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sabato 24 maggio 2014
Rigraziamenti e collegamenti
In attesa di stabilire la data dell'ultimo incontro con Un vino Un libro vorrei inviare i miei ringraziamenti a:
Il ristorante Antico Uliveto che ci ospita;
La Fisar Versilia che ci supporta con i valenti Sommeliers;
Tutti i relatori e le azienda partecipanti,
il nostro affettuoso e vivace pubblico.
Vi segnalo poi il blog tenuto da Vincenzo Zappalà su www.astronomia.com dove si parla di astronomia e molto altro sempre con chiareza e competenza come è solito fare il nostro Vincenzo.
Saluti e al prossimo incontro.
Lamberto Tosi
giovedì 22 maggio 2014
I racconti presentati dal prof. Vincenzo Zappalà all'incontro del 17 maggio 2014
La
voce del mare, ovvero io e le balene
La terra e il mare: due entità fisiche percepite in modo nettamente
diverso dalla maggior parte degli esseri umani. La prima è qualcosa
di tattile, di investigabile, di manipolabile. Ha anch’essa lati
oscuri, misteriosi, a volte terribili e a volte affascinanti, ma è
lì a portata di mano (e di piede). In altre parole, è il nostro
mondo, parla la nostra lingua (o almeno così crediamo).
Il mare no. Esso non sembra voler comunicare con noi. Sia che si
presenti con un confine distensivo e tranquillo, sia che si mostri
con la rabbia delle sue onde, esso è un “diverso”, sempre
impenetrabile e incomprensibile. Sì, possiamo anche immergerci e
vedere cosa contiene. Possiamo, anche studiarlo attraverso svariate
tecnologie, ma rimane qualcosa di estraneo, di alieno. Non
esistono parole tra di noi o -quanto meno- parliamo due linguaggi
troppo distanti tra loro. Questa è la prima impressione che mi
colpisce quando mi affaccio da un’altura verso il mare. Una gran
voglia di conoscere e di interagire, ma un senso di frustrazione nel
non esserne capace.
Almeno, queste erano le mie sensazioni fino al recente viaggio alle
Hawaii. Adesso tutto è cambiato. La voce del mare è risultata
improvvisamente udibile e comprensibile in tutte le sue sfumature. Vi
racconto com’è successo.
Isola di Maui, temperatura del mare estremamente piacevole,
profondità non troppo elevata. Un luogo perfetto perché i giganti
del mare possano mettere alla luce i loro piccoli. Vale la pena
percorrere migliaia di chilometri dall’Alaska per approdare in
una “nursery” di
livello eccezionale. Come dargli torto? Anche noi cerchiamo di fare
lo stesso per i nostri neonati.
I giganti del mare, le balene, enormi creature che potrebbero
comunque nascondersi tranquillamente al di sotto di quel confine
invalicabile di cui dicevo prima. Basta un attimo per respirare e
tornare nel mondo dell’incognito e del mistero. E invece non lo
fanno. Le balene vogliono comunicare con la terra e usano tutti i
sistemi di cui sono capaci. Per loro quel confine è superabile
e leggero. In fondo, basterebbe immergere un dispositivo acustico per
sentire il loro canto dolce e variegato, che ci racconta di
avventure, di speranze e di drammi. Ma non lo capiremmo comunque e il
loro mondo resterebbe nascosto e inviolabile. Hanno, perciò, scelto
di apparire direttamente agli abitanti della Terra e di farlo con una
costanza e una passione che noi non riusciremmo mai a possedere.
Mi sono fermato per pochi minuti su un promontorio a guardare quella
distesa liquida che sentivo ancora lontana e insuperabile. Bella,
limpida, colorata, ma invalicabile. Improvvisamente, il mare ha
parlato e si è fatto capire. Uno sbuffo altissimo, poi un altro. Una
coda che si erge dritta contro il cielo blu e che percuote le onde.
Un gesto ripetuto con accanimento. “Allora… mi stai sentendo? Io
sono il mare e cerco di parlarti!”. E’ un caso, un momento
irripetibile che non fa storia. Il confine torna alla sua anormale
normalità. No, ecco un altro sbuffo e questa volta un dorso enorme e
arcuato sembra uscire ed entrare al rallentatore. Non è solo, però.
Insieme a quello più grande ve ne è uno più piccolo che cerca di
seguire gli insegnamenti. Sì, è un cucciolo che sta imparando dalla
mamma. E continuano a volteggiare per lunghi minuti.
La coda dell’occhio, però, nota altri sbuffi a destra e poi a
sinistra. Alcuni lontani, altri vicinissimi. La testa mi sta girando.
No, non posso sbagliarmi: il mare mi sta parlando attraverso i suoi
giganti. Comincio a capire e mi accorgo che sto sorridendo. Poi
entrano in scena i maschi, un po’ prepotenti e sempre desiderosi di
mettersi in mostra anche se il tempo degli amori è ancora lontano.
Forse vogliono insegnare ai piccoli qualcosa che non siano solo le
tecniche base di movimento e di sopravvivenza. Ogni tanto fanno
uscire solo una pinna, altissima come una torre. A volte solo
l’enorme testa che sembra scrutare curiosa la superficie del mare o
forse la terra lontana. Non posso sbagliarmi: sto assistendo a uno
spettacolo che il mare mi sta regalando attraverso i suoi attori più
importanti e prestigiosi.
