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lunedì 22 giugno 2015

Corno inglese di Eugenio Montale - Esercizio di Lettura di Francesco Parasole









Il dio il cui oracolo è in Delfi
non parla e non nasconde,
accenna”.
Eraclito

ESERCIZIO DI LETTURA DEL

Corno inglese

ll vento che stasera suona attento -
ricorda un forte scotere di lame -
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l'orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D'alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.

Eugenio Montale (da Ossi di seppia, 1925)

Struttura e schema metrico: trattasi a prima vista di 18 vv. liberi (ma non troppo) e sciolti (ma non troppo) in unica strofa.
Dal punto di vista metrico abbiamo la seguente struttura: 11, 11, 11, 7, 12 (v. sdrucciolo, l'unico: “protèndono”. L'ipèrmetro sdrucciolo ha una sua funzione che vedremo in seguito), 11, 7, 11, 5, 8, 8, 7, 5, 8, 9, 9, 6, 2. Tutti versi piani, a parte il dodecasillabo, e tutti versi appartenenti alle nostre tradizionali misure metriche e prosodiche, a parte il succitato dodecasillabo, il senario poco praticato dalla nostra tradizione poetica (se non nella c.d. “metrica barbara”) e il verso bisillabo a chiusura.
Per cui abbiamo in ordine decrescente: 1 dodecasillabo, 5 endecasillabi, 2 novenari, 3 ottonari, 3 settenari, 1 senario, 2 quinari, 1 bisillabo. Pur essendo una strofa unica è possibile configurarci, anche per l'andamento sintattico complessivo, 2 strofe da 9 vv. o, in alternativa, una strofa da 9 vv. e 2 quartine con chiusa o coda (v.18, “cuore”), tipo accenno a una canzone antica. Ritengo che si possano ipotizzare altre segmentazioni strofiche sulla base dello schema rimico.
Schema rimico: A B C B D E F G H I L E H L M M A L.
Schema rimico piuttosto dilatato se si escludono i primi 3 versi e il distico baciato dei due novenari in chiusa (vv. 15,16). La prima sequenza di 4 vv. ABCB col settenario in rima sembrerebbe preludere ad un andamento strofico tipo “strofe saffica” (3 vv. lunghi e 1 breve in chiusa)1, ma il resto del testo frustra subito l'aspettativa. L'inversione metrica (e di ritmo), quasi una cesura stichica, è infatti il v. 5, D, quello sdrucciolo che resta isolato (senza rima). Così come isolati da ogni rimando (anche lontano) restano i vv. 7, F, e 8, G, rispettivamente un settenario e un endecasillabo, che però fra loro sono assonanti (“chiari / Eldoradi”), quasi a chiudere un'ideale ottava. Infatti, i 10 vv. successivi si caratterizzano da un numero di sillabe inferiore, fino a ridursi al bisillabo finale. Altro verso isolato di una seconda ideale strofa è il v. 10, I, ottonario, che sembra recuperare dall'interno questa mancanza di rima con la ripetizione in poliptoto onomatopeico del secondo emistichio (“scaglia a scaglia”). Come se i versi non contrassegnati da rima (5, 7, 8 e 10) sentissero la necessità di diversamente marcare comunque un loro ritmo: sdrucciolo, assonante e in rima interna.2 Un'ulteriore ipotesi di suddivisione strofica ideale potrebbe quindi anche esser quella fondantesi sui vv. sciolti come, per così dire, “pietre d'inciampo”, cesure o pause (a parte il v. 3). Per cui avremmo:

Numero versi : 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 1112 13 14 15 16 17 18
Schema rimico: A B C B // D // E // F G // H // I // L E H L M M A L
Schema metr. : 11 11 11 7 12 11 7 11 5 8 8 7 5 8 9 9 6 2

(gli ultimi 2 vv. fanno ritmicamente un ottonario, il che evidenzierebbe una complessiva preminenza sia dell'endecasillabo che dell'ottonario stesso (4 e 4), in seconda posizione allora avremmo il settenario (3), in terza i quinari e i novenari (2) e isolata ancora la misura più grande 12).3

