Facendo seguito alle molte richieste pervenute, pubblichiamo con piacere il testo della Conferenza , ringraziando Cristina per la disponibilità.
Buona lettura.
Lamberto Tosi
Douglas Coupland,
Generazione
X.
Storie per una cultura accelerata (1991)
1. Generazione X. Storie per una cultura
accelerata è l’opera prima di un autore canadese, Douglas Coupland
classe 1961. Opera di una certa importanza: non solo perché lancia (non inventa[1])
un’espressione entrata prepotentemente nel dibattito pubblico, ma anche perché
apre una fortunata carriera di scrittore e di artista: oltre una quarantina di
pubblicazioni in poco più di 20 anni e moltissime esposizioni, collettive e
personali.
Due
anime che da sempre s’intrecciano nel suo percorso, come si coglie
semplicemente sfogliando il libro[2]: una piccola fotografia è ripetuta
all’inizio di ogni capitolo mentre, ai bordi, inserti grafici (vignette e non
solo) e didascalici (per lo più definizioni di espressioni e parole di nuovo
conio) accompagnano, pagina per pagina, la lettura. Il risultato è di offrire
un’opera che sta a metà strada tra diversi generi espressivi. Una soluzione
intrigante, certo, ma ciò che più mi interessa è il problema che Coupland
solleva fin dal titolo
dove campeggia l’idea di una certa generazione, che poi
è la mia generazione.
Per
entrare nel merito, d’altra parte, è necessario intendersi sulle parole, anzi
sul significato della parola e della lettera che compongono il titolo
dell’opera: Generazione X.
2.
Comincio col dire una cosa che
forse suonerà banale: al primitivo significato di generazione,
che rimanda agli anelli biologici tra genitori e figli, nel tempo se n’è andato
sovrapponendo un altro: quello secondo il quale «l’essere nati in un
determinato periodo e aver vissuto gli anni cruciali della formazione in
un determinato clima culturale, caratterizzato da particolari eventi storici,
lascia una traccia sui modi di sentire, pensare e agire degli individui»[3].
Il
secondo significato, al di là della citazione colta, è a tutti familiare. Ma
proprio perché familiare tende a nascondere il fatto che alle sue spalle si
situa una vera e propria rivoluzione, un cataclisma che riguarda il soggetto.
Solo a partire da un certo momento si è infatti cominciato ad attribuire
un valore particolare alla fase formativa degli esseri umani, accentuando
diversamente l'infanzia e la giovinezza dalla maturità. Così, se di generazioni
si ragionava pure nei testi antichi, le cose cambiano a partire dalla fine
dell’età moderna – questo è il momento – quando prende piede una
percezione della vita ritmata su fasi differenti. Tale rivoluzione, preparata
da pensatori del Cinque-Seicento, affiorata nell’età dei Lumi ma lavorata a
fondo solo a partire dal romanticismo, è legata alla sfera dei sentimenti e
allo scavo nell'interiorità di ciascuno. Senza risalire troppo indietro,
facciamo perlomeno un nome: Jean-Jacques Rousseau.
Il
nuovo, o secondo significato di generazione, oggi appartenente al senso comune,
è anche quello che ha attecchito nelle scienze umane e sociali. Il discorso qui
si farebbe lungo (e, temo, noioso), per cui isolo due aspetti per altro correlati:
a.
che le discipline storiche, sociologiche e politologiche
non assegnano più alle generazioni una durata standard (i celebri 20-25 anni)
perché una generazione dura fino a quando non se ne impone un’altra;
b.
che con il secondo concetto di generazione si è cercato di
mandare in soffitta il concetto di classe sociale, trasferendo appunto alle
generazioni quel quid di conflittualità che da sempre è implicito
nell'idea di classe sociale, ancor prima della diffusione delle opere di Marx.
Da tempo il suo utilizzo annuncia un rapporto in termini oppositivi: si parla
di una generazione ante-guerra in opposizione alla generazione dei baby-boomers, e più recentemente ... di generazione
X.
3.