Penso con disgusto e con
compassione agli spettacoli artefatti che si vedono negli acquari.
Com’è stupido l’uomo e come la sua ignoranza riesce facilmente a
trasformarsi in cattiveria. Scaccio quel pensiero e torno agli amici
del mare.
Comincio a riconoscere i vari ruoli e le varie scene che hanno
preparato. Mi accorgo che spesso dove penso di vedere una sola
creatura ve ne sono invece tre, quattro o anche più. Sembrano
scandire le loro parti in modo da regalarmi un colloquio continuo.
Poi un primo colpo di fortuna. Una mamma (è sicuramente lei) spinge
fuori dall’acqua il suo erede e lo lascia ricadere in modo
abbastanza rovinoso. Deve imparare anche a saltare. Qualsiasi dubbio
mi lascia. Il salto non è legato a nessun bisogno fisiologico delle
balene (dicono di sì, ma sono solo le solite invenzioni umane
costruite per sentirci superiori). E’ un gesto di gioia, di
allegria, di partecipazione e di comunicazione. Se viene insegnato ai
piccoli, vuol dire che deve far parte del repertorio degli adulti. Ne
ho sentito parlare, ne ho visto anche delle foto. Ma tutt’altra
cosa è assistervi direttamente in un colloquio diretto, a tu per tu.
Scruto il mare che ormai mi sta chiamando da molte direzioni.
Trascuro molti messaggi aspettando l’urlo liberatorio. Finalmente
arriva e sento una stretta nel petto. Incredibile! Una creatura di
venti metri di lunghezza esce completamente dall’acqua e compie un
salto arcuato e nettissimo. Sta facendo il “ponte”, l’esercizio
più entusiasmante e sicuramente “inutile” da un punto di vista
logico e fisico.
Non posso che considerarlo come un grido lanciato verso di me e mi
accorgo che ho risposto con un “Evviva” o -forse – con un
“Bravo”. Sembra che mi abbia sentito e lo ripete tre, quattro,
cinque volte in una sequenza che lascia di sasso. E ogni volta, nella
ricaduta, l’urto con l’acqua è un rumore, anzi un suono, che non
ha confini. Guardo l’orologio. E’ passata meno di mezz’ora e
sto parlando con il mare. Tra di noi tutto è cambiato, grazie alle
balene e alla loro rappresentazione sempre uguale e sempre diversa.
Potrò mai ringraziarle abbastanza?
La
ricerca dell’Uomo
L’Uomo
si era messo in cammino alla ricerca di quello che voleva, ma che non
conosceva. Non aveva fretta, perché la fretta nasconde sempre la
verità. Incontrò per primo un fiore dai mille petali e ogni
petalo aveva un colore diverso. “Guardami Uomo. Non vedi come sono
bello? In me puoi scoprire tutte le sfumature dell’eleganza,
dell’armonia, della fantasia. Come puoi sperare di trovare qualcosa
di più attraente e seducente?” L’Uomo lo guardò a lungo,
pensieroso. Pianse anche per il suo meraviglio aspetto, ma non era
abbastanza. La troppa bellezza può essere fredda e quel fiore
penetrò nel suo cuore come una lama d’acciaio. Senza una
parola si allontanò e continuò il suo cammino.
Davanti
ai suoi occhi persi nel vuoto, apparve una farfalla. Aveva
colori altrettanto splendidi, ma una leggerezza e una grazia
stupefacenti. “Guardami Uomo. Non vedi come sono tenera, dolce,
indifesa? La mia bellezza dura un attimo, ma chi sa coglierlo non
potrà ammirare niente di più struggente. Approfitta e sarai
felice”. L’Uomo ne fu scosso nel profondo. Non era solo bella, ma
colpiva il cuore come una lama rovente. No, non bastava. Un
soffio passeggero non riusciva a saziarlo. La commozione è un
sentimento troppo breve. Continuò a vagare.
Un
filo d’erba smeraldino gli bloccò il passo. “Guardami
Uomo. Non sono bello, ma vivo di umiltà e semplicità. Non ho niente
da offrire tranne che la mia esistenza, ma cosa c’è di meglio?”
L’Uomo ne fu colpito e lo accarezzò dolcemente. Una lama di
purezza trafisse il suo cuore. Subì un lungo torpore di
tenerezza e comprensione. La genuinità gli ricordava quello che
stava cercando, ma che non conosceva. Tuttavia, voleva di più; non
gli bastava un’estasi passiva e statica. Riprese il cammino.
Incontrò
una roccia scura come la notte. “Guardami Uomo. Non
m’interessa né la potenza, né la ricchezza, né la saggezza. Sono
qui per te. Plasmami, tagliami, deformami, sono nelle tue mani.
Dentro di me ho immagazzinato tutto ciò che è accaduto. Sta solo a
te scoprirlo e farlo rivivere”. L’Uomo sentì un fremito. Una
lama di orgoglio gli ingigantì il cuore. Era libero di fare,
di agire, di creare. Ma sarebbe stato solo e questo non lo voleva. Il
suo passo lo portò lontano.
Sul
sentiero apparve un drago. Immenso e maestoso, esclamò:
“Fermati Uomo. Ti dono tutta la mia potenza. Ti accompagnerò e ti
difenderò contro tutti e tutto. Io non temo nessuno. Sono
invincibile”. L’uomo lo guardò negli occhi infuocati. Una lama
di sicurezza calmò il suo cuore. Ma lui doveva lottare,
rischiare, vincere con le sue sole forze. Si mosse e non si voltò
più indietro.
