Cerca nel blog

sabato 24 maggio 2014

Rigraziamenti e collegamenti

 esopianeta

In attesa di stabilire la data dell'ultimo incontro con Un vino Un libro vorrei inviare i miei ringraziamenti a:
Il ristorante Antico Uliveto che ci ospita;
La Fisar Versilia che ci supporta con i valenti Sommeliers;
Tutti i relatori e le azienda partecipanti,
 il nostro affettuoso e vivace pubblico.

Vi segnalo poi il blog tenuto da Vincenzo Zappalà su  www.astronomia.com dove si parla di astronomia e molto altro sempre con chiareza e competenza come è solito fare il nostro Vincenzo.
Saluti e al prossimo  incontro.
Lamberto Tosi

giovedì 22 maggio 2014

I racconti presentati dal prof. Vincenzo Zappalà all'incontro del 17 maggio 2014






La voce del mare, ovvero io e le balene
La terra e il mare: due entità fisiche percepite in modo nettamente diverso dalla maggior parte degli esseri umani. La prima è qualcosa di tattile, di investigabile, di manipolabile. Ha anch’essa lati oscuri, misteriosi, a volte terribili e a volte affascinanti, ma è lì a portata di mano (e di piede). In altre parole, è il nostro mondo, parla la nostra lingua (o almeno così crediamo).
Il mare no. Esso non sembra voler comunicare con noi. Sia che si presenti con un confine distensivo e tranquillo, sia che si mostri con la rabbia delle sue onde, esso è un “diverso”, sempre impenetrabile e incomprensibile. Sì, possiamo anche immergerci e vedere cosa contiene. Possiamo, anche studiarlo attraverso svariate tecnologie, ma  rimane qualcosa di estraneo, di alieno. Non esistono parole tra di noi o -quanto meno- parliamo due linguaggi troppo distanti tra loro. Questa è la prima impressione che mi colpisce quando mi affaccio da un’altura verso il mare. Una gran voglia di conoscere e di interagire, ma un senso di frustrazione nel non esserne capace.
 
Almeno, queste erano le mie sensazioni fino al recente viaggio alle Hawaii.  Adesso tutto è cambiato. La voce del mare è risultata improvvisamente udibile e comprensibile in tutte le sue sfumature. Vi racconto com’è successo.
Isola di Maui, temperatura del mare estremamente piacevole, profondità non troppo elevata. Un luogo perfetto perché i giganti del mare possano mettere alla luce i loro piccoli. Vale la pena percorrere migliaia di chilometri dall’Alaska per approdare in una “nursery” di livello eccezionale. Come dargli torto? Anche noi cerchiamo di fare lo stesso per i nostri neonati.
I giganti del mare, le balene, enormi creature che potrebbero comunque nascondersi tranquillamente al di sotto di quel confine invalicabile di cui dicevo prima. Basta un attimo per respirare e tornare nel mondo dell’incognito e del mistero. E invece non lo fanno. Le balene vogliono comunicare con la terra e usano tutti i sistemi di cui sono capaci.  Per loro quel confine è superabile e leggero. In fondo, basterebbe immergere un dispositivo acustico per sentire il loro canto dolce e variegato, che ci racconta di avventure, di speranze e di drammi. Ma non lo capiremmo comunque e il loro mondo resterebbe nascosto e inviolabile. Hanno, perciò, scelto di apparire direttamente agli abitanti della Terra e di farlo con una costanza e una passione che noi non riusciremmo mai a possedere.
Mi sono fermato per pochi minuti su un promontorio a guardare quella distesa liquida che sentivo ancora lontana e insuperabile. Bella, limpida, colorata, ma invalicabile. Improvvisamente, il mare ha parlato e si è fatto capire. Uno sbuffo altissimo, poi un altro. Una coda che si erge dritta contro il cielo blu e che percuote le onde. Un gesto ripetuto con accanimento. “Allora… mi stai sentendo? Io sono il mare e cerco di parlarti!”. E’ un caso, un momento irripetibile che non fa storia. Il confine torna alla sua anormale normalità. No, ecco un altro sbuffo e questa volta un dorso enorme e arcuato sembra uscire ed entrare al rallentatore. Non è solo, però. Insieme a quello più grande ve ne è uno più piccolo che cerca di seguire gli insegnamenti. Sì, è un cucciolo che sta imparando dalla mamma. E continuano a volteggiare per lunghi minuti.
La coda dell’occhio, però, nota altri sbuffi a destra e poi a sinistra. Alcuni lontani, altri vicinissimi. La testa mi sta girando. No, non posso sbagliarmi: il mare mi sta parlando attraverso i suoi giganti. Comincio a capire e mi accorgo che sto sorridendo. Poi entrano in scena i maschi, un po’ prepotenti e sempre desiderosi di mettersi in mostra anche se il tempo degli amori è ancora lontano. Forse vogliono insegnare ai piccoli qualcosa che non siano solo le tecniche base di movimento e di sopravvivenza. Ogni tanto fanno uscire solo una pinna, altissima come una torre. A volte solo l’enorme testa che sembra scrutare curiosa la superficie del mare o forse la terra lontana. Non posso sbagliarmi: sto assistendo a uno spettacolo che il mare mi sta regalando attraverso i suoi attori più importanti e prestigiosi.
 

Penso con disgusto e con compassione agli spettacoli artefatti che si vedono negli acquari. Com’è stupido l’uomo e come la sua ignoranza riesce facilmente a trasformarsi in cattiveria. Scaccio quel pensiero e torno agli amici del mare.
Comincio a riconoscere i vari ruoli e le varie scene che hanno preparato. Mi accorgo che spesso dove penso di vedere una sola creatura ve ne sono invece tre, quattro o anche più. Sembrano scandire le loro parti in modo da regalarmi un colloquio continuo. Poi un primo colpo di fortuna. Una mamma (è sicuramente lei) spinge fuori dall’acqua il suo erede e lo lascia ricadere in modo abbastanza rovinoso. Deve imparare anche a saltare. Qualsiasi dubbio mi lascia. Il salto non è legato a nessun bisogno fisiologico delle balene (dicono di sì, ma sono solo le solite invenzioni umane costruite per sentirci superiori). E’ un gesto di gioia, di allegria, di partecipazione e di comunicazione. Se viene insegnato ai piccoli, vuol dire che deve far parte del repertorio degli adulti. Ne ho sentito parlare, ne ho visto anche delle foto. Ma tutt’altra cosa è assistervi direttamente in un colloquio diretto, a tu per tu. Scruto il mare che ormai mi sta chiamando da molte direzioni. Trascuro molti messaggi aspettando l’urlo liberatorio. Finalmente arriva e sento una stretta nel petto. Incredibile! Una creatura di venti metri di lunghezza esce completamente dall’acqua e compie un salto arcuato e nettissimo. Sta facendo il “ponte”, l’esercizio più entusiasmante e sicuramente “inutile” da un punto di vista logico e fisico.
Non posso che considerarlo come un grido lanciato verso di me e mi accorgo che ho risposto con un “Evviva” o -forse – con un “Bravo”. Sembra che mi abbia sentito e lo ripete tre, quattro, cinque volte in una sequenza che lascia di sasso. E ogni volta, nella ricaduta, l’urto con l’acqua è un rumore, anzi un suono, che non ha confini. Guardo l’orologio. E’ passata meno di mezz’ora e sto parlando con il mare. Tra di noi tutto è cambiato, grazie alle balene e alla loro rappresentazione sempre uguale e sempre diversa. Potrò mai ringraziarle abbastanza?


