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venerdì 23 marzo 2018

Appunti di lettura su una poesia del Pascoli


Appunti di lettura su una poesia del Pascoli
con coda & tenzone
di Francesco Parasole


Paese notturno
Capanne e stolli ed alberi alla luna
sono, od un tempio dell’antico Anubi,
fosca rovina? Stampano una bruna
orma le nubi

su la campagna, e più profonda e piena
la notte preme le macerie strane,
chiuse allo sguardo, dove alla catena
uggiola un cane.

Ecco la falce d’oro all’orizzonte:
due nere guglie a man a man dipinge,
indi non so che candido. Una fronte
bianca di sfinge?

Tristezze - Paese notturno
STROFA SAFFICA MINORE : 3 endecasillabi (saffici) + quinario (adonio).
Ora, chiamare così uno schema metrico può sembrarci risibile e riprovevole. Niente di tutto questo nell'ottocento, ai tempi in cui ad opera primariamente del Carducci (ma anche del Pascoli, a suo modo) si ripescarono i metri della classicità greco-latina e si riproposero in italiano, chiamandoli stranamente “barbari” (metrica barbara). Niente di perverso, dunque, ma una raffinatezza nuova sì, che dell'antico faceva ricercata meraviglia di timbro e ritmo nel moderno. La strofa saffica (o strofe, alla greca) per tradizione letteraria suggerisce l'impiego del canto monodico (solitario), in contrapposizione a quello corale, della comunità che si ritrova e si “identifica” in canti condivisi. I greci avevano infatti una Lirica monodica e una Lirica corale e “lirica” (sottinteso poesia/canto) era l'aggettivo che indicava il suono della lira sotteso al recitativo. Per noi “lirico/a” è ormai solo componimento poetico e magari di natura intimistica, se proprio vogliamo storicamente connotarlo. Si è persa la musica.
La tradizione antica attribuiva alla poetessa Saffo l'invenzione di questo schema metrico; schema metrico, poi, ampiamente usato nella poesia latina da Catullo e Orazio e, infine, dai poeti ellenisti.
Il Pascoli, contrariamente al Carducci e nonostante i suoi afflati di socialismo utopistico e la sua etica/estetica del fanciullino, non poteva che scrivere lirica monodica, solitaria, intima. Lasciando al Carducci, in questo caratterialmente più idoneo, il martellare corale dell'ode. Pascoli predilesse e perfezionò l'italianizzazione dell'endecasillabo saffico, ponendo una cesura praticamente costante dopo ogni cinque sillabe del verso (cesura quinaria). Solo marginalmente, infine, è qui da ricordare la difficoltà di questi nostri poeti nel trasportare in una prosodia accentuativa metri creati per una prosodia sillabica quantitativa.

SCHEMA RIMICO: rime alternate: ABAB, CDCD …

Colpiscono quegli “stolli” dalla “o” chiusa, traccia longobarda, ovvero germanica, ormai cancellata dal disuso e quindi reperibile solo su dizionari seri.
Siamo passati dai covoni alle rotoballe e la nostra memoria presto resetta, alla rovescia, insieme alle immagini anche le parole della campagna. Insomma, azzera e attualizza e ciò che è perso è perso. Lo “stollo”, “anima del pagliaio”, quasi uno stelo più spesso e robusto, era palo di sostegno (vedi anche il gr. stylos, colonna) intorno al quale schiene sudate di contadini costruivano il covone (bella immagine, grassa e piena e protettiva). Il covone era aratro con i buoi, falce agitata da mani callose e sapienti, fuochi in collina alla sera e ventilabri scossi sull'aia. La rotoballa (che a tutta prima ci suona come la lista continua di promesse del politico in campagna, sì, ma elettorale; immagine seriale, smilza e ottimizzante e tristo rotolo abbandonato in ordine nei campi rasi) è trattore e trebbiatrice, autista all'ombra del tendalino alto sulla motrice, silenzio di sudore e canti, silos. Covone e rotoballa ci raccontano storie diverse. E i covoni, fateci caso, non si vedono più.