A
terra scorse un frutto magnifico, enorme e profumato.
“Assaggiami Uomo e ne sarai rapito. Riesco a trasmettere tutti i
gusti più raffinati. Devi solo cogliermi e ne sarai incantato”.
L’uomo addentò quella meraviglia. Stupendo. Tutte le sfumature del
dolce penetravano come una lama succulenta nei suoi sensi, ma
non colpivano il cuore. Riprese il cammino, pensando alle esperienze
di quel giorno, di quella vita, di quella era.
Aveva
conosciuto la bellezza, l’amore, la tenerezza,
la potenza, la delicatezza, l’orgoglio, la
sudditanza. Vivevano però isolati. No, l’Uomo cercava
altro, quello che voleva, ma non conosceva. E non l’aveva ancora
trovato.
Mentre
la sua mente vagava come il suo passo, sentì un fruscio. Alzò gli
occhi e vide quel tronco contorto, stanco e deforme. Vi era
potenza, saggezza, ma anche tenacia e umiltà. Non nascondeva i suoi
anni e le sue sofferenze. Poi vide anche le foglie. Piccole, chiare,
di una bellezza semplice e disarmante. Erano discrete e appena
accennate. Dimostravano che non vi era bisogno di dare più del
necessario. Non esibivano niente, facevano solo il loro lavoro. Poi
vide i frutti. Anch’essi erano minuti. I loro colori li
mimetizzavano tra le foglie. Non ostentavano grandezza e bellezza, ma
sapevano molto bene qual era il loro compito.
L’albero
non parlò, né le sue foglie, né i suoi frutti. Fu l’Uomo a
parlare. “Guardami albero. Tu non vuoi dimostrare niente, ma hai
grande saggezza. Le tue foglie sono misere, ma ti fanno sembrare un
mare increspato dalle onde. I tuoi frutti si nascondono, timidi, ma
recepiscono ogni vibrazione della Natura. Tu sai tutto, hai tutto, ma
non chiedi e non offri niente. Non hai bisogno di me, ma mi hai
attratto con violenza. Una lama di completezza mi ha trafitto
il cuore e la mente. Non posso lasciarti. Insegnami qualcosa!”
L’albero
non rispose, ma un piccolo frutto cadde nella mano dell’Uomo. Gli
venne spontaneo schiacciarlo e ne uscì l’anima dell’albero,
della Natura, dell’Universo. Il suo pianto era luminoso come la
luce delle stelle, il suo colore non aveva confini. L’Uomo lo portò
alla bocca e quella lacrima non fu una lama, ma gli cambiò il cuore
e la mente. In una goccia aveva trovato quello che voleva, ma non
conosceva. E avrebbe dovuto lavorare duro, senza sosta per
comprendere e assimilare ciò che non gli era stato offerto, ma che
non poteva più lasciare. L’Uomo si fermò e iniziò la sua
impresa.
Solo
di notte e con la Luna Piena scorse ogni tanto un sorriso in quel
tronco contorto e stanco, mentre le foglie intonavano il loro canto
senza inizio e senza fine.
Una
foglia nel vento
Uli
e Iva erano due simpatiche e giovani olive nate in Marocco. Sapevano
già benissimo quale sarebbe stata la loro fine: schiacciate insieme
a tante sorelle fino a diventare olio. L’olio è sempre e comunque
una grande meraviglia, ma nel loro paese la grande qualità rimaneva
una chimera. Era sempre stato così, eppure Uli e Iva non volevano
accettare la realtà dei fatti. Desideravano ardentemente provare
qualcosa di nuovo, conoscere amici lontani, sapere tutto dei compagni
di altre razze e paesi. Il loro colore non lasciava dubbi, ma avevano
sentito dire che non esistevano problemi razziali nelle altre nazioni
del mondo. Un po’ ovunque c’erano olive di tinte diverse, che
convivevano senza nessun pregiudizio di sorta.
Come
avrebbero voluto essere nate da alberi dai nomi celebri e importanti,
la cui fama era giunta fino a loro per il nettare sopraffino che
sapevano produrre. Molte volte, nel riposo notturno, avevano entrambe
la stessa visione, ma si svegliano tristi e deluse quando la brezza
del mattino le faceva vibrare. Era stato solo un sogno, e la varietà
del loro albero, benché benevolo e gentile, era pur sempre una
Picholine Marocaine, Zit per gli amici, la stessa che
si trovava ovunque in Marocco. In mezzo a quel turbinio di emozioni,
speranze e delusioni, le due amiche stavano pian piano “maturando”:
se volevano fare qualcosa, dovevano farlo subito! Non sarebbero
passati molti mesi prima del fatidico momento della raccolta.
La
fortuna venne loro incontro. Quel giorno si era sollevato un vento
fortissimo che faceva inchinare perfino il vecchio e contorto
genitore. Uli e Iva danzavano e dondolavano, dandosi colpi e
faticando perfino a mantenere l’orientamento. Proprio allora ebbero
l’idea: invece di cercare di stare ancorate al ramo che le
proteggeva, iniziarono ad assecondare il turbinio del vento. Dettero
esse stesse strattoni nella direzione in cui soffiava, fino a sentir
cedere la presa. L’albero le ammoniva e le sgridava, ma Uli e Iva
non lo sentivano più, perse nel loro folle sogno. Alla fine furono
libere e caddero al suolo, rotolando giù per la piccola collina e
fermandosi vicino a dei grossi cespi di datteri accumulati sotto le
alte palme. Ormai quello che era fatto era fatto e non potevano più
tornare indietro. Non c’era tempo per pentirsi della pazzia che
avevano compiuto e che le aveva trascinate verso il mistero e
probabilmente verso una fine miserabile. Calpestate e schiacciate
prima che potessero regalare il loro prezioso succo.