 


 
La ricerca dell’Uomo

L’Uomo si era messo in cammino alla ricerca di quello che voleva, ma che non conosceva. Non aveva fretta, perché la fretta nasconde sempre la verità. Incontrò per primo un fiore dai mille petali e ogni petalo aveva un colore diverso. “Guardami Uomo. Non vedi come sono bello? In me puoi scoprire tutte le sfumature dell’eleganza, dell’armonia, della fantasia. Come puoi sperare di trovare qualcosa di più attraente e seducente?” L’Uomo lo guardò a lungo, pensieroso. Pianse anche per il suo meraviglio aspetto, ma non era abbastanza. La troppa bellezza può essere fredda e quel fiore penetrò nel suo cuore come una lama d’acciaio. Senza una parola si allontanò e continuò il suo cammino.

Davanti ai suoi occhi persi nel vuoto, apparve una farfalla. Aveva colori altrettanto splendidi, ma una leggerezza e una grazia stupefacenti. “Guardami Uomo. Non vedi come sono tenera, dolce, indifesa? La mia bellezza dura un attimo, ma chi sa coglierlo non potrà ammirare niente di più struggente. Approfitta e sarai felice”. L’Uomo ne fu scosso nel profondo. Non era solo bella, ma colpiva il cuore come una lama rovente. No, non bastava. Un soffio passeggero non riusciva a saziarlo. La commozione è un sentimento troppo breve. Continuò a vagare.

Un filo d’erba smeraldino gli bloccò il passo. “Guardami Uomo. Non sono bello, ma vivo di umiltà e semplicità. Non ho niente da offrire tranne che la mia esistenza, ma cosa c’è di meglio?” L’Uomo ne fu colpito e lo accarezzò dolcemente. Una lama di purezza trafisse il suo cuore. Subì un lungo torpore di tenerezza e comprensione. La genuinità gli ricordava quello che stava cercando, ma che non conosceva. Tuttavia, voleva di più; non gli bastava un’estasi passiva e statica. Riprese il cammino.

Incontrò una roccia scura come la notte. “Guardami Uomo. Non m’interessa né la potenza, né la ricchezza, né la saggezza. Sono qui per te. Plasmami, tagliami, deformami, sono nelle tue mani. Dentro di me ho immagazzinato tutto ciò che è accaduto. Sta solo a te scoprirlo e farlo rivivere”. L’Uomo sentì un fremito. Una lama di orgoglio gli ingigantì il cuore. Era libero di fare, di agire, di creare. Ma sarebbe stato solo e questo non lo voleva. Il suo passo lo portò lontano.

Sul sentiero apparve un drago. Immenso e maestoso, esclamò: “Fermati Uomo. Ti dono tutta la mia potenza. Ti accompagnerò e ti difenderò contro tutti e tutto. Io non temo nessuno. Sono invincibile”. L’uomo lo guardò negli occhi infuocati. Una lama di sicurezza calmò il suo cuore. Ma lui doveva lottare, rischiare, vincere con le sue sole forze. Si mosse e non si voltò più indietro.

A terra scorse un frutto magnifico, enorme e profumato. “Assaggiami Uomo e ne sarai rapito. Riesco a trasmettere tutti i gusti più raffinati. Devi solo cogliermi e ne sarai incantato”. L’uomo addentò quella meraviglia. Stupendo. Tutte le sfumature del dolce penetravano come una lama succulenta nei suoi sensi, ma non colpivano il cuore. Riprese il cammino, pensando alle esperienze di quel giorno, di quella vita, di quella era.

Aveva conosciuto la bellezza, l’amore, la tenerezza, la potenza, la delicatezza, l’orgoglio, la sudditanza. Vivevano però isolati. No, l’Uomo cercava altro, quello che voleva, ma non conosceva. E non l’aveva ancora trovato.

Mentre la sua mente vagava come il suo passo, sentì un fruscio. Alzò gli occhi e vide quel tronco contorto, stanco e deforme. Vi era potenza, saggezza, ma anche tenacia e umiltà. Non nascondeva i suoi anni e le sue sofferenze. Poi vide anche le foglie. Piccole, chiare, di una bellezza semplice e disarmante. Erano discrete e appena accennate. Dimostravano che non vi era bisogno di dare più del necessario. Non esibivano niente, facevano solo il loro lavoro. Poi vide i frutti. Anch’essi erano minuti. I loro colori li mimetizzavano tra le foglie. Non ostentavano grandezza e bellezza, ma sapevano molto bene qual era il loro compito.

L’albero non parlò, né le sue foglie, né i suoi frutti. Fu l’Uomo a parlare. “Guardami albero. Tu non vuoi dimostrare niente, ma hai grande saggezza. Le tue foglie sono misere, ma ti fanno sembrare un mare increspato dalle onde. I tuoi frutti si nascondono, timidi, ma recepiscono ogni vibrazione della Natura. Tu sai tutto, hai tutto, ma non chiedi e non offri niente. Non hai bisogno di me, ma mi hai attratto con violenza. Una lama di completezza mi ha trafitto il cuore e la mente. Non posso lasciarti. Insegnami qualcosa!” 
 

L’albero non rispose, ma un piccolo frutto cadde nella mano dell’Uomo. Gli venne spontaneo schiacciarlo e ne uscì l’anima dell’albero, della Natura, dell’Universo. Il suo pianto era luminoso come la luce delle stelle, il suo colore non aveva confini. L’Uomo lo portò alla bocca e quella lacrima non fu una lama, ma gli cambiò il cuore e la mente. In una goccia aveva trovato quello che voleva, ma non conosceva. E avrebbe dovuto lavorare duro, senza sosta per comprendere e assimilare ciò che non gli era stato offerto, ma che non poteva più lasciare. L’Uomo si fermò e iniziò la sua impresa.

Solo di notte e con la Luna Piena scorse ogni tanto un sorriso in quel tronco contorto e stanco, mentre le foglie intonavano il loro canto senza inizio e senza fine.