Questa poesia ha un ritmo e un'armonia dissonante, non sono rinvenibili andamenti dattilici o giambici continui e coerenti, o comunque ritmi e cadenze omogenee e, pur rispettando correttamente l'accentazione nelle sedi sillabiche deputate, si rasenta, come spesso accade in Montale, la perplessità della prosa. Questo tipo di “effetto” deriva sia dalla polimetria sostanziale e apparentemente non strutturata del carme, sia dalla complessità sintattica dell'unico periodo che lo compone. Lo scarto dalla prosa è vigorosamente riaffermato però dalla trama e dalla partitura fonetica delle parole che si richiamano e rincorrono per tutto il testo al di là delle rime stesse. Siamo di fronte ad una vera e propria serie di figure di suono come emesse da un unico lungo profondo respiro. Respiro che “si protende” oltre il respirabile come le “strisce di luce” che “si protendono” oltre l'orizzonte nel v. 5, non a caso sdrucciolo, ipèrmetro (proteso), come a sottolinearne la solitudine estrema sul filo di un baratro.
Il titolo e la figura: Corno inglese, titola Montale questa poesia. Il corno inglese è uno strumento a fiato ad ancia doppia e canna conica. Tecnicamente è un “oboe contratto” (estensione di un quinto sotto quella dell'oboe). L'aggettivo inglese pare derivi da un'errata traduzione del francese anglé, in realtà «angolato», per l'angolo che presenta verso il centro della canna. Montale di tutto questo era consapevole, ecco perché la sua poesia anche graficamente assume la forma di un cono rovesciato, irregolare, come irregolare rispetto all'oboe è la foggia del suo parente, il corno inglese appunto. Un cono rovesciato, praticamente un cuneo che va fino in fondo al...”cuore”. Se centralizziamo nella pagina i versi la cosa è patente. Se altrimenti allineiamo a sinistra (come in genere si fa nelle edizioni a stampa), siamo di fronte ad un irregolare “flauto di Pan” - sempre di aerofono trattasi – che ci ricorda il carmen figuratum attribuito a Teocrito (IV/III sec. A C.), la syrinx (termine greco indicante “flauto di Pan”, ma anche “zampogna”).4 In pratica vorrei affermare che siamo di fronte, anche se non proprio ad una poesia figurale o calligramma sofisticato all'Apollinaire, ad una consapevole rappresentazione grafica dello strumento che dà il titolo alla poesia da parte di Montale. Consapevole rappresentazione grafica del corno inglese che trova un'ulteriore conferma nel lessico allusivo adottato: “suona” (v. 1), “strumenti” (v. 3), “suonasse...scordato strumento” (vv. 16-17) e “lancia … una tromba” (v. 12) dove, oltre a richiamare il principe degli aerofoni (“tromba”), con “lancia” (verbo) per omofonia istituisce un sotteso, raffinato richiamo a “l'ancia” (sost.) imboccatura dell'oboe e, se doppia, anche del nostro corno inglese.5
L'ultimo verso, infine, il bisillabo “cuore” rappresenterebbe l'ancia del corno inglese (anche se nella sua varietà specifica di doppia ancia pure il vento ed il mare richiamati nella poesia potrebbero assolvere simbolicamente a questa funzione). Un'ancia rovesciata (perché “scordato strumento”?) da cui parte ogni suono, ogni musica, magari il soffio della creazione stessa.
Struttura metrica, titolo e forma grafica, prosodia e richiami (interni ed esterni, allusivi) situano la poesia in un contesto simbolista (francese), ermetico (italiano) e, per ciò che concerne la musicalità della partitura, anche romantico (ma decisamente non sentimentale). Il lascito della cultura francese in particolare, oltre che ammesso dal poeta in vari contesti, è stato ben analizzato da tal Gian-Paolo Biasin che, rifacendosi all'Intervista immaginaria di Montale del 1946, mette in risalto le suggestioni attive nella poetica montaliana dei Simbolisti e, soprattutto, della musica di Debussy (1862-1918), con i suoi sperimentalismi e le sue rotture di certi stereotipi musicali, pur all'interno di una sofisticata rielaborazione della tradizione passata.6