Si
guardarono intorno e chiesero aiuto al cespo più vicino. Furono
nuovamente fortunate. Era buono e gentile e con gran fatica riuscì a
rotolare coprendole con la sua famiglia di frutti, fino a nasconderle
nel suo interno. Appena in tempo. Pochi secondi dopo i datteri, ed
esse con loro, furono gettati in una cassa. Poi caricati su un camion
e infine su una nave in partenza per la Sicilia. La Sicilia,
l’Italia, la patria del grande olio! Sembrava un sogno, ma questa
volta era realtà. E proprio dall’isola del grande vulcano
sbuffante iniziò il loro viaggio. Furono
scaricate nel porto di Trapani e rotolarono fuori dall’amico cespo,
dopo averlo ringraziato a lungo, augurandogli una buona fortuna. Ora
dovevano agire da sole.
Si,
ma come? Uli e Iva erano sveglie e intelligenti e, guardandosi
attorno, pensarono a tutte le possibili soluzioni. Alla fine la loro
attenzione venne catturata da un albero gigantesco e dalle sue grandi
foglie che cadevano a terra veleggiando, trasportate da un debole
venticello. Erano così grandi e ampie che bastava un soffio d’aria
per farle sollevare e portarle anche molto lontano. Valeva la pena
tentare. Riuscirono a raggiungerne una che sembrava particolarmente
vivace e capiente e la interrogarono: “Vuoi portarci con te in giro
per l’Italia? Ti faremo conoscere posti meravigliosi e boschi e
pianure e tanti alberi grandi e contorti … sarà magnifico.” La
foglia pensò a lungo, guardò l’albero da cui era caduta
prematuramente e infine rispose: “Perché no! Ormai sono stata
abbandonata e finirei schiacciata o nelle pagine di qualche quaderno.
Sono con voi. Salite e partiamo!”. Dovettero aspettare solo pochi
minuti e poi un soffio più impetuoso sollevò le tre amiche a
parecchi metri d’altezza. Il viaggio era cominciato e le due olive
si misero al posto di comando per dirigere il simpatico mezzo di
trasporto verso la direzione voluta.
La
prima tappa fu molto vicina. Toccarono terra nei pressi di una
bellissima montagna che dominava il mare e che era incoronata da una
splendida antica città: Erice.
Erano circondate
da ulivi, e si sentivano timorose e imbarazzate al cospetto di alberi
tanto famosi. Alla loro destra riconobbero una coltivazione di
Cerasuola,
a sinistra di Nocellara
e poco più in là di Biancolilla.
Che meraviglia! Si sentivano molto importanti anche loro tra tante
celebrità. Trovarono il coraggio e chiesero informazioni alle nobili
compagne che pendevano dai rami. Queste dimostrarono grande
cordialità e non si fecero pregare. Impararono così che uno dei
grandi pregi delle olive, di qualsiasi albero esse siano, è quello
di essere estroverse, amichevoli, pronte a unirsi con sorelle di
razza diversa.
Seppero
anche che l’olio di quelle parti era forte, austero, maschio come
il gigantesco vulcano che dominava l’isola. Il sapore era intenso,
piccante e duraturo. L’amica foglia cominciava a scalpitare per
l’impazienza e le due olive decisero che era tempo di ripartire.
Salutarono con enfasi le nuove compagne e si sistemarono sul loro
velivolo. Che bell’incontro avevano avuto e che simpatiche le nuove
amiche! Ma non era il posto per fermarsi. Dovevano imparare ancora
troppe cose e vedere molte altre zone. Il vento, proveniente dal
mare, le sollevò in fretta ed esse sorvolarono tutta l’isola, con
i suoi tesori di arte, storia e cultura. Non avevano tempo di
visitare altri uliveti, ma li videro chiaramente dall’alto.
Giunsero
in terraferma e scesero nei pressi dell’antica città di Lamezia.
Altri ulivi, altre amiche, altri oli. I loro sapori erano molto
fruttati, il colore verde intenso, il sapore delicato. Quasi tutti
gli alberi appartenevano alla varietà Cariolea, di origine
vetusta. Proseguirono verso nord, ben sapendo che avrebbero perso
qualcosa, ma in quella terra così ricca non si poteva conoscere
tutto. Dovunque guardassero, vedevano uliveti e sentivano le loro
compagne che scuotendo le foglie le salutavano con un intenso fruscio
portato dal vento. Dall’alto videro la Puglia, e scorsero decine e
decine di chilometri di vecchissimi ulivi contorti con le braccia
scheletriche protese verso il cielo. Enormi distese di alberi i cui
nomi gli giungevano da lontano: Cellina, Ogliarola,
Coratina, Peranzana, Garganica, e altri ancora.