Una foglia nel vento
Uli e Iva erano due simpatiche e giovani olive nate in Marocco. Sapevano già benissimo quale sarebbe stata la loro fine: schiacciate insieme a tante sorelle fino a diventare olio. L’olio è sempre e comunque una grande meraviglia, ma nel loro paese la grande qualità rimaneva una chimera. Era sempre stato così, eppure Uli e Iva non volevano accettare la realtà dei fatti. Desideravano ardentemente provare qualcosa di nuovo, conoscere amici lontani, sapere tutto dei compagni di altre razze e paesi. Il loro colore non lasciava dubbi, ma avevano sentito dire che non esistevano problemi razziali nelle altre nazioni del mondo. Un po’ ovunque c’erano olive di tinte diverse, che convivevano senza nessun pregiudizio di sorta.
Come avrebbero voluto essere nate da alberi dai nomi celebri e importanti, la cui fama era giunta fino a loro per il nettare sopraffino che sapevano produrre. Molte volte, nel riposo notturno, avevano entrambe la stessa visione, ma si svegliano tristi e deluse quando la brezza del mattino le faceva vibrare. Era stato solo un sogno, e la varietà del loro albero, benché benevolo e gentile, era pur sempre una Picholine Marocaine, Zit per gli amici, la stessa che si trovava ovunque in Marocco. In mezzo a quel turbinio di emozioni, speranze e delusioni, le due amiche stavano pian piano “maturando”: se volevano fare qualcosa, dovevano farlo subito! Non sarebbero passati molti mesi prima del fatidico momento della raccolta.
La fortuna venne loro incontro. Quel giorno si era sollevato un vento fortissimo che faceva inchinare perfino il vecchio e contorto genitore. Uli e Iva danzavano e dondolavano, dandosi colpi e faticando perfino a mantenere l’orientamento. Proprio allora ebbero l’idea: invece di cercare di stare ancorate al ramo che le proteggeva, iniziarono ad assecondare il turbinio del vento. Dettero esse stesse strattoni nella direzione in cui soffiava, fino a sentir cedere la presa. L’albero le ammoniva e le sgridava, ma Uli e Iva non lo sentivano più, perse nel loro folle sogno. Alla fine furono libere e caddero al suolo, rotolando giù per la piccola collina e fermandosi vicino a dei grossi cespi di datteri accumulati sotto le alte palme. Ormai quello che era fatto era fatto e non potevano più tornare indietro. Non c’era tempo per pentirsi della pazzia che avevano compiuto e che le aveva trascinate verso il mistero e probabilmente verso una fine miserabile. Calpestate e schiacciate prima che potessero regalare il loro prezioso succo.
Si guardarono intorno e chiesero aiuto al cespo più vicino. Furono nuovamente fortunate. Era buono e gentile e con gran fatica riuscì a rotolare coprendole con la sua famiglia di frutti, fino a nasconderle nel suo interno. Appena in tempo. Pochi secondi dopo i datteri, ed esse con loro, furono gettati in una cassa. Poi caricati su un camion e infine su una nave in partenza per la Sicilia. La Sicilia, l’Italia, la patria del grande olio! Sembrava un sogno, ma questa volta era realtà. E proprio dall’isola del grande vulcano sbuffante iniziò il loro viaggio. Furono scaricate nel porto di Trapani e rotolarono fuori dall’amico cespo, dopo averlo ringraziato a lungo, augurandogli una buona fortuna. Ora dovevano agire da sole.
Si, ma come? Uli e Iva erano sveglie e intelligenti e, guardandosi attorno, pensarono a tutte le possibili soluzioni. Alla fine la loro attenzione venne catturata da un albero gigantesco e dalle sue grandi foglie che cadevano a terra veleggiando, trasportate da un debole venticello. Erano così grandi e ampie che bastava un soffio d’aria per farle sollevare e portarle anche molto lontano. Valeva la pena tentare. Riuscirono a raggiungerne una che sembrava particolarmente vivace e capiente e la interrogarono: “Vuoi portarci con te in giro per l’Italia? Ti faremo conoscere posti meravigliosi e boschi e pianure e tanti alberi grandi e contorti … sarà magnifico.” La foglia pensò a lungo, guardò l’albero da cui era caduta prematuramente e infine rispose: “Perché no! Ormai sono stata abbandonata e finirei schiacciata o nelle pagine di qualche quaderno. Sono con voi. Salite e partiamo!”. Dovettero aspettare solo pochi minuti e poi un soffio più impetuoso sollevò le tre amiche a parecchi metri d’altezza. Il viaggio era cominciato e le due olive si misero al posto di comando per dirigere il simpatico mezzo di trasporto verso la direzione voluta.
La prima tappa fu molto vicina. Toccarono terra nei pressi di una bellissima montagna che dominava il mare e che era incoronata da una splendida antica città: Erice. Erano circondate da ulivi, e si sentivano timorose e imbarazzate al cospetto di alberi tanto famosi. Alla loro destra riconobbero una coltivazione di Cerasuola, a sinistra di Nocellara e poco più in là di Biancolilla. Che meraviglia! Si sentivano molto importanti anche loro tra tante celebrità. Trovarono il coraggio e chiesero informazioni alle nobili compagne che pendevano dai rami. Queste dimostrarono grande cordialità e non si fecero pregare. Impararono così che uno dei grandi pregi delle olive, di qualsiasi albero esse siano, è quello di essere estroverse, amichevoli, pronte a unirsi con sorelle di razza diversa.
Seppero anche che l’olio di quelle parti era forte, austero, maschio come il gigantesco vulcano che dominava l’isola. Il sapore era intenso, piccante e duraturo. L’amica foglia cominciava a scalpitare per l’impazienza e le due olive decisero che era tempo di ripartire. Salutarono con enfasi le nuove compagne e si sistemarono sul loro velivolo. Che bell’incontro avevano avuto e che simpatiche le nuove amiche! Ma non era il posto per fermarsi. Dovevano imparare ancora troppe cose e vedere molte altre zone. Il vento, proveniente dal mare, le sollevò in fretta ed esse sorvolarono tutta l’isola, con i suoi tesori di arte, storia e cultura. Non avevano tempo di visitare altri uliveti, ma li videro chiaramente dall’alto.
Giunsero in terraferma e scesero nei pressi dell’antica città di Lamezia. Altri ulivi, altre amiche, altri oli. I loro sapori erano molto fruttati, il colore verde intenso, il sapore delicato. Quasi tutti gli alberi appartenevano alla varietà Cariolea, di origine vetusta. Proseguirono verso nord, ben sapendo che avrebbero perso qualcosa, ma in quella terra così ricca non si poteva conoscere tutto. Dovunque guardassero, vedevano uliveti e sentivano le loro compagne che scuotendo le foglie le salutavano con un intenso fruscio portato dal vento. Dall’alto videro la Puglia, e scorsero decine e decine di chilometri di vecchissimi ulivi contorti con le braccia scheletriche protese verso il cielo. Enormi distese di alberi i cui nomi gli giungevano da lontano: Cellina, Ogliarola, Coratina, Peranzana, Garganica, e altri ancora. Impossibile ricordarli tutti. Benché in preda ad una smania indicibile di conoscenza, non potevano fermarsi a loro piacimento, vincolate com’erano alla direzione e alla forza del vento. Furono trascinate verso una regione ricca di vulcani antichi e recenti: la Campania.
La foglia doveva riposarsi un poco e loro stesse avevano voglia di scambiare nuove impressioni e conoscere nuove varietà. Videro una piccola isola che sembrava una gemma incastonata nel turchese. Manovrando con destrezza, riuscirono a raggiungerla. Che meraviglia le rocce che cadevano in mare e gli ulivi che si aggrappavano un po’ ovunque. Pensarono alla fortuna di quelle compagne che ogni tanto potevano tuffarsi direttamente in quelle acque così trasparenti. Conobbero la Minucciola e la Rotondella. Il loro olio variava dal verde al giallo paglierino, il fruttato del profumo si trasformava in un sapore leggermente piccante e amarognolo. L’origine vulcanica di quella terra si rispecchiava nel carattere delle olive. Erano estroverse, allegre, infuocate nei discorsi. Sembravano esse stesse sprizzare ancora fuoco e fiamme.
Uli e Iva si accorsero con sorpresa e con grande piacere che il loro viaggio era ormai noto alle nuove amiche. La voce si era sparsa, andando di fronda in fronda, di albero in albero, di uliveto in uliveto. E il vento trasportava velocemente l’informazione. Dovunque fossero andate, d’ora in poi, le avrebbero aspettate con gioia e allegria. Lasciarono con tristezza quell’isola fantastica e quei colori da favola. Malgrado fossero giunte in una specie di paradiso terrestre, sentivano che non dovevano e non potevano fermarsi. La strada era ancora lunga.