Ma dalla misurazione delle quantità e dalla schematizzazione della struttura, potrà essere più interessante trasferirci sul piano del godimento sonoro, evocativo, suggestionante e, per quel che si può, significativo del testo. Insomma, un'analisi impressionista di questo “modulato grido”.
Il vento che stasera suona attento, già con quel “che” così apparentemente innecessario, pone quell'attenzione sul piano di una relazione specifica con qualcosa o qualcuno che ci sono (ancora) ignoti. E quella che dovrebbe essere una similitudine diventa subito e in realtà un ricordo messo fra parentesi (più propriamente fra le due lineette, enfatizzate all'occhio in fine verso): - ri-cor-da un forte scotere di lame -. E in quel denunciato ricordo è già presente nascostamente il cuore-ancia del corno. In quel ricordo si parla di duelli di spada, forse anche, come è stato detto, di battaglie. Ma io non mi lascio distrarre da quel forte e mi fingo lo scotere di lame come una vibrazione potente, profonda, un'onda sonora che si propaga metallica fino ad assumere la dimensione di un rimbombo.
Attentamente il vento suona gli strumenti dei fitti alberi, ed è un concertista nel momento dell'”a solo” e mi immagino dapprima una pioppeta, poi mi correggo (i pioppi sono ben distanziati e non “fitti”), e penso ad un intricato bosco (magari lecci, querce e castagni), immenso diapason nelle mani del vento.
E spazza / l'orizzonte di rame ancora questo vento, che ora oltre a suonare pulisce anche i tramonti. D'intorno tutto è metallo fuso, musica e colore, lame e rame (dove non solo la rima ma anche l'opposizione fonematica minima /l/ - /r/, di consonanti che hanno lo stesso punto di articolazione, ci richiama ad una liquidità sinestetica).
Ma cosa succede nel tramonto di questo cielo? Mentre il vento suona e spazza e tenta di tutto ricondurre ad un unisono...l'orizzonte è luogo dove strisce di luce si protendono, un lungo, forse sottile orizzonte esteso a diventar tramonto e che si protende nel cielo, così come questo verso, il più lungo e solitario di tutta questa poesia. Un protendersi sdrucciolo, al limite di ogni possibilità di ritorno. Qui il movimento subordinante di quest'unico “intorto” periodo si palesa e sprofonda a spirale, forse un à rebours della memoria. Il corno inglese rovesciato inizia a disegnarsi. Le strisce di luce mi ricordano le aurore dalleditadirosa di Omero, ma qui è sera, e c'è il vento. Le luminose aurore di Omero erano senza vento. Qui il vento suona (e spazza), solo al tramonto evidentemente.
A questo punto sembra necessario dare concretezza a queste strisce luminose perché non diventino troppo numinose e inafferabili, ed allora ci sta bene, qui sì, la similtudine come aquiloni al cielo che rimbomba...ed anche questo è un verso lungo e profondo come il rimbombo che si richiama alla sua fine. Anzi, a rigore, se non fosse per il soccorso delle 2 sinalefi che lo riducono alla giusta misura, è questo, alla vista, il verso più lungo (e anch'esso, guarda caso, solo). Fra la percezione visiva e quella sonora s'instaura uno iato che il rimbombo del cielo con la sua repressa elettricità sembra tener insieme. Questa è davvero una similitudine omerica, mi dico, anche se Omero non scrisse di aquiloni. Anche se le sue battaglie di bronzo davvero rimbombavano come questo cielo che si fa tamburo, o basso continuo, alla danza di rame degli aquiloni e alla musica di tutta la poesia.
Vi è poi un ulteriore movimento, che a ben vedere è in realtà una sospensione del tragitto sonoro del vento e un più acuto sprofondamento nell'altrove. Le incidentali scavano, amplificano, allontanano, e paradossalmente sospendono (è il rimbombo che si fa più umile ed evanescente eco?). Se nei primi 2 versi lo spaesamento era affidato a lineette liminari, ora, forse per amor di variatio diacritica, ci si affida alle più domestiche parentesi (Nuvole in viaggio, chiari / reami di lassù! D'alti Eldoradi / malchiuse porte!). Lo sprofondamento si rivela vertiginosa altezza e acuta nostalgia sottolineata dalle 2 esclamazioni, quasi in un unico sospiro che prima s'ingrossa (settenario, endecasillabo, in enjambement), per poi esalare (quinario). Così le 2 apostrofi suonano come rimpianto e rimprovero. E secche si fanno cesura nel verso (lassù!...porte!). La distanza, quella dell'ora e del qui, da un Eden che fu, sognato o vissuto, ma comunque perduto e sfuggente (nuvole in viaggio), s'incarna in un grido trattenuto, circondato dalle parentesi che non lo attenuano nella sua potenza, semplicemente, come in un bassorilievo, lo stagliano meglio nella trama centrale del carme. E le malchiuse porte mi sembrano quelle delle promesse non mantenute, dei miraggi spettrali, di chi ci adesca e seduce sottraendosi e lasciandoci sempre nell'arsura del desiderio. Malchiuse porte dei nostri inattingibili reami, dei nostri Eldoradi. E' in questo centro (messo fra parentesi) che la visione fa più male. E' questo centro, dove come nell'occhio di un ciclone dovrebbe permanere quiete di vento, è questo centro che invece ci “scote” ancor più delle lame, aperta ferita nelle nostre illusioni.
So bene che altri potrebbero interpretare questa lunga interiezione come un grido di speranza, un'esaltazione e un gioioso auspicio. L'auspicio che da quelle malchiuse porte ci si possa prima o poi intrufolare (come clandestini, magari) e godere dei reami e degli Eldoradi. Che non a caso sono al plurale, perché ognuno ha i suoi. Ma io in tutto questo incanto m'impessimisco e leggo dolore.