Colpiscono allora gli “stolli” per estraneità semantica e di vita e ancor più perché inseriti fra “capanne” e “alberi”, termini che per ventura ancora conosciamo e vediamo nelle cose. E tutti “alla luna”: verso, contro, protési, in preghiera, in dono alla luna? Non si sa. Meravigliosa incertezza della poesia quando tutto ci dice, anche quello che non esiste più. Interrompono gli stolli la continuità di capanne e alberi; e le capanne ce le immaginiamo fienili, o slabbrate case coloniche, semiabbandonate fra gli stolli, nudi ormai del fieno che sorreggevano.
E poi l'inarcatura (enjambement) “sono” e l'incertezza che inaspettatamente si fa domanda: “od un tempio...fosca rovina?”, ancora in enjambement. La metrica barbara non deve avere ritmi facili, non deve cullare, consolare e custodire. La metrica barbara deve impennarsi, intricarsi, suonar nuova e farci pensare. Quel tempio d'Anubi interompe e affatica, affatica e stupisce, stupisce e ci estrania, dando senso (o rinnegandolo) alla “fosca rovina” della nostra campagna, proiettandola nel mistero dell'antico egitto. Mistero egiziano che nell'ottocento è ormai stereotipo esoterico. Qui è il Pascoli che si fa gotico, ma come si poteva far gotico solo un poeta italiano e classicista: senza elfi, magie merliniane e nordiche rovine di nebbia, senza vampiri e streghe. Il gotico pascoliano non poteva che attingere alle culture mediterranee. Ma perché il tempio di Anubi? Perché questo dio – importante certo ma gregario – dalla testa di sciacallo e il corpo umano, guida dei morti al loro giudizio finale, psicopompo, come di Ermes avrebbero detto i greci, pesatore d'anime e protettore delle necropoli? Forse Pascoli ci suggerisce che la (o quella) campagna di notte è ormai antico cimitero in rovina. E quell'aggettivo “fosca” etimologicamente sa di fuoco e di combusto. Siamo nella campagna che è rovina d'Egitto o, al contempo, siamo nella campagna e nell'antico egitto? Identità, alternativa o parallelismo?

La Luna (in cui si nasconde Iside) è impotente alla desolazione. Divinità solo testimone della distruzione. Forse una carestia, forse un'epidemia di bestiame o una invasione barbara. E anche le nubi ci mettono del loro, stampando – come un suggello – la loro ombra bruna. E il bruna e il fosca (a inizio e fine verso) non possiamo non notare che hanno nascosto lo stesso semantema che li rende parenti stretti fra loro e del fuoco ancora (nero fumo lucente).

La seconda strofa è in continuità sintattica. Si complica il movimento dal basso verso l'alto e dall'alto verso il basso in assenza di soluzione di continuità o pausa. Le rovine, quali esse siano, che premono alla luna; e le nubi e la notte che schiacciano quella campagna di rovine. E la notte è più profonda e piena (rubando quest'ultimo aggettivo a Selene). Ci risuona dentro un contrasto, uno scherzo della memoria letteraria, un'allusione di ritmo nella polarità dell'evocazione: dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela...
A volte serenità e oscurità hanno lo stesso ritmo, si scambiano gli aggettivi per esiti opposti, e Leopardi e Pascoli lo sanno bene.
E poi c'è la fosca rovina che diventa maceria strana e non a caso. Per il poeta non è certo una necessità di sinonimo con chiasmo d'aggettivo per la rima. Rovine e macerie hanno un loro diverso statuto. Già il Pascoli lo sapeva, noi l'abbiamo dovuto imparare più tardi, da un antropologo francese, Marc Augé (Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri 2004). La rovina è nobile, la maceria è umile. La rovina è riscatto sul tempo, la maceria distruzione del tempo. La rovina è ideale, la maceria è reale. La rovina è vittoria della memoria, la maceria è sconfitta e oblio.
Il paese notturno è come un cimitero notturno e abbandonato, le cui case sono forse ad un tratto rovine di un tempio (illusione?), forse ad un tratto macerie (dissoluzione?). Comunque tombe chiuse ad ogni visione e nascoste, tanto da straniare (nel tempo e nello spazio) il poeta che osserva (e noi pure). E quel cane legato alla catena che non ulula ma uggiola (si ulula fra le rovine, si uggiola fra le macerie), pur nella tristezza e nello squallore dell'immagine (così contadina, reale e quotidiana) di povertà, desolazione e abbandono, quasi come un paradosso della pietà, a ben vedere, ci fa trarre il primo sospiro di sollievo fisiologico (punto fermo) e mentale della poesia.