Il vento non mancava e in breve lasciarono la Campania e passarono sopra una città meravigliosa, la capitale di quella nazione così ricca di ulivi celebri e antichi. Roma si estendeva sotto di loro, con i suoi monumenti e il suo placido fiume che la tagliava in due senza recarle alcun dolore. Anche in quella nuova terra gli ulivi non mancavano e le due amiche non poterono non fermarsi vicino alle antiche tombe degli Etruschi. Sembrava di respirare un’aria arcaica. La natura stessa pareva stanca di anni, secoli e millenni di cultura, storia e civiltà. I colori erano quelli di un continuo tramonto e la pace regnava sovrana. Le piccole città sorgevano su baluardi di roccia tufacea e le case facevano un tutt’uno con le pareti verticali modellate dalla paziente opera della Natura.
Fu una pianta in particolare che le colpì: era enorme e antica, ma ancora vigorosa e bellissima. Quando furono vicine apparve ancora più gigantesca: un vero capolavoro. Le sue olive dal portamento austero e solenne, parlavano con saggezza e dignità. C’era chi diceva che il grande vecchio avesse forse visto da fanciullo gli antichi re romani. Probabilmente era solo una leggenda, ma di sicuro la sua età superava i mille anni. Era veramente enorme. Nove metri di circonferenza, eppure produceva ancora dodici quintali di frutti all’anno. Lo chiamavano l’Ulivone nel pittoresco villaggio di Canneto Sabino. Uli e Iva ebbero perfino paura di parlare al più grande e vetusto ulivo dell’intero continente. Anche se solo per quella visione il loro viaggio avventuroso aveva avuto uno scopo. Ne era sicuramente valsa la pena.
Pensarono per un attimo di fermarsi in quella terra così aspra e tranquilla, ma era ancora presto e salutarono con deferenza il gigante verde. L’Italia con i suoi ulivi scorreva sotto di loro. Videro bellissimi laghi circolari e poi una montagna quasi perfetta nella sua forma a cono. Sicuramente anche lì il fuoco sotterraneo aveva modellato e sagomato la superficie. Planarono lentamente alle falde del vecchio vulcano, ora addormentato e protetto da una coperta di fitte foreste. Sebbene molto in alto, perfino in quel luogo sorgevano uliveti. Uli e Iva ne furono sorprese e si fermarono. La loro curiosità fu presto soddisfatta. Appartenevano alla varietà Seggianese ed erano in grado di resistere con vigore ai freddi inverni del Monte Amiata. Le olive erano un po’ rudi e di poche parole, ma schiette e sincere. Sapevano di essere una piccola comunità rispetto alle altre compagne toscane, ma non avevano sensi d’inferiorità. Anzi, erano convinte di produrre uno dei migliori oli in assoluto, dai tratti decisi e piccanti, senza mezze misure.
Uli e Iva, abituate ai caldi africani, cominciarono ad avere freddo: l’estate era già terminata. Chiedendo scusa, ripresero il volo. Solo allora si accorsero che la loro amica foglia, così gentile e disponibile, stava ingiallendo. Aveva cercato di nasconderlo alle due olive, ma si vedeva che cominciava a soffrire. Volava a bassa quota e ogni tanto eseguiva manovre non del tutto controllate. A Uli e Iva spiacque molto e si sentirono in colpa: forse l’avevano stancata troppo senza curarsi di lei, prese com’erano dai nuovi incontri che le emozionavano a non finire. Ma la foglia, oltre che gentile, era molto saggia e comunicò con serenità che quello era il suo destino. Ancora pochi giorni e poi si sarebbe lentamente sgretolata. Aveva comunque vissuto alla grande, visitando luoghi che mai da sola avrebbe osato sfidare.
Uli e Iva, profondamente commosse, consigliarono alla loro amica di cercare di assecondare il vento il più possibile per risparmiare le forze. Anzi, se voleva, erano disposte a fermarsi in qualsiasi punto lei avesse desiderato: in fondo avevano scoperto il mondo grazie a lei. Il rifiuto della foglia fu deciso e irrevocabile. Voleva andare fino in fondo e consegnare le due amiche al territorio più idoneo. Con malcelata fatica si rimise in volo e sorvolò il Chianti con le sue vigne e i suoi ulivi radiosi. Improvvisamente, di fronte a loro, si parò minacciosa una catena montuosa cupa ed altissima. Erano gli Appennini tosco-emiliani che sfidavano, incuranti di tutto e di tutti, i duemila metri. Niente da fare: per proseguire bisognava valicarli, ma la battaglia era veramente senza speranza.
Piegarono verso sinistra, in vista del mare, con manovre sempre più titubanti e rischiose. Fu una dura lotta contro un vento impetuoso che faceva scricchiolare la struttura della foglia, ormai di un colore tendente al bruno. Uli e Iva non pensarono mai alla loro vita, ma solo a quella della loro fedele compagna. La rincuorarono e la spronarono nei momenti più difficili; la osannarono e l’acclamarono nei pochi istanti di quiete. Alla fine, però, Il mare fu sotto di loro, bloccato improvvisamente da cime acuminate come coltelli e bianche come la neve. Sembrava che volessero trafiggere la foglia quasi con rabbia. Ma era solo un’impressione, quelle montagne avevano sofferto per secoli, subendo l’opera impietosa dell’uomo. Profonde spaccature, profili levigati come specchi avevano scavato ferite profonde che ne mettevano a nudo il loro cuore bianco e lucente. Erano tristi nel loro splendore e sprigionavano un senso di forza arcaica e mai sopita. La foglia era alla fine, dovevano fermarsi assolutamente. Pazienza, non erano riuscite a completare la loro splendida avventura, ma era comunque stata una magnifica conquista.
Tra la bruma del mattino, videro che una timida e popolata striscia di pianura separava la calma del mare dalla rabbia dei monti. Case, cemento, urla e frastuono. Peccato, non poteva esistere posto peggiore per finire il viaggio. A mano a mano che scendevano in preda alla disperazione e alla tristezza, li videro ai bordi della grande macchia grigia di cemento che ricordava un’ameba gigantesca che tutto ingoiava. Sembravano giganti sconfitti e imprigionati. Titani in balia della sfrenata corsa senza ragione dell’uomo. Ma ancora impavidi e vitali: non volevano e non dovevano essere sconfitti.
La foglia, ormai allo stremo, cominciò a cadere verso terra: non ce la faceva più. Logora, stanca e scheletrita ebbe un mancamento e piombò senza più forze, verso un quadratino verde. Un miraggio? Uno scherzo dell’immaginazione? O Forse l’ultimo, disperato, regalo della foglia? L’impatto non fu violento: Uli ed Iva ne uscirono sane e salve. La loro amica, però, stava morendo.
Ridotta a uno scheletro ramificato si stava disintegrando sotto la brezza che soffiava soltanto in quel quadratino di paradiso. Il suo ultimo sussurro fu un “grazie” diretto alle due olive. Poi si spense e la sua polvere si perse nel vento. Uli ed Iva stettero molti minuti in silenzio, piangendo lacrime di olio. Questo fenomeno inatteso le fece tornare alla realtà. Erano ormai mature: anche per loro si avvicinava la fine. Si guardarono intorno in preda a sgomento e paura, ma si videro circondate da alti fusti commossi che stavano in silenzio per non disturbare. Le due olive li salutarono con rispetto e rinnovata fiducia. Furono accolte con gioia ed entusiasmo. Era una piantagione di Quercetana e le compagne che pendevano cariche di succo dai rami le accolsero con spontanea amicizia, felici di averle tra loro. Stava cominciando la raccolta e poi la pigiatura. Senza bisogno di inutili parole, Uli e Iva furono abbracciate dalle nuove amiche e tutte insieme riempirono le ceste, chiacchierando e ridendo.
Era la fine, ma una fine allegra e spensierata. Le due olive, nate così lontano, dettero il loro piccolo contributo per produrre un olio magnifico, che aveva mille fragranze ma che profumava soprattutto di storia e cultura. Anche lui rischiava di morire, a causa della stupidità umana. Ma non tutti quegli esseri a due gambe erano così e i vecchi ulivi speravano ancora.
L’ultimo sguardo di Uli e Iva fu per i giganti di roccia feriti che proteggevano i pochi gruppi di ulivi che si difendevano stringendosi tra loro, mutilati severamente per opera dell’uomo, sempre egoista e mai rispettoso del suolo che lo aveva nutrito per secoli e secoli. Mentre calava sul mare, Il Sole mandò un saluto particolare, un bagliore improvviso e inaspettato. Le pareti di marmo sembrarono diventare d’argento: un immenso lago argenteo che si alzava in verticale verso le nuvole violette che si spostarono per accoglierlo.
Anche Uli e Iva si fusero in un lago, splendente e dorato, condividendo una gioia immensa.