Impossibile ricordarli tutti. Benché in preda ad una smania
indicibile di conoscenza, non potevano fermarsi a loro piacimento,
vincolate com’erano alla direzione e alla forza del vento. Furono
trascinate verso una regione ricca di vulcani antichi e recenti: la
Campania.
La
foglia doveva riposarsi un poco e loro stesse avevano voglia di
scambiare nuove impressioni e conoscere nuove varietà. Videro una
piccola isola che sembrava una gemma incastonata nel turchese.
Manovrando con destrezza, riuscirono a raggiungerla. Che meraviglia
le rocce che cadevano in mare e gli ulivi che si aggrappavano un po’
ovunque. Pensarono alla fortuna di quelle compagne che ogni tanto
potevano tuffarsi direttamente in quelle acque così trasparenti.
Conobbero la Minucciola e la Rotondella. Il loro olio
variava dal verde al giallo paglierino, il fruttato del profumo si
trasformava in un sapore leggermente piccante e amarognolo. L’origine
vulcanica di quella terra si rispecchiava nel carattere delle olive.
Erano estroverse, allegre, infuocate nei discorsi. Sembravano esse
stesse sprizzare ancora fuoco e fiamme.
Uli
e Iva si accorsero con sorpresa e con grande piacere che il loro
viaggio era ormai noto alle nuove amiche. La voce si era sparsa,
andando di fronda in fronda, di albero in albero, di uliveto in
uliveto. E il vento trasportava velocemente l’informazione.
Dovunque fossero andate, d’ora in poi, le avrebbero aspettate con
gioia e allegria. Lasciarono con tristezza quell’isola fantastica e
quei colori da favola. Malgrado fossero giunte in una specie di
paradiso terrestre, sentivano che non dovevano e non potevano
fermarsi. La strada era ancora lunga.
Il
vento non mancava e in breve lasciarono la Campania e passarono sopra
una città meravigliosa, la capitale di quella nazione così ricca di
ulivi celebri e antichi. Roma si estendeva sotto di loro, con
i suoi monumenti e il suo placido fiume che la tagliava in due senza
recarle alcun dolore. Anche in quella nuova terra gli ulivi non
mancavano e le due amiche non poterono non fermarsi vicino alle
antiche tombe degli Etruschi. Sembrava di respirare un’aria
arcaica. La natura stessa pareva stanca di anni, secoli e millenni di
cultura, storia e civiltà. I colori erano quelli di un continuo
tramonto e la pace regnava sovrana. Le piccole città sorgevano su
baluardi di roccia tufacea e le case facevano un tutt’uno con le
pareti verticali modellate dalla paziente opera della Natura.
Fu
una pianta in particolare che le colpì: era enorme e antica, ma
ancora vigorosa e bellissima. Quando furono vicine apparve ancora più
gigantesca: un vero capolavoro. Le sue olive dal portamento austero e
solenne, parlavano con saggezza e dignità. C’era chi diceva che il
grande vecchio avesse forse visto da fanciullo gli antichi re romani.
Probabilmente era solo una leggenda, ma di sicuro la sua età
superava i mille anni. Era veramente enorme. Nove metri di
circonferenza, eppure produceva ancora dodici quintali di frutti
all’anno. Lo chiamavano l’Ulivone nel pittoresco villaggio
di Canneto Sabino. Uli e Iva ebbero perfino paura di parlare
al più grande e vetusto ulivo dell’intero continente. Anche se
solo per quella visione il loro viaggio avventuroso aveva avuto uno
scopo. Ne era sicuramente valsa la pena.
Pensarono
per un attimo di fermarsi in quella terra così aspra e tranquilla,
ma era ancora presto e salutarono con deferenza il gigante verde.
L’Italia con i suoi ulivi scorreva sotto di loro. Videro bellissimi
laghi circolari e poi una montagna quasi perfetta nella sua forma a
cono. Sicuramente anche lì il fuoco sotterraneo aveva modellato e
sagomato la superficie. Planarono lentamente alle falde del vecchio
vulcano, ora addormentato e protetto da una coperta di fitte foreste.
Sebbene molto in alto, perfino in quel luogo sorgevano uliveti. Uli e
Iva ne furono sorprese e si fermarono. La loro curiosità fu presto
soddisfatta. Appartenevano alla varietà Seggianese ed erano
in grado di resistere con vigore ai freddi inverni del Monte
Amiata. Le olive erano un po’ rudi e di poche parole, ma
schiette e sincere. Sapevano di essere una piccola comunità rispetto
alle altre compagne toscane, ma non avevano sensi d’inferiorità.
Anzi, erano convinte di produrre uno dei migliori oli in assoluto,
dai tratti decisi e piccanti, senza mezze misure.
Uli
e Iva, abituate ai caldi africani, cominciarono ad avere freddo:
l’estate era già terminata. Chiedendo scusa, ripresero il volo.
Solo allora si accorsero che la loro amica foglia, così gentile e
disponibile, stava ingiallendo. Aveva cercato di nasconderlo alle due
olive, ma si vedeva che cominciava a soffrire. Volava a bassa quota e
ogni tanto eseguiva manovre non del tutto controllate. A Uli e Iva
spiacque molto e si sentirono in colpa: forse l’avevano stancata
troppo senza curarsi di lei, prese com’erano dai nuovi incontri che
le emozionavano a non finire. Ma la foglia, oltre che gentile, era
molto saggia e comunicò con serenità che quello era il suo destino.