Che poi è il titolo del racconto di cui ci occupiamo.
Sul
nesso generazione–letteratura va detto che è vastissimo ma
anche piuttosto recente. Recente nella misura in cui il genere del romanzo, tra
gli ultimi arrivati nella grande famiglia della letteratura, ha subìto fatto
propria la seconda accezione, oppositiva e conflittuale. Forse – ma è solo
un'ipotesi – ne ha addirittura precorso la messa a punto nelle discipline
accademiche. Come non pensare, anche in assenza del lemma generazione, a due
capolavori quali Padri e figli di Turgenev (1862) e I vecchi e i
giovani di Pirandello (1913)?
Gli
esempi, ovviamente, non vengono per caso. Generazione X può tranquillamente
collocarsi in questo filone contrappuntato da incomprensioni e tensioni
generazionali. Se non che il titolo richiede una precisazione in più: la
lettera X – che non appartiene al nostro alfabeto, ma al greco e al latino,
nonché a molti altri alfabeti che da questi derivano – ha dietro di sé una
pluralità di significati che meritano un inciso.
4.
Il fatto più interessante è che con essa si è evocato di tutto e di più.
Andando
alla rinfusa, la X ha simboleggiato cose tra le più sacre (la croce di Costantino,
dove la Chi si sovrappone alla Rho per formare il monogramma di Christòs) e cose davvero profane (il
tesoro nelle mappe dei pirati).
A
metà strada potrei collocare i baci. Le X che chiudono le lettere e che stanno
per baci provengono addirittura dal medio evo, quando gli analfabeti firmavano
i documenti legali apponendovi una croce o una X. Chi firmava, baciava il segno
per promettere di mantenere fede all’atto. Altro fatto curioso: oggi si
guarderebbe con sufficienza mista a commiserazione se qualcuno apponesse il
segno X a mo’ di firma, e al tempo stesso consideriamo davvero cool
mettere tante X per simboleggiare altrettanti baci ... Scherzi della nostra
memoria (bizzarramente) selettiva.
Qualche
parola in più merita invece la leggenda[4] secondo la quale è dalla
lingua francese che, per puro caso, proviene uno dei più importanti significati
della lettera X: la sua associazione all’incognita. Prima nel senso tecnico,
cioè di entità sconosciuta nelle equazioni algebriche; poi di incognita in
senso generale, come nel caso del cromosoma X e dei raggi X: quando furono
scoperti non era infatti per nulla chiaro quali fossero la loro funzione e le
loro proprietà; e la X stava a significare proprio questo.
Questa
associazione sarebbe legata alla prima stampa del trattato De la géométrie di
Cartesio. Siamo nel 1638. Nel manoscritto il grande matematico aveva utilizzato
le prime tre lettere dell’alfabeto (A, B, C) per indicare le costanti e le
ultime tre per indicare le incognite (nell'ordine di utilizzo Z, Y, X). A
lavoro avanzato lo stampatore, ormai a corto di Z e Y, chiese all’autore il
permesso di usare più X, delle quali ancora abbondava. Cartesio rispose che la
soluzione era accettabile, sancendo il successo dell’accoppiata X-incognita.
Se
poi acceleriamo (come suggerisce il sottotitolo del libro) e veniamo a
tempi assai più recenti, è difficile non constatare il boom della lettera X nell’epoca dell’informatizzazione. La X è
ovunque ed espressioni quali X-file e X-factor suonano, per lo
meno nelle intenzioni di chi le ha lanciate, accattivanti, stuzziacanti, in una
parola .... positive.
Proprio
per questo si fa fatica a immaginare che tale successo implica una riabilitazione:
eppure è così. Il fatto è che in America – che del resto è la terra da cui ci vengono
questi format televisivi – la lettera X ha a lungo indicato cose
«proibite» o «pericolose». Per buona parte del Novecento è
stata utilizzata per indicare la presenza di ingredienti pericolosi in prodotti
destinati al grande consumo. Maggior risonanza negativa, però, ebbe una
decisione presa nel 1968. In quell'anno l’associazione filmografica americana
impose una classificazione della produzione nazionale. Così, tra i film
destinati agli adulti, R stava per Restricted ed X per Extreme,
la categoria che includeva anche la pornografia.