La terza ed ultima strofa, infine, all'enigma aggiunge (o congiunge) il mistero. Se potevamo pensare che “l'ermetismo” dei primi otto versi potesse avere uno scioglimento negli ultimi quattro, ci sabagliavamo. E lo stupore ci colpisce al contrario, come una meraviglia che ci fulmina ma ci lascia senza la rivelazione promessa. L'enigma, un nodo di versi e d'immagini da decifrare, diventa mistero, irrisolvibile e sospeso per sempre. Umberto Galimberti ci insegna che l'enigma è umano e ha una soluzione (Edipo e la Chimera), mentre il mistero (la cui radice pare sia il tacere e quindi il silenzio) appartiene al Sacro, irrisolvibile, senza codice, indecifrabile per definizione.
Già il riferimento ad Anubi era presagio di religioso mistero, la Sfinge finale poi (altro teriomorfismo divino ed egizio), così chimerica nella sua assolata oscurità,1 si staglia ai margini della luce per ribadire una coincidenza segreta fra notte e giorno (almeno all'aurora), fra mondo di poveri morti e mondo di poveri vivi.

Ma vediamola più da vicino questa sequenza che chiude con un'altra interrogativa di richiamo alla prima, evidenziando così il nero e il bianco, la polarità che si incontra nel percorso dell'esistere, come in un pavimento a scacchi; la vita che non ci risponde se non con la morte (e viceversa).
Siamo noi che abbiamo sempre interrogato il divino, illudendoci a volte del contrario? Illudendoci di un dialogo di fatto impossibile?

All'orizzonte sorge il sole (la falce d'oro) che progressivamente illumina due non precisate guglie (per aferesi di “aguglia”, “ago”), due aculei gotici che possono ben essere gli “stolli” iniziali. Di poi (“indi”) il sole nel suo sorgere illumina un indecifrato e indecifrabile “candido” (Pascoli conosceva Volataire?), qualcosa di bianco immacolato, chiaro, limpido, semplice ed ingenuo. Un aggettivo senza il suo nome. L'Anonimia dello splendore. E il poeta si chiede se questo “non so (che)” di candido possa mai essere la fronte della Sfinge. La poesia si chiude sull'abisso di una domanda senza soluzione, parallela e analoga (allegoria egiziana) alla prima domanda. E' come se, infine, nel segreto di tenebra e luce, il poeta-Anubi ci avesse preso per mano e accompagnato davanti alla Sfinge. La cui imponente maestà sembra volerci annichilire nel mistero del giorno che avanza. Dal mistero del buio al mistero della luce. La prima domanda ha avuto come risposta un'altra domanda. L'oscurità complessa non ha ottenuto scioglimento nella semplicità splendente. Così è la poesia del Pascoli (il suo animo), come si dice dei sepolcri imbiancanti: un candore ingenuo che nascostamente fermenta oscure putrescenze, nostalgie senza ritorno, vani pellegrinaggi fra rovine e macerie.