Ancora pochi giorni e poi si sarebbe lentamente sgretolata. Aveva
comunque vissuto alla grande, visitando luoghi che mai da sola
avrebbe osato sfidare.
Uli
e Iva, profondamente commosse, consigliarono alla loro amica di
cercare di assecondare il vento il più possibile per risparmiare le
forze. Anzi, se voleva, erano disposte a fermarsi in qualsiasi punto
lei avesse desiderato: in fondo avevano scoperto il mondo grazie a
lei. Il rifiuto della foglia fu deciso e irrevocabile. Voleva andare
fino in fondo e consegnare le due amiche al territorio più idoneo.
Con malcelata fatica si rimise in volo e sorvolò il Chianti
con le sue vigne e i suoi ulivi radiosi. Improvvisamente, di fronte a
loro, si parò minacciosa una catena montuosa cupa ed altissima.
Erano gli Appennini tosco-emiliani che sfidavano, incuranti di tutto
e di tutti, i duemila metri. Niente da fare: per proseguire bisognava
valicarli, ma la battaglia era veramente senza speranza.
Piegarono
verso sinistra, in vista del mare, con manovre sempre più titubanti
e rischiose. Fu una dura lotta contro un vento impetuoso che faceva
scricchiolare la struttura della foglia, ormai di un colore tendente
al bruno. Uli e Iva non pensarono mai alla loro vita, ma solo a
quella della loro fedele compagna. La rincuorarono e la spronarono
nei momenti più difficili; la osannarono e l’acclamarono nei pochi
istanti di quiete. Alla fine, però, Il mare fu sotto di loro,
bloccato improvvisamente da cime acuminate come coltelli e bianche
come la neve. Sembrava che volessero trafiggere la foglia quasi con
rabbia. Ma era solo un’impressione, quelle montagne avevano
sofferto per secoli, subendo l’opera impietosa dell’uomo.
Profonde spaccature, profili levigati come specchi avevano scavato
ferite profonde che ne mettevano a nudo il loro cuore bianco e
lucente. Erano tristi nel loro splendore e sprigionavano un senso di
forza arcaica e mai sopita. La foglia era alla fine, dovevano
fermarsi assolutamente. Pazienza, non erano riuscite a completare la
loro splendida avventura, ma era comunque stata una magnifica
conquista.
Tra
la bruma del mattino, videro che una timida e popolata striscia di
pianura separava la calma del mare dalla rabbia dei monti.
Case, cemento, urla e frastuono. Peccato, non poteva esistere posto
peggiore per finire il viaggio. A mano a mano che scendevano in preda
alla disperazione e alla tristezza, li videro
ai bordi della grande macchia grigia di cemento che ricordava
un’ameba gigantesca che tutto ingoiava. Sembravano giganti
sconfitti e imprigionati. Titani in balia della sfrenata corsa senza
ragione dell’uomo. Ma ancora impavidi e vitali: non volevano e non
dovevano essere sconfitti.
La
foglia, ormai allo stremo, cominciò a cadere verso terra: non ce la
faceva più. Logora, stanca e scheletrita ebbe un mancamento e piombò
senza più forze, verso un quadratino verde. Un miraggio? Uno scherzo
dell’immaginazione? O Forse l’ultimo, disperato, regalo della
foglia? L’impatto non fu violento: Uli ed Iva ne uscirono sane e
salve. La loro amica, però, stava morendo.
Ridotta
a uno scheletro ramificato si stava disintegrando sotto la brezza che
soffiava soltanto in quel quadratino di paradiso. Il suo ultimo
sussurro fu un “grazie” diretto alle due olive. Poi si spense e
la sua polvere si perse nel vento. Uli ed Iva stettero molti minuti
in silenzio, piangendo lacrime di olio. Questo fenomeno inatteso le
fece tornare alla realtà. Erano ormai mature: anche per loro si
avvicinava la fine. Si guardarono intorno in preda a sgomento e
paura, ma si videro circondate da alti fusti commossi che stavano in
silenzio per non disturbare. Le due olive li salutarono con rispetto
e rinnovata fiducia. Furono accolte con gioia ed entusiasmo. Era una
piantagione di Quercetana e le compagne che pendevano cariche
di succo dai rami le accolsero con spontanea amicizia, felici di
averle tra loro. Stava cominciando la raccolta e poi la pigiatura.
Senza bisogno di inutili parole, Uli e Iva furono abbracciate dalle
nuove amiche e tutte insieme riempirono le ceste, chiacchierando e
ridendo.
Era
la fine, ma una fine allegra e spensierata. Le due olive, nate così
lontano, dettero il loro piccolo contributo per produrre un olio
magnifico, che aveva mille fragranze ma che profumava soprattutto di
storia e cultura. Anche lui rischiava di morire, a causa della
stupidità umana. Ma non tutti quegli esseri a due gambe erano così
e i vecchi ulivi speravano ancora.
L’ultimo
sguardo di Uli e Iva fu per i giganti di roccia feriti che
proteggevano i pochi gruppi di ulivi che si difendevano stringendosi
tra loro, mutilati severamente per opera dell’uomo, sempre egoista
e mai rispettoso del suolo che lo aveva nutrito per secoli e secoli.
Mentre calava sul mare, Il Sole mandò un saluto particolare, un
bagliore improvviso e inaspettato. Le pareti di marmo sembrarono
diventare d’argento: un immenso lago argenteo che si alzava in
verticale verso le nuvole violette che si spostarono per accoglierlo.