È
anche importante precisare che non è questo il senso di Malcom X (+ 1965), il
nome scelto dall’attivista afro-americano all’opera proprio in quegli anni. La
sostituzione del cognome Little con la lettera X stava per «cosa perduta»,
voleva cioè sottolineare il fatto che la sua famiglia aveva perduto il nome
originario quando fu portata via dall’Africa.
5.
Non ho perso il filo e torno al romanzo, per dire che David Coupland non
intende comunicare l’idea di una
generazione incognita, una
generazione estrema, perduta o pericolosa.
Nient’affatto.
Due
parole sulla trama.
Il
racconto è scritto in prima persona: il narratore, Andy Andrew, è un giovane di
quasi trent’anni che ha fatto una scelta di vita precisa. Si è lasciato alle
spalle la famiglia, gli anni degli studi e alcune esperienze lavorative di un
certo livello. Proprio da lì è nato il rigetto del modello yuppistico dominante
l’America che traghetta negli anni Novanta, come pure di una società che
inquina il pianeta con i suoi rifiuti e la tiene sotto scacco con la minaccia
del nucleare. Matura allora la scelta di riparare in California, a sbarcare il
lunario preparando cocktail nella surreale cittadina di Palm Spring,
frequentata da pensionati facoltosi che si addensano nei Mall e nelle cliniche
di chirurgia estetica: non dunque sulle coste, a cavalcare le onde dell’Oceano
come ai tempi della beat-generation,
bensì in una squallida cittadina ai confini del deserto californiano.
Una
scelta di vita che Andy condivide con due coetanei, Dag e Claire, anche loro sovraistruiti (hanno frequentato le
migliori università) eppure irremovibili nel preferire un McJob alle
effimere battaglie per il successo. Da notare il neologismo, McJob, la
cui definizione si trova puntualmente in una didascalia a p. 13 dell’edizione
italiana: «impiego a paga irrisoria, basso prestigio, bassa dignità, bassa
realizzazione e senza futuro, in genere nel settore dei servizi».
C’è
un’altra ragione per la quale i tre diventano amici per la pelle. Benché di
indole diversa (Dag in particolare è un tipo violento), nutrono un medesimo
amore per le storie: inventano e si raccontano storie in qualunque momento. Il
risultato è che il romanzo corre su diversi binari temporali dal momento che
l’io narrante è continuamente inframmezzato da ulteriori inserti narrativi.
Ecco
delineato il contesto: giunti in questo nulla che è Palm Spring, Andy, Dag e
Claire vivacchiano, si divertono, praticano uno snobbismo politico-culturale
che li porta ora a un cinico isolamento ora a sognare a occhi aperti rincorrendo
miti futuri o miti che non ci sono più.
6.
Tre giovani, il deserto, le storie: anzi il rito delle bedtimes
stories (favole della buona notte). È attorno a questi fattori che Douglas
Coupland organizza il tentativo di dare un volto a un gruppo giovanile non incognito, tuttavia sfuggente, prima di tutto alle maglie della sociologia. Non a caso
l’idea di utilizzare la lettera X gli viene dalla lettura di un saggio di Paul
Fussel[5] dove il grande storico della prima guerra mondiale invocava una
nuova categoria per descrivere coloro che non appartenevano a nessuna delle
tradizionali classi sociali. E parlava di X people, X persons.
Da
queste espressioni al titolo del romanzo il passo è davvero breve. Ma Coupland
– da romanziere di indubbio talento – lavora il materiale con spunti propri.
La
sua idea di Generazione X appare nel
bel mezzo di una favola della buonanotte. È Andy che ricorda un fatto vero, un
fatto accaduto qualche anno prima. Si trovava in Giappone presso la redazione
di una rivista per adolescenti nell’ambito di uno scambio universitario. Un
giorno il signor Takamichi, «il Grande Vecchio della compagnia», appare
improvvisamente ai piani bassi, formicolanti di impiegati, e gli rivolge la
parola:
«lei deve essere Andrew». «Salga da
me. Beviamo qualcosa. Facciamo quattro chiacchiere».
