.
17E anche, sicuramente, come riportano tutti i manuali, il nome grecizzato di Bianca Garufi (1918-2006), poetessa e psicoanalista, amore non corrsiposto di Pavese, che lavorò all'Einaudi nel periodo della composizione dei dialoghi e alla quale Pavese dedicò l'opera.
18 Robert Graves, La Dea Bianca - Grammatica storica del mito poetico, Adelphi, Milano 2009 (6a ed.). Vale la pena qui ricordare che Graves è maggiormente noto per I Miti Greci, Longanesi 1992 (1983), un vero e proprio long seller in questo ambito.
19 Clarissa Pinkola Estès, Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano 2008.
20L'espressione eterno femminino ci deriva da Goethe attraverso, ebbene sì, il Carducci che la mutuò da una traduzione francese (l'éternel féminin). Alla fine del V atto del Faust, Goethe dice: Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan, cioè "L'eterno femminino ci trae in alto". Ad indicare «un femminile profondo, fisso, saldo, che richiama quei connotati sacri e bestiali di amore totale e di spinta all'elevazione che sono inscritti nella figura della donna». Per tutto quanto in questa nota, vedi: https://unaparolaalgiorno.it/significato/F/femminino.
21AA.VV., Dizionario Etimologico della Mitologia Greca, www.demgol.units.it – aggiornamento al 14.05.2017. Tutte le ricostruzioni etimologiche e/o paretimologiche dei nomi mitologici qui riportate sono tratte da questo dizionario fondamentale ad opera di studiosi dell'Università di Trieste.
22Nel momento in cui scrivo, ad esempio, il Corriere della sera settimanalmente offre a prezzo modico un volumetto (siamo a 15/30) su un personaggio o una divinità del mito greco, a cura di un gruppo di classicisti, filologi e antropologi del mondo antico. La casa editrice Marsilio da alcuni anni (e ora siamo già in fase di riedizioni) sta pubblicando una collana, Variazioni sul mito, in cui con saggi introduttivi e interpretativi si antologizzano passi dalla letteratura antica alle letterature moderne da cui poter toccare con mano l'evoluzione estetico-letterararia (e non solo) dei più famosi personaggi mitici e delle fabulae che li vedono protagonisti.
23L'originale interpretazione del mito di Orfeo ed Euridice che dà Pavese – Orfeo che si gira volontariamente per perdere definitivamente l'amata – è una delle tante “variazioni sul mito” del primo cantore-musico-poeta, e sull'atto del respicere, della letteratura occidentale. Vedi Rilke, Cocteau, Bufalino, in: Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero (a cura di), Virgilio, Ovidio, Poliziano, Rilke, Cocteau, Pavese, Bufalino – ORFEO – Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia 2004.
24Termine frigio il cui primo elemento richiamerebbe per alcuni una parola che si trova anche in lituano, lytùs «pioggia», per cui: lytùs + greco èrse «rugiada». Per altri un composto pelasgico indicante il “riunire, comprimere” (i covoni?); per altri infine solo dal greco litè «preghiera» + èrse «rugiada». www.demgol.units.it
25Dicesi che “mistero” derivi dal vb. greco myo, «serrare, chiudere (le labbra, la bocca)» e quindi «tacere»; dalla forma al futuro my-s-o, il lat. mysterium, «mistero».
26Per “comunità” non s'intende tanto un èthnos identificato geneticamente, quanto un gruppo identificato culturalmente, che affida a un complesso di miti, simboli, riti, “usi e costumi”, cioè a una Tradizione antropologicamente intesa, la sua riconoscibilità nei confronti di altri gruppi.
27Cfr. l'interessantissima lezione-videoconferenza: Maurizio Bettini, “Il mito tra autorità e discredito” - 30.09.2016 in https://vimeo.com/205063629.
28Propriamente il termine greco archètypos ha i seguenti significati: tipo o modello primitivo; immagine originale; esemplare di una cosa. Attestato originariamente in Filone, storico ebreo del I sec. d.C., in Sorano, medico del II sec. d.C. - sembra un termine d'uso un po' tardo nella tradizione. In forma neutra, tò archètypon sta a indicare la forma originale di un'opera (generalmente letteraria) rispetto alla sua copia (apògrafon) o alle sue copie (apògrafa). È termine composto da archè (principio, origine, anche in senso gerarchico) + typos (dal vb. Typto (anche typòo) colpisco, imprimo, configuro, foggio, scolpisco, formo). Così come archè non indica solo il principio cronologico (“all'inizio”) ma anche un principio operante, attuale e fondativo, typos, a seconda del contesto, ha una miriade di possibili esiti: colpo, segno, impronta, sigillo, marchio, punto, conio, carattere, simulacro e addirittura scultura, statua, modello, abbozzo e schizzo. Per cui, una definizione generale di archetipo, che conservi il rigore dell'etimologia e – in qualche modo – cerchi di compendiare le possibilità di senso di quest'ampia area semantica, potrebbe essere proprio: «impronta originaria e persistente».