La poesia potrebbe finir qui. Siamo precipitati in un grido fra parentesi. Basta così. Ma no, il poeta ci stupisce ancora e crea con una coordinazione un compagno al vento, frustrando ogni nostra aspettativa sintattica e ogni anelito a sopire l'affanno. E' come in una sinfonia, quando uno strumento si raddoppia, 2 flauti che suonano la stessa parte, 2 corni inglesi in questo caso … e il raddoppio per breve tratto, il secondo corno inglese, il deuteragonista in questione, è il mare.
E il mare che scaglia a scaglia, / livido, muta colore / lancia a terra una tromba / di schiume intorte; ...il mare si fa compagno del vento e questa liaison si svela nella congiunzione d'inizio verso, così lontana da ciò che congiunge che a tutta prima ci lascia straniti, come ogni richiamo che ci giunga da lontano. Un aiuto a questa “e” è dato da rime anch'esse lontane, ma che comunque in qualche modo legano la partitura dell'inizio alla fine che si sta approssimando con la ripresa del tema iniziale e la chiusura circolare. Le rime rimbomba / tromba, porte / intorte...in ciò recuperando anche il cielo (un terzo esecutore/strumento) e donandoci un trittico classico: vento, cielo, mare. Come a dire che c'è proprio tutto in questo canto. Tutto quello che conta per fare poesia, e non solo canzoni napoletane. E quindi anche il mare compie il suo lavoro, esegue il suo spartito. La parte è breve, come lo schianto di un'onda sugli scogli: 8, 8, 7, 5...si gonfia cresce s'abbatte muore. Un mare scaglioso, ogni scaglia un colore (penso ad arlecchino, poi no, la cosa è più mincacciosa!), un mare metamorfico, multicolore, un mare che penso allegoria del tempo e dell'inevitabile morte. Non per caso (niente è per caso in Montale) il v. 14 che ritorna al vento finisce con muore. Nel vento, nel cielo e nel mare di Corno inglese vedo lo spazio, il sogno e il tempo in cui è immerso l'uomo. Non propriamente dimensioni clementi, forse (lame, scaglie, malchiuse porte), ma che sanno suonare strumenti (il corno inglese, ad esempio, o il cuore)... E questo mare camaleontico e frammentario è detto pertinentemente livido, e in questo aggettivo c'è tutto Omero, o meglio, c'è da parte di Montale, consapevolmente, la scelta lessicale che in italiano è data dai traduttori dell'epoca a uno degli aggettivi più tradizionali ed enigmatici che Omero attribuisce nei suoi poemi al mare.7
Allora, mentre il vento suona attento (c'è cura ed affezione in questo “attento”), mentre il cielo rimbomba le sue illusioni, il mare infine lancia a terra una tromba di schiume intorte. Come dire che nel suo andirivieni di risacca, il mare consuma tutta la sua musica, portando alla morte ogni esecuzione. La tromba di schiume intorte “suona” immagine strana, quasi mi sembrerebbe barocca, qui è il mare stesso che è sia strumento che musica, una musica di spume che si spiralizzano per protendersi fino a morire lungo i lidi o nella violenza di scontro con gli scogli. Quell'intorte, nella funzione intensiva e frequentativa di quell'in-, crea una tensione tale che può trovar quiete solo nello scaricarsi definitivo dell'onda sulla terra. E la pausa dopo il lancio della tromba è un semplice, umile punto e virgola; perché il movimento sinfonico (il periodo) è unico e nel richiamarsi dei temi a distanza le pause devono essere brevi.
Infatti, si ritorna al vento, il vento che nasce e muore / nell'ora che lenta s'annera, un vento che fra nascita e morte si alterna e ri-corre come le onde. E' la ciclicità di ogni esistenza che viene rappresentata, collocata in un crepuscolo permanente (verrebbe da dire purgatoriale...nell'ora che lenta s'annera), è la musica degli eterni ritorni che pur s'inventa ogni volta in accordanze e discordanze nuove. Il corno inglese rovesciato sta finendo la sua sinfonia in un unico gesto (l'unico movimento di cui è costituita la partitura della poesia), l'ancia doppia – il cuore – è cuneo sprofondato, spalancata voragine dentro il poeta, ed è origine e al contempo fine della musica. Questa duplicità che è misteriosa coincidenza d'opposti (alto-basso, miniera e cava a cielo aperto) porta a far sì che lo strumento-ancia (sineddoche) cuore si scordi. E l'apostrofe finale è “modulato grido” del poeta, perché la musica non finisca, perché il miracolo si ripeta, perché lo strumento possa nuovamente ac-cord-arsi con l'universo. E questo compito di riaccordo è dato, con una preghiera obliqua, con un'invocazione “ottativa” indiretta (ci si rivolge al cuore parlando di fatto al vento), al Grande Solista, il vento appunto, a cui si affida la rinascita di uno strumento s-cord-ato. Rinascita sul duplice piano della musica dell'esistenza e della memoria che custodisce e perpetua.
Il vento che nasce e muore / nell'ora che lenta s'annera / suonasse te pure stasera / scordato strumento, / cuore. La ciclicità del finale (la “composizione ad anello” dei tecnici del verso) non chiude né risolve la musica. E' coscienza sapienziale (penso a quella pitagorica) di apertura verso l'infinito. La perfezione del cerchio qui riproduce solo una sospensione (un'altra pausa) della musica del cuore (cuore a volte s-cord-ato a volte ri-ac-cord-ato) che è musica ininterrotta ed eterna dell'universo.