Non
dirò ciò che succede dopo; voglio solo soffermarmi sui pensieri che, nella
rielaborazione di Andy, in quel momento si accavallarono nella sua mente. Andy
è consapevole che l’invito del Signor Takamiki ha scatenato la gelosia dei suoi
colleghi giapponesi. È dunque a disagio, ma non al punto di perdere lucidità.
Anzi, proprio sotto gli sguardi invidiosi che lo seguono, mentre si allontana
con il « Grande Vecchio», mette a nudo tutta la differenza che corre tra due culture di una stessa generazione.
«Mi sembrava di subire in quel preciso
momento la scomunica ufficiale dal corpo degli shin jin rui. È così che i giornali giapponesi definiscono i
ragazzi sui vent’anni che lavorano negli uffici: i nuovi uomini. È difficile
spiegarlo. Qui da noi [in America]
c’è lo stesso gruppo giovanile, altrettanto grande, ma non ha un nome ben
preciso … una Generazione X … che cerca deliberatamente di nascondersi. Qui da
noi c’è più spazio per perdersi, con cui mascherarsi. In Giappone, invece,
sparire non è concesso.»[6]
7.
La X, allora, non è una generazione in senso generico, sconosciuta o inconoscibile.
Al contrario: è una generazione di cultura
nord-americana, prima di tutto, e
ancor più precisamente un gruppo giovanile che non intende mostrarsi e cerca
uno spazio in cui nascondersi.
Ora, se c’è qualcosa di stridente
(paradossale, ironico, fors’anche grottesco?) nella ricezione di questo testo,
cioè nel successo dell’espressione Generazione X, è il fatto di aver
messo saldamente radici tra i guru della comunicazione pubblica di mezzo mondo.
I quali, a forza di parlarne, hanno finito per distorcerne il significato:
hanno associato ad essa l’idea di una generazione
disimpegnata, fannullona, perdente, sfortunata, una generazione sacrificata, costretta ad accontentarsi
delle briciole al grande desco del denaro e del potere.
E anche chi ha contrastato tale
lettura non è esente dal sospetto di un intervento strumentale. Contro di essa
prese posizione Bill Clinton: nel 1992, durante la campagna presidenziale, si
rivolse agli studenti di un’università della California definendo gli X-voters
non «fannulloni» (Slackers, come
suggeriva il titolo di un film indipendente del 1991), bensì «cercatori». Ma
era ovvio che il vero cercatore era lui, a caccia di quei voti.
I sociologi, d’altro canto, non hanno perso
tempo ed hanno inventato, dopo la Generazione X degli anni Sessanta e
Settanta, una Generazione Y, quella che nasce tra la fine degli anni
Ottanta e il 2001 (altra data periodizzante della storia statunitense). E già
si guarda con interesse a una Generazione
Z.
Ripeto, se c'è qualcosa di grottesco
in tutto questo è che Coupland, a cui tutti si riferiscono, è il primo a non
riconoscersi in tali letture. Lo ha anche ribadito più volte in interventi
pubblici: «Generazione X è
un’espressione tra le più abusate». La presa di posizione non deve sorprendere:
Coupland fa letteratura, non sociologia[7]. E il suo racconto è tutto giocato su
esistenze private, declinate al singolare, immerse in una cultura
nord-americana e – soprattutto – frutto di scelte deliberate, nient’affatto subìte.
Se le parole hanno ancora un senso …
«Noi viviamo vite piccole e di
periferia; siamo ai margini, e ci sono molte cose alle quali decidiamo di non partecipare. Volevamo il silenzio, e adesso lo abbiamo.»[8]
Messa da parte la tentazione
sociologica resta, però, la voglia di sapere qualcosa di più su questi giovani
che sembrano far di tutto per starsene da parte. E poi perché il silenzio?