GRAZIE E VINCENZO ZAPPALA' E A ALDO VAJRA PER LA PARTECIPAZIONE.

martedì 20 maggio 2014

La relazione della Prof. Cristina Cassina su Moby Dick di Melville



Parlare di un classico come Moby Dick o la balena ha i suoi vantaggi ma anche parecchi svantaggi.
Parto dai vantaggi. Il più ovvio è che si può contare su qualche conoscenza a riguardo: se non tutti avranno letto il libro di Herman Melville, in molti avranno visto il film di John Huston, interpretato da uno splendido Gregory Peck, oppure ne avranno almeno sentito parlare. Per cui non c’è necessità di ripercorrere l’intera storia, né si corre il rischio di svelare la fine tragica, immagino a tutti nota.

 


Rinfreschiamo però qualche elemento. Il romanzo è narrato in prima persona da Ismaele, un’anima inquieta e girovaga che, per sfuggire alla propria malinconia, decide di imbarcarsi su una nave baleniera. Ma il «Pequod», la nave che sceglie nel porto di Nantucket (Capo Cod, nel Massachusset) e che sceglie perché gli appare più robusta, è affidata a un comandante molto particolare: il vecchio capitano Achab a cui Moby Dick, una balena bianca, nell’ultimo viaggio ha strappato via una gamba. Il «Pequod» si trova quindi sotto la guida di un capitano di grande esperienza ma accecato da un disegno monomaniacale: uccidere la balena albina. Accanto a lui, dapprima ignari di questo progetto, un equipaggio di trenta uomini in cui si distinguono tre ufficiali – il quacchero Starbuck, il gioviale Stubb e il giovanissimo Flask – e tre ramponieri a cui spetta di lanciare il primo arpione nell’attacco alla balena.
Il vantaggio maggiore tuttavia è un altro, e sta nella simpatia per la balena: un animale portentoso, oggi non più cacciato come un tempo, per fortuna, ma ammirato e in molti luoghi protetto. Un animale di alti natali: fu creato il quinto giorno, secondo la Genesi, e fu strumento di Dio per raddrizzare il riluttante Giona (Giona nella pancia della balena, assai prima di Geppetto). Un animale da sempre associato ai tratti della sovranità [ed è qui che vedo il trait-d’union con i vini della Tenuta Mariani, vini che aspirano alla nobiltà, mi si dice, mentre sul «Pequod» più che altro si beveva gin e ruhm].
L’associazione con la sovranità, d’altra parte, non è una prerogativa dei tempi d’oro della monarchia, quando i sovrani erano consacrati (unti) con olio di balena. Per cogliere questo aspetto dotiamoci di un elemento tassonomico: l’ordine dei cetacei si divide in due sotto ordini, i misticeti, la balena con i fanoni, e gli odontoceti, cioè i cetacei muniti di denti, come il capodoglio, il protagonista del nostro libro. Nei rari momenti di ozio, i marinai delle baleniere erano soliti intarsiare i suoi denti d’avorio per poi venderli per qualche dollaro. Nel tempo, sono divenuti oggetti preziosi e ricercati. E poiché il presidente Kennedy li collezionava, Jacqueline gliene aveva comprato uno per il natale del ’63, un natale che il presidente non avrebbe visto. Ebbene, quel dente, Jacqueline lo fece deporre nel feretro, quasi a simboleggiare un resto di regalità al tempo della sovranità popolare.
Veniamo alla parte difficile. Se contare su qualche conoscenza del libro è già un bel punto di partenza, una partenza in discesa, resta che affrontare Moby Dick comporta molti svantaggi. A partire dal fatto che, in quanto capolavoro indiscusso della letteratura americana, è accompagnato da una saggistica enorme e in continua crescita.
Inoltre, nella sua indiscutibile bellezza, il testo è carico di simboli e di metafore, il più delle volte con ampi rimandi biblici e mitologici. Non solo. Una bella parte è un vero e proprio trattato di cetologia (ma con quale fantasia, quale inventiva …). E non alludo solo alla descrizione del tema-balena, cioè l’esame anatomico delle sue parti in un serrato confronto con le nozioni dei naturalisti, o dei luoghi ad essa dedicati nei testi sacri e in letteratura; intendo anche l’accuratissima descrizione delle fasi della caccia e della lavorazione.
Difatti, per darne un’idea sintetica, potrei dire che Moby Dick è il prodotto dell’incrocio di più linee spazio-temporali.
La principale è la linea romanzata, cioè la storia del «Pequod» e del suo equipaggio. E non è certo una linea retta, casomai una linea curviforme come lo è la rotta di una nave attrezzata per un viaggio di quattro anni in giro per il mondo: partita da Capo Cod, un «ricciolo di terra» che si proietta nell’oceano Atlantico, doppia il Capo di Buona Speranza, naviga lungo l’oceano Indiano, s’inoltra nello Stretto della Sonda, tra Sumatra e Giava, fino a raggiungere le acque equatoriali dell’oceano Pacifico: proprio là dove tutto si compie. E sempre sulla linea romanzata s’infilano, come perle di una collana, le storie che toccano ora i componenti dell’equipaggio, ora gli incontri con altre navi baleniere: ed ogni nave ha una sua vicenda, il suo fardello di tragicità, un nome evocativo: la «Gioia», «Bocciol di Rosa», lo «Scapolo», «Rachele»...
Su questa linea principale si va a innestare la trattazione colta, erudita, o meglio le molte trattazioni. Le quali, come una sorta di segmenti spazio-temporali, intersecano e interrompono in più punti la storia del «Pequod». Si tratta di una serie di incisi che producono un continuo andirivieni nella religione, nella storia, nella cultura  e nella tecnica occidentale – soprattutto occidentale, ma non solo – formando un secondo tragitto che va a pescare nelle esperienze umane più diverse, spesso attraverso il dispositivo della riflessione attribuita a singoli personaggi. Il tutto condito con allegorie a non finire e meditazioni davvero profonde, anche proto ecologiste: come nel capitolo in cui il narratore, avendo presente la coeva strage dei bufali, si chiede se il capodoglio non possa fare una fine altrettanto ingloriosa. (p. 483) [cito dall’edizione Adelphi 1987, la traduzione è di Cesare Pavese].
Insomma, per queste e molte altre ragioni ho scelto di seguire una rotta prudenziale, appuntandomi, in prima battuta, sui nomi. Il che non è poco poiché permette di sollevare qualche velo.
«Chiamatemi Ismaele»: l’incipit, la frase più celebre della letteratura americana, suona subito ambiguo, se non misterioso. Ismaele era figlio di Abramo e della schiava Agar, ma quando Sara dà alla luce Isacco per gelosia chiede che vengano scacciati. Errano così nel deserto e sarebbero senz’altro periti se non fossero stati salvati da un angelo. Senso di abbandono? Nostalgia? Queste ipotesi sono state avanzate. Non solo. L’Islam, riprendendo il racconto biblico, vede in Ismaele il progenitore del popolo arabo. La scelta di questo nome per l’importantissima figura del narratore può quindi leggersi come un’apertura al mondo dei pagani. E difatti la storia narra anche di un’amicizia fraterna tra il selvaggio Quiqueg, il primo ramponiere, e Ismaele.
Anche Achab, il nome del capitano, è un nome biblico (Primo Libro dei Re) ma questa volta s’iscrive nella maledizione. In Moby Dick vi è solo un accenno al passo vetero testamentario, ma la pennellata è davvero calzante: e non solo perché questo re malvagio era un valente guerriero, soprattutto perché dispiacque al Dio di Israele: l’Achab biblico aveva tentato di introdurre il culto di Baal, dio fenicio – guarda caso – della Tempesta.
Il nome della barca, il «Pequod», è invece tratto da un altro orizzonte. Qui Melville vuole rendere omaggio alla tribù degli indiani Pequod, un tempo dominatori dell’attuale New England e primi grandi cacciatori di balene.
Delle balene a noi interessa una in particolare, la balena bianca, ovvero Moby Dick. Su questo nome si è scritto molto, mi pare senza risolvere gran che. Invece di lanciarsi in congetture, guardiamo alle notizie del tempo, le stesse cui Melville poteva attingere. Sappiamo che i capodogli stavano reagendo a decenni di caccia intensa diventando più aggressivi, attaccando lance e addirittura navi. Sappiamo che l’idea del racconto viene anche dalla notizia dell’abbattimento di un’enorme balena che aveva terrorizzato i marinai. Sappiamo altresì che uno dei capodogli più minacciosi era albino e aveva un nomignolo, Mocha Dick: «un vecchio maschio, di mole e forza prodigiose» (J. Reynolds, articolo del 1839) avvistato più volte di fronte all’isola cilena di Mocha, che si diceva avesse ucciso più di trenta uomini. Quindi, per quanto attiene al nome, conviene prenderlo per quel che è: un nome leggermente modificato, e nulla più.
Da notare invece c’è un’altra cosa. Melville, nel riferirsi alle balene, spesso usa il termine «leviatano». Non è il primo a farlo, né l’ultimo (Philip Hoare, nel 2009, ha titolato Leviatano, ovvero la balena un saggio di grande successo). Ma il punto è un altro. A partire dal 1651 – esattamente duecento anni prima la pubblicazione di Moby Dick – il termine Leviatano indica anche lo Stato hobbesiano. Thomas Hobbes e Melville prendono spunto da libro di Giobbe dove Dio, parlando dalla procella, ricorda di aver creato due mostri, Behemoth e Leviathan. E sebbene non sia per nulla pacifico di quali animali si tratterebbe – alcuni individuano il leviatano nel coccodrillo, altri nella balena – ciò che interessa è che di esso si dice: «fu fatto per non temer nessuno», «è re su tutti i figli di fierezza».
Ora, in Hobbes, la grandezza del Leviatano sta nel fatto di essere una costruzione artificiale, un prodotto degli uomini. Non così per Melville. Il suo utilizzo è un ritorno al passato, alla radice etimologica del termine cetaceo, la quale deriva dal greco kétos: mostro marino, o balena. E la differenza non è di poco conto: se Melville, come Hobbes, insiste sugli attributi di potenza e di superiorità, resta che per lui il leviatano è una creatura di Dio, non degli uomini. Per questo la caccia di Achab appare blasfema – un agire che è un oltraggio a Dio – come nota in più luoghi il primo ufficiale Starbuck.
Eccoci giunti all’equipaggio del «Pequod», alla sua articolazione piramidale.
Sopra tutti, nella gerarchia navale, stanno Achab e i tre ufficiali. Sono tutti americani, perché provengono, se non da Nantucket, quantomeno da Capo Cod.
Tra loro e la ciurma ci sono i ramponieri che, in una baleniera americana, sono considerati alla stregua di sotto ufficiali: dormono infatti a poppa, vicino alla cabina del capitano. Chi sono costoro? Quiqueg, il polinesiano tutto tatuato con cui Ismaele, si è detto, ha stretto amicizia; Tashtego, un indiano di razza, «dalla capigliatura lunga e sottile», erede dei guerrieri «cacciatori della grande Alce»; Deggu, «un gigantesco negro selvaggio, nero come il carbone, con un passo leonino» (p. 151).
Tutti pagani e, in quanto pagani, strumenti eletti per lo scellerato disegno di Achab. Difatti è a loro che si rivolge quando il fabbro finisce di forgiare la lama arroventata con cui il capitano si illude di abbattere Moby Dick. Per terminare il lavoro, il fabbro chiede una botte d’acqua. Ma Achab ha in mente ben altro. Chiede il loro sangue, un sangue pagano. E il senso di sfida, di oltraggio, risuona ancor più terribile nella formula che suggella lo strano rito:

«Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli!»
urlò Achab smaniando, mentre il maligno ferro divorava sfrigolando il sangue battesimale. (p. 509)

Quanto al resto dell’equipaggio, la ciurma, è variegatissimo. C’è un punto del racconto in cui i marinari intonano un coro e, come in una sequenza cinematografica, sfilano uno ad uno di fronte al lettore. L’autore non ne dice il nome, ma da dove provengono: da Nantucket, certo, e poi dalla Francia, dall’Islanda, dalla Sicilia, da Malta e dalle Azzorre, dalla Cina e da Tahiti, dal Portogallo, dalla Danimarca, dall’Inghilterra, da San Jago e da Belfast… La ciurma, insomma, è un guazzabuglio di pagani e cristiani, un’accozzaglia di «rinnegati e reietti» – sono termini di Melville – molti dei quali portano a bordo del «Pequod» storie di dolore, di abbrutimento fisico e morale.
Ma non importa. Ciò che è certo è che le simpatie di Melville vanno proprio a tutti loro, come manifesta Starbuck, mentre medita sulla grandezza dell’Uomo, sulla sua meravigliosa dignità:

Ma questa augusta dignità di cui parlo non è la dignità dei re e degli abbigliamenti … [è] quella democratica dignità che, su tutti, irradia senza fine da Dio, da Lui! Il grande Dio assoluto!  Il centro e la circonferenza di ogni democrazia! (p. 147)