Come ci ricorda G. P. Biasin, Debussy amava il corno inglese e Montale amava la musica di Debussy, per cui potremmo concludere che, anche nella fattispecie, tout se tient. Sempre Biasin ci informa che di questa poesia (compatta e tetragona) la frase principale corrisponderebbe alla linea melodica e quelle secondarie (incidentali, parentetiche, digressive) sarebbero i materiali armonici, distribuiti però in maniera più massiccia rispetto al tema melodico principale, sì da creare una sproporzione (un rovesciamento) “nuova”, ritmicamente e musicalmente. Questa novità è all'origine di quel senso di stupore che ci procura la tradizione rinnovata, trasgredita e omaggiata al tempo stesso. E' una musicalità diversa con gli stessi materiali, l'originalità di un suono che ci procura epifanie mai viste ed inaudite. In fondo trattasi di vento, cielo, mare e cuore (e magari pure di un inespresso amore) ma tutto “suona” nuovo, ancor più che rinnovato. Tutto ci dice qualcosa di ulteriore che affascina e rapisce.
Ancora Biasin s'intrattiene ad analizzarci il tessuto sonoro della poesia, sia sotto l'aspetto della trama che dell'ordito (un'analisi fonetica e fonologica – semantica – dei sememi), e lo spartito musicale che ne viene fuori nella sua potenza evocativa e parenetica è estremamente convincente. I rimandi lessicali ad altre poesie (del poeta o di altri poeti) evidenziano, poi, una memoria poetica attiva e coerente di Montale, condizione fondamentale della grande e bella poesia (e qui mi rammento dell'aureo libello di G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario).