Torniamo al racconto.
Alla fine delle vacanze natalizie
trascorse in famiglia e prima di riprendere l’aereo per «Stupidopoli», Andy, il
nostro narratore, visita un parco della rimembranza, eretto in onore dei caduti
in Vietnam. Lo accompagna il fratello Tyler, un giovane per ora avviato a un'importante
carriera, dunque molto diverso da Andy. Tyler mostra rispetto per il luogo, ma
non capisce perché Andy si interessi al Vietnam se, per usare le sue parole,
«era già tutto finito prima ancora che tu diventassi adolescente».
La risposta di Andy è duplice. Più sfumata nel
rivolgersi al fratello, al quale parla di vaghi ricordi, «tutta roba vista in
bianco e nero alla TV». Più profonda dentro di sé.
«Okay, certo, penso tra me, è vero,
erano giorni molto brutti. Ma erano anche gli unici “giorni” che avrò mai:
momenti di storia con la S maiuscola, in cui la ‘storia’ non era ancora
diventata un comunicato stampa, una strategia di marketing e uno strumento
cinico per campagne elettorali. E vi dirò, oltretutto non è che abbia visto
neanche molto: sono arrivato a un grande concerto nell’arena della storia solo
quando stava per finire l’ultima canzone. Ma ho visto abbastanza, e oggi che
vivo in una bizzarra assenza di qualsiasi riferimento temporale, ho bisogno di
un legame con il passato che abbia qualche importanza, per quanto flebile possa
essere».[9]
8.
Il punto merita attenzione. Perché aiuta a capire ciò che sta dietro al disimpegno,
al cinismo, all'ostentato distacco dalla società. Tutti atteggiamenti alimentati
da un disagio che, questa volta, è un problema davvero generale. Il fatto è che
Andy, Dag e Claire si trovano a vivere in quel tempo che è stato definito «la
fine della storia» (F. Fukuyama). Che non è la fine della storia in sé, ma casomai
la mancanza di alternative alla sola ideologia ancora in piedi.
Si è anche detto che il cemento che
più unisce questi giovani è la stessa passione nel raccontare storie. Costruire
trame, proiettarsi avanti e indietro nel tempo, mischiare l’autobiografico e
l’immaginario, è infatti la risposta – forse debole, ma ai loro occhi efficace
– che hanno scovato per lenire il malessere prodotto dalla fine della storia.
Che si tratti di qualcosa d’importante
lo si intuisce dalla serietà con cui rispettano le regole che loro stessi, usi
a vivere nella più completa sregolatezza, si sono imposti: mai interrompere,
mai criticare, le stesse regole che imperano nelle riunioni degli alcoolisti
anonimi, nota Andy. In un mix di sacralità e funzione terapeutica.
Aggiungiamo che il deserto è il contenitore
eletto di queste esistenze, tutte protese ad afferrare il tempo. Perché il
deserto è uno strano mondo, vergine e allo stesso tempo ricco di miti del
passato: la frontiera, i pionieri, il senso del selvaggio. Soprattutto, è lì
che abita il silenzio e nel silenzio è più facile narrare. Il deserto, nota con
felice espressione Andy, «è l’equivalente dello spazio bianco alla fine di un
capitolo»: vale a dire terra di nessuno se non, forse, l’ultimo rifugio per chi
è in cerca di libertà.
Il rito della narrazione e «lo spazio
bianco» del deserto sono dunque i perni di un racconto che narra davvero –
dobbiamo ora chiederci – solamente di singole … piccole vite? Una domanda volutamente retorica.
Claire, a un tratto, esclama:
«non è sano vivere la vita come se
fosse una sequenza di piccoli momenti isolati e slegati. – O le nostre vite
diventano storie, o altrimenti non c’è modo al mondo di viverle.»[10]
Così, senza clamore, con una prosa che
scivola via come un fiume in piena, il romanzo di Coupland sale fino all’altezza della riflessione contemporanea. I suoi
protagonisti, per un verso, provano sentimenti tipici della società
post-moderna, a partire dal disagio che nasce in una società irrimediabilmente «liquida» (Z. Bauman); ma, per un
altro, ambiscono a contrastarla, lasciando – attraverso la pratica della
narrazione – tracce profonde, tracce visibili, oserei dire .... tracce solide.