Anche
Uli e Iva si fusero in un lago, splendente e dorato, condividendo una
gioia immensa.
GRAZIE E VINCENZO ZAPPALA' E A ALDO VAJRA PER LA PARTECIPAZIONE.
martedì 20 maggio 2014
La relazione della Prof. Cristina Cassina su Moby Dick di Melville
Parlare di un classico come Moby
Dick o la balena ha i suoi vantaggi ma anche parecchi svantaggi.
Parto
dai vantaggi. Il più ovvio è che si può contare su qualche conoscenza a
riguardo: se non tutti avranno letto il libro di Herman Melville, in molti
avranno visto il film di John Huston, interpretato da uno splendido Gregory
Peck, oppure ne avranno almeno sentito parlare. Per cui non c’è necessità di
ripercorrere l’intera storia, né si corre il rischio di svelare la fine
tragica, immagino a tutti nota.
Rinfreschiamo
però qualche elemento. Il romanzo è narrato in prima persona da Ismaele, un’anima inquieta e girovaga che, per
sfuggire alla propria malinconia, decide di imbarcarsi su una nave baleniera.
Ma il «Pequod», la nave che sceglie nel porto di Nantucket (Capo Cod, nel
Massachusset) e che sceglie perché gli appare più robusta, è affidata a un
comandante molto particolare: il vecchio capitano Achab a cui Moby Dick, una
balena bianca, nell’ultimo viaggio ha strappato via una gamba. Il «Pequod» si trova quindi sotto la guida di un
capitano di grande esperienza ma accecato da un disegno monomaniacale: uccidere
la balena albina. Accanto a lui, dapprima ignari di questo progetto, un
equipaggio di trenta uomini in cui si distinguono tre ufficiali – il quacchero Starbuck,
il gioviale Stubb e il giovanissimo Flask – e tre ramponieri a cui spetta di
lanciare il primo arpione nell’attacco alla balena.
Il vantaggio maggiore tuttavia è un altro, e sta nella simpatia per la
balena: un animale portentoso, oggi non più cacciato come un tempo, per
fortuna, ma ammirato e in molti luoghi protetto. Un animale di alti natali: fu
creato il quinto giorno, secondo la Genesi, e fu strumento di Dio per
raddrizzare il riluttante Giona (Giona nella pancia della balena, assai prima
di Geppetto). Un animale da sempre associato ai tratti della sovranità [ed è
qui che vedo il trait-d’union con i
vini della Tenuta Mariani, vini che aspirano alla nobiltà, mi si dice, mentre
sul «Pequod» più che altro si beveva gin e ruhm].
L’associazione con la sovranità, d’altra parte, non è una prerogativa
dei tempi d’oro della monarchia, quando i sovrani erano consacrati (unti) con
olio di balena. Per cogliere questo aspetto dotiamoci di un elemento tassonomico:
l’ordine dei cetacei si divide in due sotto ordini, i misticeti, la balena con i fanoni, e gli odontoceti, cioè i cetacei muniti di denti, come il capodoglio, il
protagonista del nostro libro. Nei rari momenti di ozio, i marinai delle
baleniere erano soliti intarsiare i suoi denti d’avorio per poi venderli per
qualche dollaro. Nel tempo, sono divenuti oggetti preziosi e ricercati. E
poiché il presidente Kennedy li collezionava, Jacqueline gliene aveva comprato
uno per il natale del ’63, un natale che il presidente non avrebbe visto.
Ebbene, quel dente, Jacqueline lo fece deporre nel feretro, quasi a
simboleggiare un resto di regalità al tempo della sovranità popolare.
Veniamo alla parte difficile. Se contare su qualche conoscenza del libro
è già un bel punto di partenza, una partenza in discesa, resta che affrontare Moby Dick comporta molti svantaggi. A
partire dal fatto che, in quanto capolavoro indiscusso della letteratura
americana, è accompagnato da una saggistica enorme e in continua crescita.
Inoltre, nella sua indiscutibile bellezza, il testo è carico di simboli
e di metafore, il più delle volte con ampi rimandi biblici e mitologici. Non
solo. Una bella parte è un vero e proprio trattato di cetologia (ma con quale
fantasia, quale inventiva …). E non alludo solo alla descrizione del tema-balena,
cioè l’esame anatomico delle sue parti in un serrato confronto con le nozioni
dei naturalisti, o dei luoghi ad essa dedicati nei testi sacri e in
letteratura; intendo anche l’accuratissima descrizione delle fasi della caccia
e della lavorazione.
Difatti, per darne un’idea sintetica, potrei dire che Moby Dick è il prodotto dell’incrocio di
più linee spazio-temporali.
La principale è la linea romanzata, cioè la storia del «Pequod» e del
suo equipaggio. E non è certo una linea retta, casomai una linea curviforme
come lo è la rotta di una nave attrezzata per un viaggio di quattro anni in
giro per il mondo: partita da Capo Cod, un «ricciolo di terra» che si proietta
nell’oceano Atlantico, doppia il Capo di Buona Speranza, naviga lungo l’oceano
Indiano, s’inoltra nello Stretto della Sonda, tra Sumatra e Giava, fino a
raggiungere le acque equatoriali dell’oceano Pacifico: proprio là dove tutto si
compie. E sempre sulla linea romanzata s’infilano, come perle di una collana,
le storie che toccano ora i componenti dell’equipaggio, ora gli incontri con
altre navi baleniere: ed ogni nave ha una sua vicenda, il suo fardello di
tragicità, un nome evocativo: la «Gioia», «Bocciol di Rosa», lo «Scapolo»,
«Rachele»...