L'inesauribilità della lettura, tipica solo della grande arte (musica, letteratura, pittura), è tutta presente nel Corno inglese. Quella inesauribilità che ci dà la sensazione che ci manchi sempre qualcosa a una piena coscienza della perfezione (che sentiamo ma che, oltre ogni dettagliata analisi, sappiamo di non poter totalmente comprendere). Le mani ci prudono, ci formicola la mente, sospettosi gorgoglii s'esalano dallo stomaco e un'impennata della pressione ci fa arrossire la faccia. Ci sfugge qualcosa, sappiamo solo di non aver detto tutto, di non poter di tutto. Fisicamente sperimentiamo l'Ineffabile.
Di una cosa forse siamo un po' coscienti e allora, nani su spalle di giganti, ripetiamo fra noi che non ci si chieda più... la parola... o altre parole ancora...e che solo questo oggi possiamo dire...che poesia è contemplazione di una Rivelazione, che non sappiamo ma che vogliamo.


Livorno, 19 Giugno 2015


Francesco Parasole
1O anche, ma solo per la lunghezza dei primi 3 versi, una “strofe alcaica”. Resta il fatto che Montale usa con molta consapevolezza anche quella metrica barbara cara al Carducci e al Pascoli.
2A onor del vero anche il v. 3 in C (quello della strofa iniziale più “chiusa”) è un verso isolato e si marca quindi con l'inarcatura allitterante del verso successivo: “spàzza/l'orizzònte” (geminata labiodentale sibilante sorda /ts/+ geminata labiodentale sibilante sonora /ds/ in ritmo dattilico). Per cui non si può fare a meno di notare che la sequenza dei versi sciolti, 3, 5, 7, 8, 10, ha la seguente proporzionalità di posizione a base 3: 3+5 e 3+7 (8 e 10).
3Questi metri, lo schema rimico e il numero dei versi potrebbero essere ulteriormente elaborati nei loro reciproci rapporti matematici e proporzionali, ma me ne mancano gli strumenti. Chissà che non ne possa venir fuori una qualche combinazione particolare ai fini della partitura poetica, se non addirittura una proporzione aurea regolante l'intera struttura della poesia. O altri nascosti richiami, o altre nascoste simmetrie. Ai posteri. Io qui mi fermo e sospendo ogni ulteriore qabbalah numerologica.
4 Per l’antichità si ricordano, oltre alla syrinx teocritea in forma appunto di “flauto di Pan” e datata intorno al 300 a. C.
3 poesie di Simia di Rodi (IV/ III sec. a. C.): Uovo, Scure, Ali; e una dello stesso periodo di tal Dosiade di Rodi, a
forma di Altare. In epoca alto medievale le attestazioni sono maggiori, carmina figurata (a volte veri e propri ritratti
di personaggi importanti) si trovano nella produzione poetica in latino di Optaziano Porfirio (IV sec. d. C.), Venanzio
Fortunato (VI sec. d. C.) e Rabano Mauro (VIII sec. d. C.).
5Altre possibili allusioni, di matrice simbolista ed ermetica, potrebbe forse essere rinvenute. Come sarei propenso a credere che, in questo gioco di rimandi sottesi, anche Salvatore Quasimodo in Oboe sommerso, raccolta poetica del 1932, abbia pensato a Corno inglese di Montale. Di passata è da notare il rapporto fra “scordato” di v. 17, il cui significato etimologico è “tolto dal cuore” (s-cor(d)-) e “cuore” (v. 18, ultimo, definitivo verso, in apostrofe).
6Cfr. http://www.rivistadistudiitaliani.it/articolo.php?id=1136 (accesso 17.06.2015), Biasin G. P., Il vento di Debussy: poesia e musica in Montale, in “Rivista di studi italiani”, University of California, Berkeley, Anno I, n° 2, Dicembre 1983, pp. 50-74. L'articolo oltre a creare interessanti correlazioni con le musiche “ventose” di Debussy e la poetica montaliana (Le vent sur la plaine, Ce qu'a vu le vent de l'Ouest, Le dialogue du vent et de la mer), affronta un'analisi stilistica (tessuto sonoro) e sintattica di Corno inglese e, per l'analisi sintattica, disegna un grafico illustrante la periodizzazione della poesia.

