Appunti
di lettura su una poesia del Pascoli
con coda & tenzone
di Francesco Parasole
Paese notturno
Capanne
e stolli ed alberi alla luna
sono, od un tempio dell’antico Anubi,
fosca rovina? Stampano una bruna
orma le nubi
su la campagna, e più profonda e piena
la notte preme le macerie strane,
chiuse allo sguardo, dove alla catena
uggiola un cane.
Ecco la falce d’oro all’orizzonte:
due nere guglie a man a man dipinge,
indi non so che candido. Una fronte
bianca di sfinge?
sono, od un tempio dell’antico Anubi,
fosca rovina? Stampano una bruna
orma le nubi
su la campagna, e più profonda e piena
la notte preme le macerie strane,
chiuse allo sguardo, dove alla catena
uggiola un cane.
Ecco la falce d’oro all’orizzonte:
due nere guglie a man a man dipinge,
indi non so che candido. Una fronte
bianca di sfinge?
Giovanni
Pascoli - Myricae
(1891)
STROFA SAFFICA MINORE : 3
endecasillabi (saffici) + quinario (adonio).
Ora, chiamare così uno schema
metrico può sembrarci risibile e riprovevole. Niente di tutto questo
nell'ottocento, ai tempi in cui ad opera primariamente del Carducci
(ma anche del Pascoli, a suo modo) si ripescarono i metri della
classicità greco-latina e si riproposero in italiano, chiamandoli
stranamente “barbari” (metrica
barbara). Niente di
perverso, dunque, ma una raffinatezza nuova sì, che dell'antico
faceva ricercata meraviglia di timbro e ritmo nel moderno. La strofa
saffica (o strofe, alla greca) per tradizione letteraria suggerisce
l'impiego del canto monodico (solitario), in contrapposizione a
quello corale, della comunità che si ritrova e si “identifica”
in canti condivisi. I greci avevano infatti una Lirica monodica e una
Lirica corale e “lirica” (sottinteso poesia/canto) era
l'aggettivo che indicava il suono della lira sotteso al recitativo.
Per noi “lirico/a” è ormai solo componimento poetico e magari di
natura intimistica, se proprio vogliamo storicamente connotarlo. Si è
persa la musica.
La tradizione antica
attribuiva alla poetessa Saffo l'invenzione di questo schema metrico;
schema metrico, poi, ampiamente usato nella poesia latina da Catullo
e Orazio e, infine, dai poeti ellenisti.
Il Pascoli, contrariamente al
Carducci e nonostante i suoi afflati di socialismo utopistico e la
sua etica/estetica del fanciullino, non poteva che scrivere lirica
monodica, solitaria, intima. Lasciando al Carducci, in questo
caratterialmente più idoneo, il martellare corale dell'ode. Pascoli
predilesse e perfezionò l'italianizzazione dell'endecasillabo
saffico, ponendo una cesura praticamente costante dopo ogni cinque
sillabe del verso (cesura quinaria). Solo marginalmente, infine, è
qui da ricordare la difficoltà di questi nostri poeti nel
trasportare in
una prosodia accentuativa metri creati per una prosodia sillabica
quantitativa.
SCHEMA RIMICO: rime alternate:
ABAB, CDCD …
Colpiscono quegli “stolli”
dalla “o” chiusa, traccia longobarda, ovvero germanica, ormai
cancellata dal disuso e quindi reperibile solo su dizionari seri.
Siamo passati dai covoni
alle rotoballe
e la nostra memoria presto resetta, alla rovescia, insieme alle
immagini anche le parole della campagna. Insomma, azzera e attualizza
e ciò che è perso è perso. Lo “stollo”, “anima del
pagliaio”, quasi uno stelo più spesso e robusto, era palo di
sostegno (vedi anche il gr. stylos,
colonna) intorno
al quale schiene sudate di contadini costruivano il covone (bella
immagine, grassa e piena e protettiva). Il covone era
aratro con i buoi, falce agitata da mani callose e sapienti, fuochi
in collina alla sera e ventilabri scossi sull'aia. La rotoballa (che
a tutta prima ci suona come la lista continua di promesse del
politico in campagna, sì, ma elettorale; immagine seriale, smilza e
ottimizzante e tristo rotolo abbandonato in ordine nei campi rasi) è
trattore e trebbiatrice, autista all'ombra del tendalino alto sulla
motrice, silenzio di sudore e canti, silos. Covone e rotoballa ci
raccontano storie diverse. E i covoni, fateci caso, non si vedono
più.