CODA

Dopo l'esercizio critico a volte s'impone, all'urgenza di chi legge e scrive, quello imitativo. Quasi una risposta che, a distanza di anni dalla scritura di quei versi, il fruitore vuol tentare di offrire al poeta letto, annotato, amato o disamato. La risposta-imitazione in versi è per sua natura esercizio di tecnica e stile (più o meno riuscito) e, nei suoi possibili percorsi, continuazione esegetica fatta dall'interprete con gli stessi strumenti dell'interpretato. Insomma, ci si misura col “padre” con le stesse misure e le stesse armi che lui ha usato contro di noi. In questo ideale agone, che ha la pretesa di aggettivarsi anche come “poetico”, tentiamo di verificare più che altro la nostra tenuta al confronto, la nostra ispirazione di secondo grado e la nostra capacità di accordarci con e penetrare un'altrui voce. Anche perché per noi Pascoli è poeta amato.

Memoria letteraria e correlato meccanismo imitativo da Omero in poi, e con l'affermarsi della civiltà della scrittura su quella orale, sono andati di pari passo. Anche gli aedi e i rapsodi omerici imitavano, ma nel senso di attingere ad un comune serbatoio enciclopedico tradizionale che forniva loro i contenuti, le tecniche e le formule da usare e combinare nei loro canti. La vera e propria mimesis si realizza con la civiltà della scrittura (scripta manent!) e soprattutto con l'emergere, dall'anonimia arcaica, della figura individuale del poeta. Un poeta che dice io e che ha un nome e un cognome, per così dire; una personalità definita e originale.
L'imitazione primariamente pertiene il genere letterario, che si è convenzionalmente costituito come canone; successivamente s'indirizza in maniera più specifica al confronto/scontro con un altro poeta. In questa seconda fase si realizzano delle distinzioni. L'imitazione può assumere i connatati dell'imitatio propriamente detta, in cui superficialmente e pedissequamente si adottano motivi, tecniche e stilemi del modello (quasi un plagio, diremmo noi), o della aemulatio, che tiene il modello come riferimento ideale e ha un di più nello sforzo rispettoso di avvicinarsi e in qualche modo rielaborare personalmente il modello stesso. Contrariamente all'imitazione generica, l'emulazione denota un atto di amore verso il modello, la creazione di una distanza (il rispetto) che permette al contempo omaggio e indipendenza, e la realizzazione di un lavoro fatto non per “copia” e “somiglianza” del, ma per “agonia” (lotta) e “analogia” con il modello (inteso come testo e/o autore). L'imitazione è invdia, e sfoggio di tecnica, l'emulazione è, come detto, un atto di amore che, come tutti gli atti di amore, prevede scontro, incontro, desiderio e distanza con l'avversario-amato. Mentre, infine, l'imitazione può assumere i tratti della parodia, caricaturale e con intento satirico (a volte è anche omaggio, ma comunque privo di afflato ideale), l'emulazione è sintomo di una tensione empatica che trova ragioni profonde a livello esistenziale.2
Da quando le Muse sono tornate nell'Iperuranio e la poesia, abbandonata dal divino, giocoforza si è laicizzata, ai poeti non è rimasto che attingere, oltre che alla vita, alla propria memoria e a quella di chi li ha preceduti.

& TENZONE
ASCENDERE E CADERE

Una sventrata cava desolata,
aperta e secca gola senza doglie,
del sole il fuoco verde e la calata
esangue accoglie.

Breve è il mio passo che obliquo s'arresta
mentre una serpe di sale e di sasso
m'aggredisce il calcagno e si ridesta.
M'inghiotte il basso

del ravaneto buio che soggiace
e del suo seno nell'urna perfetta
reliquia resto, brace senza pace,
ansia che svetta.


MATERIA & MACERIA

Ospite strano è qui il nostro sudore,
che si fingeva di questa maceria
figlio e rampollo d'un antico ardore,
storta materia.

Convinti si era d'essere fratelli,
di noi fra noi, con voi da sempre uniti,
avvinti al sogno bello dei ribelli,
forti e impuniti.
Ma invano stilla e strano suona al cuore
della fatica il canto e di miseria,
greve e stentato in questa, al primo albore,
storta maceria.