La narrazione non va presa sotto gamba
se, è stato scritto, è una forma di organizzazione dell’esperienza. Essa serve
per costruire il mondo, per suddividere gli eventi al suo interno, per modularne
importanza e significato. Non solo: senza di essa «ci perderemmo nel buio di
esperienze caotiche, e probabilmente non saremmo affatto sopravvissuti come
specie»[11].
Di tutto questo Andy, Dag e Claire
sono (a modo loro) consapevoli:
«Sappiamo bene che è per questo che ci
siamo lasciati tutti e tre le nostre vite alle spalle e siamo venuti nel
deserto: per raccontarci delle storie e rendere le nostre vite storie degne di
essere raccontate.»[12]
§. Infine,
la domanda di rito. A quale genere ascrivere l’opera prima di questo versatile
e prolifico artista canadese?
Se dall’importante dibattito attorno
al tema generazionale isoliamo l’apporto specifico della critica letteraria, a
seconda degli interpreti emergono tratti
epici, in ragione della centralità del deserto, non pochi richiami a un tardo romanticismo, ma anche una vena di decadentismo, la quale – è una
mia notazione – ancora una volta affiora negli anni che precedono un’altra fin
de siècle.
Riferisco
tuttavia più per dovere che per reale conoscenza della materia. Noto
in ogni modo che sono generi classici quelli chiamati in causa, non filoni grunge, post-post-moderni o chissà
cos'altro. Come i classici, e indipendentemente dalla fortuna (e distorsioni)
del titolo, il romanzo di Coupland in effetti ha ancora tante cose da dirci.
Oltre al disagio del nostro tempo, vale la pena ricordare
la privatizzazione del dissenso, un
fenomeno descritto con grande lucidità prima ancora che un nume della filosofia
contemporanea (Z. Bauman) lo tematizzasse: una ragione in più per lasciarsi
tentare dallo spleen di questo frutto di ultima, anzi penultima generazione.
[1] Il primo utilizzo risale a
un servizio fotografico americano del 1953 con il quale s’intendeva fissare i
volti di una nuova generazione, quella nata tra gli anni Venti e gli anni Quaranta.
[2] Purtroppo, pur essendo un
libro recente, la traduzione italiana è ormai esaurita da tempo. Lo si può
prendere in prestito in biblioteca, comprarlo usato oppure leggerlo in lingua
originale.
[3] A.
Cavalli, Generazioni, in «Parolechiave», aprile 1998, p. 17.
[4] Ci sono altre possibili spiegazioni. Per
indicare l’incognita, in un’equazione che ne contiene una sola, gli arabi
usavano l’espressione «la cosa».
In arabo «cosa» si dice «shay»,
un suono simile alla X.
[5] P. Fussel, Class: a Guide through
the American Status System, Simon
& Schuster Touchstone: New York 1983
[6] D. Coupland, Generazione
X. Storie per una cultura accelerata,
trad. it. di M. Pensante, Milano, Mondadori 1996, pp. 72-73. Ancora
nella stessa pagina: «Poveri
giapponesi», pensa ancora Andy, «dovunque si trovino, sono in gabbia,
inchiodati su quella loro scala sociale sempre ferma e noiosissima».
[7] A questa valanga di
etichette, mi sembra che Coupland abbia risposto con la consueta ironia
pubblicando Generazione A (2009): una
favola distopica ambientata nel 2020.
[8] Coupland, Generazione X, cit., p. 21, i corsivi sono miei.
[9] Ivi, pp. 183-184.
[10] Ivi, p. 17
[11] La citazione è tratta da J.
Bruner, La ricerca del significato,
Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 65.
[12] Coupland, Generazione X, cit., p. 17.