Colpiscono allora gli “stolli”
per estraneità semantica e di vita e ancor più perché inseriti fra
“capanne” e “alberi”, termini che per ventura ancora
conosciamo e vediamo nelle cose. E tutti “alla luna”: verso,
contro, protési,
in preghiera,
in dono
alla luna? Non si sa. Meravigliosa incertezza della poesia quando
tutto ci dice, anche quello che non esiste più. Interrompono gli
stolli la continuità di capanne e alberi; e le capanne ce le
immaginiamo fienili, o slabbrate case coloniche, semiabbandonate fra
gli stolli, nudi ormai del fieno che sorreggevano.
E poi l'inarcatura
(enjambement) “sono” e l'incertezza che inaspettatamente si fa
domanda: “od un tempio...fosca rovina?”, ancora in enjambement.
La metrica barbara non deve avere ritmi facili, non deve cullare,
consolare e custodire. La metrica barbara deve impennarsi,
intricarsi, suonar nuova e farci pensare. Quel tempio d'Anubi
interompe e affatica, affatica e stupisce, stupisce e ci estrania,
dando senso (o rinnegandolo) alla “fosca rovina” della nostra
campagna, proiettandola nel mistero dell'antico egitto. Mistero
egiziano che nell'ottocento è ormai stereotipo esoterico. Qui è il
Pascoli che si fa gotico,
ma come si poteva far gotico solo un poeta italiano e classicista:
senza elfi, magie merliniane e nordiche rovine di nebbia, senza
vampiri e streghe. Il gotico
pascoliano
non poteva che attingere alle culture mediterranee. Ma
perché il tempio di Anubi? Perché questo dio – importante certo
ma gregario – dalla testa di sciacallo e il corpo umano, guida dei
morti al loro giudizio finale, psicopompo, come di Ermes avrebbero
detto i greci, pesatore d'anime e protettore delle necropoli? Forse
Pascoli ci suggerisce che la (o quella)
campagna di notte è ormai antico cimitero in rovina. E
quell'aggettivo “fosca” etimologicamente sa di fuoco e di
combusto. Siamo nella campagna che è rovina d'Egitto o, al contempo,
siamo nella campagna e nell'antico egitto? Identità, alternativa o
parallelismo?
La Luna (in cui si nasconde
Iside) è impotente alla desolazione. Divinità solo testimone della
distruzione. Forse una carestia, forse un'epidemia di bestiame o una
invasione barbara. E anche le nubi ci mettono del loro, stampando –
come un suggello – la loro ombra bruna. E il bruna
e
il fosca (a
inizio e fine verso)
non
possiamo non notare che hanno nascosto lo stesso semantema che li
rende parenti stretti fra loro e del fuoco ancora (nero fumo
lucente).
La
seconda strofa è in continuità sintattica. Si complica il movimento
dal basso verso l'alto e dall'alto verso il basso in assenza di
soluzione di continuità o pausa. Le rovine, quali esse siano, che
premono alla luna; e le nubi e la notte che schiacciano quella
campagna di rovine. E la notte è più profonda e piena (rubando
quest'ultimo aggettivo a Selene). Ci risuona dentro un contrasto, uno
scherzo della memoria letteraria, un'allusione di ritmo nella
polarità dell'evocazione: dolce
e
chiara è la notte e
senza vento, / e
queta sovra i tetti e
in mezzo agli orti / posa la luna, e
di lontan rivela...
A volte serenità e oscurità
hanno lo stesso ritmo, si scambiano gli aggettivi per esiti opposti,
e Leopardi e Pascoli lo sanno bene.
E
poi c'è la fosca rovina
che diventa maceria
strana e non a caso. Per il poeta non è certo una necessità di
sinonimo con chiasmo d'aggettivo per la rima. Rovine e macerie hanno
un loro diverso statuto. Già il Pascoli lo sapeva, noi l'abbiamo
dovuto imparare più tardi, da un antropologo francese, Marc Augé
(Rovine e
macerie. Il senso del tempo,
Bollati Boringhieri 2004). La rovina è nobile, la maceria è umile.
La rovina è riscatto sul tempo, la maceria distruzione del tempo. La
rovina è ideale, la maceria è reale. La rovina è vittoria della
memoria, la maceria è sconfitta e oblio.
Il
paese notturno è come un cimitero notturno e abbandonato, le cui
case sono forse ad un tratto rovine di un tempio (illusione?), forse
ad un tratto macerie (dissoluzione?). Comunque tombe chiuse ad ogni
visione e nascoste, tanto da straniare (nel tempo e nello spazio) il
poeta che osserva (e noi pure). E quel cane legato alla catena che
non ulula
ma uggiola
(si ulula fra le rovine, si uggiola fra le macerie), pur nella
tristezza e nello squallore dell'immagine (così contadina, reale e
quotidiana) di povertà, desolazione e abbandono, quasi come un
paradosso della pietà, a ben vedere, ci fa trarre il primo sospiro
di sollievo fisiologico (punto fermo) e mentale della poesia.