Una tale celebrazione della democrazia – americana, ovviamente – ci porta dritto alle idee politiche dell’autore e, ancor prima, alla domanda che finora volutamente ho eluso. Perché Melville ha racchiuso la storia del «Pequod» in un trattato a tutto tondo sulla balena? Quale progetto vi è dietro? E ancor prima, chi era Melville?
Nasce a Manhattan, Herman Melville, nel 1819. Ed è figlio di un ricco commerciante e di un’austera calvinista. I nonni avevano combattuto per l’indipendenza del suo paese: uno, come generale, l’altro prendendo parte al Tea Boston Party. Il padre gli parlava dei lunghi viaggi in mare, delle tempeste, delle balene. Questo per dire che patriottismo, spirito di ribellione, amore per il mare scorrono da subito nelle sue vene. La morte del padre e i problemi economici lo costringono a cercarsi un lavoro. Prova senza successo a impiegarsi, poi s’imbarca; prima su un mercantile, poi su navi baleniere, con tanto di una parentesi sulle isole Marchesi in mezzo al Pacifico, tra popolazioni cannibali. 
La storia di Ismaele, per molti aspetti, ricalca perfettamente la biografia dell’autore. Per cultura e posizione sociale Melville avrebbe potuto aspirare a un posto da sottoufficiale. Invece sceglie di imbarcarsi come marinaio semplice: «per via del sano esercizio e dell’aria pura che si gode sul ponte di prora» spiega Ismaele, mentre «il commodoro sul cassero», che crede di essere più importante, «riceve di seconda mano l’aria dai marinai del castello». (p. 41).
Dopo anni di navigazione rientra nel New England per dedicarsi alla scrittura. Lo può fare perché sposa una ragazza di buona famiglia, non certo grazie al suo lavoro: mentre i primi racconti conoscono un qualche successo, Moby Dick sarà un grande fiasco. E se oggi quest’opera è considerata uno dei capolavori dell’Ottocento lo si deve a una riscoperta tardiva, non prima degli anni Venti del Novecento.
Ribelle, patriota, viaggiatore, Melville è anche un autore ambizioso e allo stesso tempo pratico. Moby Dick è senz’altro la trasposizione letteraria di un’esperienza personale, ma è anche frutto del progetto di scrivere un libro commerciale, un libro che si potesse vendere bene. E non è un caso che l’idea gli sia venuta durante un triste soggiorno londinese, alla disperata ricerca di un editore. Pare che tutt’a un tratto abbia avuto l’ispirazione: dopo tanti «no, grazie», il suo prossimo lavoro avrebbe spiazzato il mercato celebrando lo spirito americano, l’avventura, il piglio eroico dei suoi connazionali. E quale miglior soggetto della lotta contro i titani del mare che proprio gli abitanti di Capo Cod avevano perfezionato?
Ma i piani spesso vanno rifatti da capo se il destino s’intromette. Quando il libro è quasi terminato, ecco l’incontro con Nathaniel Hawthorne, divenuto celebre grazie al successo di La lettera scarlatta (1850). L’effetto è esplosivo: quella che avrebbe dovuto essere una «descrizione romantica, immaginaria, piana e di facile lettura della caccia alla balena», secondo le parole dell’autore, si trasforma in Moby Dick: opera terribile e maledetta.
Melville si ributta dunque a capofitto nel lavoro, divora libri su libri: ai più recenti trattati di cetologia affianca la rilettura delle opere di Shakespeare, cioè la morale e la politica, i saggi di Ralph W. Emerson sulla natura come luogo di rivelazione del soprannaturale, Frankestein di Mary Schelly, come dire l’orrore, i racconti di Thomas Carlyle imbevuti di sogni e possessioni demoniache … e molti altri ancora.

 

Mostri, angosce, demoni, morale e politica finiscono nello stesso calderone: interrompono, allargano, in ogni modo stravolgono il progetto originale. E tutti quanti precipitano nella redazione finale. Che così diventa il contenitore di molte cose, dove ciascuno può appuntare lo sguardo dove meglio crede. Anche per questo le interpretazioni fioccano.
Per alcuni la dissennata caccia del capitano Achab assume i tratti di un dramma in cui l’uomo, nel folle tentativo di trascendere i propri limiti, ingaggia una lotta contro il soprannaturale e condanna se stesso e i suoi seguaci alla morte.
Per altri è l’epopea di un popolo multienico, dilaniato dal problema dello schiavismo (quanti passi su questo tema nell’opera …) e proiettato nella seconda rivoluzione industriale. Quando Moby Dick esce, nel 1851, la lucrosissima industria baleniera è ai suoi massimi splendori (tra breve arriverà il declino, ma nessuno può saperlo), ma con la scoperta dei giacimenti californiani è già scoppiata la febbre dell’oro: il paese, lo si sente, naviga verso nuove espansioni economiche e demografiche
Per altri, al contrario, l’estenuante lavoro sul «Pequod» – una baleniera è una fucina che non si ferma mai – altro non sarebbe che l’anticipazione della fabbbrica fordista, delle sue molteplici alienazioni.
E ancora: secondo alcuni il cuore del romanzo sarebbe lo scontro tra Achab e la balena (Dio o diavolo? L’orrore o il sublime?), per altri tra Achab e Starbuck (la follia contro la ragione), per altri ancora tra Achab e la ciurma. Ma qui fermo, perché è alla questione politica che mi preme tornare.
C’è anche chi, nel «Pequod», ha visto la metafora dello Stato. Gli antecedenti di certo non mancano; la metafora nave Stato è presente fin da Platone, se non addirittura da prima, ed è stata ripresa infinite volte. Se non che, solitamente, essa simboleggia il valore del capitano, serve cioè per mettere in risalto la figura di colui che governa la nave.
Il movimento di Melville è diverso (per lo meno in questo lavoro, perché altra cosa sono Benito Cereno e Billy Budd, due racconti tardivi). Moby Dick mostra i pericoli che si corrono quando alla guida c’è un cattivo capitano. Cattivo non perché gli manchino le competenze … Anzi! il vecchio Achab è un grande capitano, «è fuori del comune» ed «è abituato a cose meravigliose più profonde del mare» (p. 114). Ma è ossessionato dalla balena bianca e questo gli ha fatto perdere di vista l’obiettivo originario dell’impresa – obiettivo tipicamente americano, aggiungo: arricchirsi tutti, anche se in proporzioni diverse.
Sul piano politico, c’è dunque che Achab ­– il capitano dispotico – affascina. Mentre scorrono fiumi di grog, stringe l’intero equipaggio al giuramento: tutti, nessuno escluso, daranno la caccia alla balena maledetta. E se neppure il giusto, il retto Starbuck è capace di sottrarsi al voto blasfemo, né poi di fermare il suo capitano, è perché anche lui in fin dei conti non sa resistere alle seduzioni del potere. C’è un monologo lancinante, a questo proposito, che si compendia nell’ossimoro: «ubbidire ribellandomi» (p. 200). Così la tragedia finale non potrà essere evitata, nonostante una serie inequivocabile di profezie e di presagi.
Con l’immagine del cattivo capitano, insomma, Melville sembra voler mettere in guardia la giovane e impetuosa democrazia americana additandole il pericolo, sempre in agguato, del tiranno. Ma i tratti di questi diversi modelli politici il lettore deve andare a cercarli là dove meno se li aspetta: … a tavola!
Quale contrasto tra il pranzo degli ufficiali e il pranzo dei ramponieri! Il primo si svolge all’insegna di un terrore reverenziale ed è scandito da regole non dette, ma non per questo meno rigorose. L’altro, che si tiene a ruota nello stesso luogo, la cabina, è tutta un’altra storia.