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1Sfinge, dal greco Sphigs (latino Sphinx), probabilmente affine al verbo sphigghein “stringere”, “soffocare”. Alcuni propendono per una etimologia copta, data la ritenuta origine egiziana: dal termine fik, “demone”- ovvero, egiziano sb-o (“scienza”) + ik (“demone”) = copto fik.. Mostro mitologico di fatto riscontrabile in area mesopotamica, greca ed egizia, per lo più rappresentato con corpo di leone e testa umana. Ipostasi di “enigma”. Entità affine, nel mito di Edipo ad esempio, alla Chimera, dal greco chimaira “capra”, che però assume connotati diversi e solo greci, pur nelle numerose variabili che avrà nelle rappresentazioni figurative. La Chimera è originariamente descritta come mostro sputa-fuoco, con testa e corpo di leone (o testa di donna), una seconda testa di capra sulla schiena, e un serpente per coda. Contrariamente alla semantica della Sfinge, la Chimera diventa nel tempo simbolo di fantasticheria onirica e/o sogno irrealizzabile.
2La letteratura occidentale è assai ricca di prove, confronti, scontri e giochi seri, semiseri, scherzosi fra poeti. L'agone poetico si è sempre prestato a meccanismi di citazione, criptocitazione e allusione, ripresa e variazione. Il duello letterario, e poetico in particolare, ha illustri esempi specialmente di materia amorosa. Nell'antichità abbiamo ben attestati duelli poetici fra pastori per conquistare il cuore di ninfe o pastorelle. Gli dèi, in particolare Apollo, gareggiarono in poesia coi mortali e, a volte, ne provarono tale invidia da comminare punizioni divine ai malcapitati che osavano vincerli nel canto. Dal XIII sec. sono attestati i famosi Contrasti (Altercationes) anch'essi di tema amoroso, che meriterebbero un discorso a parte. E come non ricordare infine la famosa tenzone a suon di sonetti fra Dante e l'amico/nemico Forese Donati?

Il primo incontro del nuovo ciclo 2018 - 14 aprile

Il 14 aprile prossimo Francesco  Parasole ci parlerà di "Dialoghi con Leucò" una delle opere di Cesare Pavese più conosciuta.


.
Libro nel quale l'autore affronta il tema del mito con una serie di dialoghi tra l'uomo e la divinità.

L'azienda che sarà ospite del pomeriggio e della successiva cena con il produttore è la Fattoria Badia Pozzeveri con i vini DOC Montecarlo e IGT Toscani.
Maggiori informazioni sull'azienda 
http://www.tenutedibadia.it/index.php/it/


L'INCONTRO AVRA' INIZIO ALLE ORE 18.
VI ASPETTIAMO


sabato 10 marzo 2018

Un nuovo ciclo di un vino un libro

Finalmente ci siamo!

Si riparte con gli incontri di Un Vino .. Un Libro , il primo appuntamento per il 14 aprile Ristorante Antico Uliveto di Pozzi di Seravezza, ore 18 a cui seguirà come sempre la cena con il produttore.
Saranno protagonisti dell'incontro:
Francesco Parasole che ci parlerà del libro di Cesare pavese "Dialoghi con Leucò" e l'azienda della Doc Montecarlo Tenute di Badia con i sui vini.
Aggiornamenti nei prossimi giorni
Lamberto Tosi




Una Poesia di Alfonso Gatto

Consiglio spassionato
Non date retta al re,
non date retta a me.
Chi v’inganna
si fa sempre più alto d’una spanna,
mette sempre un berretto,
incede eretto
con tante medaglie sul petto.
Non date retta al saggio
al maestro del villaggio
al maestro della città
a chi vi dice che sa.
Sbagliate soltanto da voi
come i cavalli, come i buoi,
come gli uccelli, i pesci, i serpenti
che non hanno monumenti
e non sanno mai la storia.
Chi vive è senza gloria.

Alfonso Gatto