La terza ed ultima strofa,
infine, all'enigma aggiunge (o congiunge) il mistero. Se potevamo
pensare che “l'ermetismo” dei primi otto versi potesse avere uno
scioglimento negli ultimi quattro, ci sabagliavamo. E lo stupore ci
colpisce al contrario, come una meraviglia che ci fulmina ma ci
lascia senza la rivelazione promessa. L'enigma, un nodo di versi e
d'immagini da decifrare, diventa mistero, irrisolvibile e sospeso per
sempre. Umberto Galimberti ci insegna che l'enigma è umano e ha una
soluzione (Edipo e la Chimera), mentre il mistero (la cui radice pare
sia il tacere e quindi il silenzio) appartiene al Sacro,
irrisolvibile, senza codice, indecifrabile per definizione.
Già
il riferimento ad Anubi era presagio di religioso mistero, la Sfinge
finale poi (altro teriomorfismo divino ed egizio), così chimerica
nella sua assolata oscurità,1
si staglia ai margini della luce per ribadire una coincidenza segreta
fra notte e giorno (almeno all'aurora), fra mondo di poveri morti e
mondo di poveri vivi.
Ma vediamola più da vicino
questa sequenza che chiude con un'altra interrogativa di richiamo
alla prima, evidenziando così il nero e il bianco, la polarità che
si incontra nel percorso dell'esistere, come in un pavimento a
scacchi; la vita che non ci risponde se non con la morte (e
viceversa).
Siamo noi che abbiamo sempre
interrogato il divino, illudendoci a volte del contrario? Illudendoci
di un dialogo di fatto impossibile?
All'orizzonte
sorge il sole (la falce d'oro) che progressivamente illumina due non
precisate guglie (per aferesi di “aguglia”, “ago”), due
aculei gotici
che possono ben essere gli “stolli” iniziali. Di poi (“indi”)
il sole nel suo sorgere illumina un indecifrato e indecifrabile
“candido” (Pascoli conosceva Volataire?), qualcosa di bianco
immacolato, chiaro, limpido, semplice ed ingenuo. Un aggettivo senza
il suo nome. L'Anonimia dello splendore. E il poeta si chiede se
questo “non so (che)” di candido possa mai essere la fronte della
Sfinge. La poesia si chiude sull'abisso di una domanda senza
soluzione, parallela e analoga
(allegoria egiziana) alla prima domanda. E' come se, infine, nel
segreto di tenebra e luce, il poeta-Anubi ci avesse preso per mano e
accompagnato davanti alla Sfinge. La cui imponente maestà sembra
volerci annichilire nel mistero del giorno che avanza. Dal mistero
del buio al mistero della luce. La prima domanda ha avuto come
risposta un'altra domanda. L'oscurità complessa non ha ottenuto
scioglimento nella semplicità splendente. Così è la poesia del
Pascoli (il suo animo), come si dice dei sepolcri imbiancanti: un
candore ingenuo che nascostamente fermenta oscure putrescenze,
nostalgie senza ritorno, vani pellegrinaggi fra rovine e macerie.
CODA
Dopo
l'esercizio critico a volte s'impone, all'urgenza di chi legge e
scrive, quello imitativo. Quasi una risposta che, a distanza di anni
dalla scritura di quei versi, il fruitore vuol tentare di offrire al
poeta letto, annotato, amato o disamato. La risposta-imitazione in
versi è per sua natura esercizio di tecnica e stile (più o meno
riuscito) e, nei suoi possibili percorsi, continuazione esegetica
fatta dall'interprete con gli stessi strumenti dell'interpretato.
Insomma, ci si misura
col
“padre” con le stesse misure
e
le stesse armi che lui ha usato contro
di
noi. In questo ideale agone, che ha la pretesa di aggettivarsi anche
come “poetico”, tentiamo di verificare più che altro la nostra
tenuta al confronto, la nostra ispirazione di secondo grado e la
nostra capacità di accordarci con
e
penetrare un'altrui voce. Anche perché per noi Pascoli è poeta
amato.
Memoria
letteraria e correlato meccanismo imitativo da Omero in poi, e con
l'affermarsi della civiltà della scrittura su quella orale, sono
andati di pari passo. Anche gli aedi e i rapsodi omerici imitavano,
ma nel senso di attingere
ad un comune serbatoio enciclopedico tradizionale che forniva loro i
contenuti, le tecniche e le formule da usare e combinare nei loro
canti. La vera e propria mimesis
si realizza con la civiltà della scrittura (scripta
manent!)
e soprattutto con l'emergere, dall'anonimia arcaica, della figura
individuale del poeta. Un poeta che dice io
e che ha un nome e un cognome, per così dire; una personalità
definita e originale.