7L'espressione formulare omerica è òinops pòntos nelle sue varie combinazioni declinative. Letteralmente “mare dal colore di vino”. Tradurre òinops “color del vino” ha sempre costituito per i traduttori in italiano un problema … la maggior parte (almeno fino all'epoca di Montale) ha ripiegato su “livido”, alcuni su “viola” (“amaranto” suonava poco poetico o troppo filolivornese), altri su “nero” (anche perché Omero in altri passi parla decisamente di un “mare nero”), pochi (e nelle traduzioni più recenti) hanno scelto la traduzione etimologica, trasportando in italiano l'alterità della percezione greca arcaica. Livido avrebbe il vantaggio di mantenere un'ambiguità semantica forse effettivamente presente anche nel termine greco e indicante una variegatezza cangiante di colori. Se vediamo le definizioni di livido nei dizionari, infatti, sembra che ci siano, più o meno, tutti i colori: partendo da una base “giallo-pallido”, troviamo “violaceo” (maggiormente indefinito rispetto a “viola”), “blu-verdastro”, “giallo plumbeo”, quindi anche “grigio”, “grigio scuro”...decisamente “nero” (verrebbe di pensare alle screziature del “tumefatto”). E' evidente dunque che Montale, parlandoci di un mare che scaglia a scaglia …muta colore, scelga l'aggettivo livido, al contempo indirettamente, ma consapevolmente, evocando/interpretando un'immagine omerica, epica, arcaica.  

sabato 20 giugno 2015

Bonatti Walter - Un mondo perduto. Viaggio a ritroso nel tempo

Un mondo perduto. Viaggio a ritroso nel tempo

Ho iniziato a leggere questo libro quasi per caso essendo da un pò di tempo sullo scaffale della mia libreria .Dal risvolto di copertina si tratta di un resoconto dei viaggi effettuati dal Walter Bonatti dopo aver terminato la sua carriera di scalatore. In realtà è molto di più: si tratta di un uomo alla ricerca di un rapporto diverso con la natura e con se stesso, scoperta dei propri limiti e  di un "ponderato azzardo" che lo porta a vivere avventure al limite dell'incredibile. Il tutto raccontato con una prosa piana e  misurata che tende a far apparire ogni viaggio come il resoconto di un  esperimento più che la narrazione di un'impresa straordinaria. Una lettura che alle volte lascia stupefatti e quasi increduli davanti alle avversità superate ma che non dimentica mai la pochezza dell'uomo di fronte alla immensità della natura.