Con l’intollerabile imbarazzo e con le invisibili tirannie senza nome della tavola del capitano facevano bizzarro contrasto l’assoluta, spensierata licenza e facilità e la democrazia quasi folle di questi tipi inferiori che erano i ramponieri. Mentre i loro padroni, gli ufficiali, parevano temere il rumore dei cardini delle proprie mascelle, i ramponieri masticavano il cibo con tanto gusto che se ne sentiva l’eco. (pp. 181-2)

È una pagina, tra le tante, che andrebbe gustata nella sua interezza. Ma questo schizzo sulla democrazia gaudente, sulla «assoluta, spensierata licenza» (che non sfugga la parola: è proprio questa la democrazia che Platone stigmatizzava) basta già per pungolarci con un interrogativo: come se soltanto ai pagani sarà dato di godere di quel frutto che Rousseau, ricordiamolo, considerava riservato agli dei. Ma la domanda ci porterebbe lontano, mentre è tempo di chiudere.
Lo farò riallacciandomi a due tipologie di viaggio proposte, in un precedente incontro, da Francesco Parasole.
Quello di Achab mi sembra un viaggio abramitico, senza ritorno, non perché Achab se ne infischi del ritorno, anche lui ha una moglie e un figlio ad aspettarlo … Ma il suo, prima di tutto, è un viaggio-assedio, un viaggio-vendetta. E Starbuck glielo grida in faccia: «Iddio, Iddio è contro di te, vecchio; lascia! È un viaggio del male!» (p. 525).
Quello del «Pequod» mi suona come un viaggio ulisseo: anche in considerazione della tecnica, del saper fare di ogni nave baleniera, e non solo per il desiderio di tornare alla cara Nantucket, proprio «là dove crescono» le ciliegie (p. 585). Tuttavia, proprio perché incapace di ribellarsi – tradotto sul piano politico, perché incapace di difendere la democrazia – l’equipaggio sarà inghiottito dall’oceano, ad eccezione del solo Ismaele.
Quello di Moby Dick, invece, non è un viaggio, per lo meno non è un viaggio con o senza ritorno. Lo studio del comportamento dei cetacei è piuttosto recente: solo da pochi anni sappiamo che il capodoglio percorrere decine di migliaia di chilometri ogni anno e non per ragioni riproduttive o nutritive. Viaggiare è nella sua essenza, è la sua stessa natura.
Così, quale incanto la chiusa del libro …  E non alludo a Ismaele, raccolto dopo un giorno e una notte dalla pietosa «Rachele».
Voglio piuttosto pensare che Moby Dick, benché arpionata e ferita, sia tornata a viaggiare: a inabissarsi per poi riemergere, a soffiare e a saltare, a muovere l’enorme coda esibendo su tutti gli oceani la sua leviatanica potenza.



mercoledì 14 maggio 2014

Variazione del Programma e prossimo incontro

A causa di impegni sopraggiunti il Prof. Neyroz non potrà tenere l'incontro del 24 maggio prossimo, che quindi si terrà a data da destinarsi.
L'incntro di sabato prossimo con Il prof. Zappalà e l'azienda G.B. Vajra di Barolo si terrà regolarmente. Come sempre siete tutti invitati.

Alcune info sul Prof. Zappalà


Vincenzo Zappalà (1945) è un astronomo italiano. Il suo campo di interesse prevalente è quello relativo allo studio del sistema solare ed in particolare dei corpi minori, quali comete ed asteroidi. Il MPC gli accredita la scoperta di noveasteroidi.
Vanta al suo attivo oltre 250 pubblicazioni sulle maggiori riviste scientifiche internazionali. I suoi maggiori risultati scientifici hanno riguardato lo studio delle proprietà rotazionali degli asteroidi e la definizione di un nuovo metodo, oggi universalmente riconosciuto, per la definizione delle famiglie asteroidali. È stato varie volte membro di consigli scientifici di congressi internazionali, oltre che presidente di alcuni di questi. Ha tenuto numerose conferenze in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e in Russia (presso l'Accademia delle Scienze). Dal 1997 al 2000 è stato il Presidente della Commissione 15 dell'Unione Astronomica Internazionale, di cui è membro dal 1975. È stato anche co-leader del gruppo di lavoro sul sistema solare della missione spaziale Gaia.
Gli è stato dedicato l'asteroide 2813 Zappalà, scoperto da Edward L. G. Bowellnell'Osservatorio Lowell di Flagstaff in Arizona.

Invervista biografica qui sotto.
http://www.osservatoriofeynman.eu/interviste%20scienza/Zappala.html

G.D. Vajra


Sull'azienda  G. B. Vajra
ecco alcune notizie
La cantina: L’azienda agricola G. D. Vajra è proprietaria dei migliori terreni di località Vergne, a metà strada tra Barolo e La Morra. Si tratta di una zona piuttosto elevata del comprensorio di Barolo, dove nascono vini di grande finezza e complessità aromatica.

Aldo Vajra inizia ad interessarsi all’azienda agricola di famiglia durante gli anni dell’università ed esordisce nella difficile annata del ’72. Si allontana presto dai produttori “modernisti” e inizia un percorso personale, in equilibrio fra tradizione e modernità.
Produce vini integri, rispettosi del terroir, eleganti e freschi. Con l’appoggio della moglie Milena, donna dalle straordinarie doti umane, estende la superficie aziendale con nuove vigne e nuove varietà, condotte secondo i criteri dell’agricoltura biologica. Oggi l’azienda si estende su una superficie di 50 ettari, nei comuni di La Morra, Barolo, Sinio, Serralunga, Novello e Mango.


sabato 3 maggio 2014

Commento di Cristina Cassina alle valutazioni sul web

Interessante questo sito che ci segnali ... 
Altro che Moby Dick, questo sì che fa paura!
E avrebbe fatto paura soprattutto al capitano Achab, visto che nella pseudo sinossi del libro 
si segue non il romanzo, di circa 600 pagine – come sottolinei tu stesso per l'appunto – bensì la trasposizione cinematografia di J. Huston !
Di più non dico, no ... le tre stelline ...  la valutazione ... bibliometrica o non bibliometrica  ... no, proprio non ce la faccio.

Certo, hai ragione. La vera bellezza di un classico è che si torna sempre a discuterne.
Meglio ancora se in buona compagnia.
Un abbraccio

Cristina

venerdì 2 maggio 2014

Moby Dick - il prossimo libro e i commenti sul web

 Moby Dick

Come saprete dal programma il prossimo incontro di un vino .. un libro avrà come argomento il libro Moby Dick   di Melville commentato da Cristina Cassina e i vini della Tenuta Mariani di Massarosa.
Quello  di cui  però vorrei  parlare oggi è di come si siano diffusi sul web i siti di recensioni di libri e come questi affrontino classici di questa portata.
E'  indubbio che l'esigenza gallileiana di misurare tutto il misurabile sia il paradigma della nostra epoca.  Si danno giudizi e punteggi in centesimi ai vini, in stelle ai ristoranti, in forchette alle osterie, in "faccine" all'umore ecc. ecc. , ma trovare commentatori di un libro come questo di  oltre 600 pagine che condensano il tutto in tre categorie : stile , contenuto, piacevolezza mi pare oltremodo riduttivo . Lo so qualcuno citerà Eco e il suo Diario Minimo con le tre recensioni anomale, ma qui si cercava una chiave di lettura tra il faceto e il sarcastico non un punteggio assoluto.
Rimane la consapevoleza,  leggendo queste recensioni , credo fatte in buona fede che siano la prova più lampante di come un vero capolavoro possa prestarsi a molti livelli di lettura ma anche a notevoli incomprensioni.
Attendendo il commento di Cristina Cassina.

Per vedre le recensioni  di cui parlo seguire questo link http://www.qlibri.it/narrativa-straniera/classici/moby-dick/


Lamberto Tosi