L'imitazione
primariamente pertiene il genere letterario, che si è
convenzionalmente costituito come canone; successivamente s'indirizza
in maniera più specifica al confronto/scontro con un altro poeta. In
questa seconda fase si realizzano delle distinzioni. L'imitazione può
assumere i connatati dell'imitatio
propriamente detta, in cui superficialmente e pedissequamente si
adottano motivi, tecniche e stilemi del modello (quasi un plagio,
diremmo noi), o della aemulatio,
che tiene il modello come riferimento ideale e ha un di più nello
sforzo rispettoso
di avvicinarsi e in qualche modo rielaborare personalmente il modello
stesso. Contrariamente all'imitazione generica, l'emulazione denota
un atto di amore verso il modello, la creazione di una distanza
(il rispetto) che permette al contempo omaggio e indipendenza, e la
realizzazione di un lavoro fatto non per “copia” e “somiglianza”
del,
ma per “agonia” (lotta) e “analogia” con
il modello (inteso come testo e/o autore). L'imitazione è invdia, e
sfoggio di tecnica, l'emulazione è, come detto, un atto di amore
che, come tutti gli atti di amore, prevede scontro, incontro,
desiderio e distanza con l'avversario-amato. Mentre, infine,
l'imitazione può assumere i tratti della parodia,
caricaturale e con intento satirico (a volte è anche omaggio, ma
comunque privo di afflato ideale), l'emulazione è sintomo di una
tensione empatica che trova ragioni profonde a livello esistenziale.2
Da quando le Muse sono tornate
nell'Iperuranio e la poesia, abbandonata dal divino, giocoforza si è
laicizzata, ai poeti non è rimasto che attingere, oltre che alla
vita, alla propria memoria e a quella di chi li ha preceduti.
&
TENZONE
ASCENDERE E CADERE
Una sventrata cava desolata,
aperta e secca gola senza
doglie,
del sole il fuoco verde e la
calata
esangue accoglie.
Breve è il mio passo che
obliquo s'arresta
mentre una serpe di sale e di
sasso
m'aggredisce il calcagno e si
ridesta.
M'inghiotte il basso
del ravaneto buio che soggiace
e del suo seno nell'urna
perfetta
reliquia resto, brace senza
pace,
ansia che svetta.
MATERIA & MACERIA
Ospite strano è qui il nostro
sudore,
che si fingeva di questa
maceria
figlio e rampollo d'un antico
ardore,
storta materia.
Convinti si era d'essere
fratelli,
di noi fra noi, con voi da
sempre uniti,
avvinti al sogno bello dei
ribelli,
forti e impuniti.
Ma invano stilla e strano
suona al cuore
della fatica il canto e di
miseria,
greve e stentato in questa, al
primo albore,
storta maceria.
* * * * * * * * * * * * * * *
* * * * * * * *
1Sfinge,
dal greco Sphigs
(latino Sphinx),
probabilmente affine al verbo sphigghein
“stringere”,
“soffocare”. Alcuni propendono per una etimologia copta, data la
ritenuta origine egiziana: dal termine fik,
“demone”- ovvero, egiziano sb-o
(“scienza”)
+ ik
(“demone”)
= copto fik..
Mostro mitologico di fatto riscontrabile in area mesopotamica, greca
ed egizia, per lo più rappresentato con corpo di leone e testa
umana. Ipostasi di “enigma”. Entità affine, nel mito di Edipo
ad esempio, alla Chimera,
dal greco chimaira
“capra”, che però assume connotati diversi e solo greci, pur
nelle numerose variabili che avrà nelle rappresentazioni
figurative. La Chimera è originariamente descritta come mostro
sputa-fuoco, con testa e corpo di leone (o testa di donna), una
seconda testa di capra sulla schiena, e un serpente per coda.
Contrariamente alla semantica della Sfinge, la Chimera diventa nel
tempo simbolo di fantasticheria onirica e/o sogno irrealizzabile.
2La
letteratura occidentale è assai ricca di prove, confronti, scontri
e giochi seri, semiseri, scherzosi fra poeti. L'agone poetico si è
sempre prestato a meccanismi di citazione, criptocitazione e
allusione, ripresa e variazione. Il duello letterario, e poetico in
particolare, ha illustri esempi specialmente di materia amorosa.
Nell'antichità abbiamo ben attestati duelli poetici fra pastori per
conquistare il cuore di ninfe o pastorelle. Gli dèi, in particolare
Apollo, gareggiarono in poesia coi mortali e, a volte, ne provarono
tale invidia da comminare punizioni divine ai malcapitati che
osavano vincerli nel canto. Dal XIII sec. sono attestati i famosi
Contrasti
(Altercationes)
anch'essi di tema amoroso, che meriterebbero un discorso a parte. E
come non ricordare infine la famosa tenzone
a
suon di sonetti fra Dante e l'amico/nemico Forese Donati?