Su questa linea principale si va a innestare la trattazione colta,
erudita, o meglio le molte trattazioni. Le quali, come una sorta di segmenti
spazio-temporali, intersecano e interrompono in più punti la storia del «Pequod».
Si tratta di una serie di incisi che producono un continuo andirivieni nella
religione, nella storia, nella cultura e
nella tecnica occidentale – soprattutto occidentale, ma non solo – formando un
secondo tragitto che va a pescare nelle esperienze umane più diverse, spesso
attraverso il dispositivo della riflessione attribuita a singoli personaggi. Il
tutto condito con allegorie a non finire e meditazioni davvero profonde, anche proto
ecologiste: come nel capitolo in cui il narratore, avendo presente la coeva
strage dei bufali, si chiede se il capodoglio non possa fare una fine
altrettanto ingloriosa. (p. 483) [cito dall’edizione Adelphi 1987, la
traduzione è di Cesare Pavese].
Insomma, per queste e molte altre ragioni ho scelto di seguire una rotta
prudenziale, appuntandomi, in prima battuta, sui nomi. Il che non è poco poiché
permette di sollevare qualche velo.
«Chiamatemi
Ismaele»: l’incipit, la frase più
celebre della letteratura americana, suona
subito ambiguo, se non misterioso. Ismaele era figlio di Abramo e della schiava
Agar, ma quando Sara dà alla luce Isacco per gelosia chiede che vengano
scacciati. Errano così nel deserto e sarebbero senz’altro periti se non fossero
stati salvati da un angelo. Senso di abbandono? Nostalgia? Queste ipotesi sono
state avanzate. Non solo. L’Islam, riprendendo il racconto biblico, vede in Ismaele
il progenitore del popolo arabo.
La scelta di questo nome per
l’importantissima figura del narratore può quindi leggersi come un’apertura al
mondo dei pagani. E difatti la storia narra anche di un’amicizia fraterna tra
il selvaggio Quiqueg, il primo ramponiere, e Ismaele.
Anche Achab, il nome del capitano, è un nome biblico (Primo Libro dei Re) ma questa volta s’iscrive nella maledizione. In Moby Dick vi è solo un accenno al passo
vetero testamentario, ma la pennellata è davvero calzante: e non solo perché
questo re malvagio era un valente guerriero, soprattutto perché dispiacque al
Dio di Israele: l’Achab biblico aveva tentato di introdurre il culto di Baal,
dio fenicio – guarda caso – della Tempesta.
Il nome della barca, il «Pequod», è invece tratto
da un altro orizzonte. Qui Melville vuole rendere omaggio alla tribù degli
indiani Pequod, un tempo dominatori dell’attuale New England e primi grandi
cacciatori di balene.
Delle balene a noi interessa una in particolare,
la balena bianca, ovvero Moby Dick. Su questo nome si è scritto molto, mi pare
senza risolvere gran che. Invece di lanciarsi in congetture, guardiamo alle
notizie del tempo, le stesse cui Melville poteva attingere. Sappiamo che i
capodogli stavano reagendo a decenni di caccia intensa diventando più
aggressivi, attaccando lance e addirittura navi. Sappiamo che l’idea del
racconto viene anche dalla notizia dell’abbattimento di un’enorme balena che
aveva terrorizzato i marinai. Sappiamo altresì che uno dei capodogli più
minacciosi era albino e aveva un nomignolo, Mocha Dick: «un vecchio maschio, di
mole e forza prodigiose» (J. Reynolds, articolo del 1839) avvistato più volte
di fronte all’isola cilena di Mocha, che si diceva avesse ucciso più di trenta
uomini. Quindi, per quanto attiene al nome, conviene prenderlo per quel che è:
un nome leggermente modificato, e nulla più.
Da notare invece c’è un’altra cosa. Melville, nel
riferirsi alle balene, spesso usa il termine «leviatano». Non è il primo a
farlo, né l’ultimo (Philip Hoare, nel 2009, ha titolato Leviatano, ovvero la balena un saggio di grande successo). Ma il
punto è un altro. A partire dal 1651 – esattamente duecento anni prima la
pubblicazione di Moby Dick – il
termine Leviatano indica anche lo
Stato hobbesiano. Thomas Hobbes e Melville prendono spunto da libro di Giobbe dove Dio, parlando dalla
procella, ricorda di aver creato due mostri, Behemoth e Leviathan. E sebbene
non sia per nulla pacifico di quali animali si tratterebbe – alcuni individuano
il leviatano nel coccodrillo, altri nella balena – ciò che interessa è che di
esso si dice: «fu fatto per non temer nessuno», «è re su tutti i figli di
fierezza».
Ora, in Hobbes, la grandezza del Leviatano sta nel
fatto di essere una costruzione artificiale, un prodotto degli uomini. Non così
per Melville. Il suo utilizzo è un ritorno al passato, alla radice etimologica
del termine cetaceo, la quale deriva dal greco kétos: mostro marino, o balena. E la differenza non è di poco
conto: se Melville, come Hobbes, insiste sugli attributi di potenza e di superiorità,
resta che per lui il leviatano è una creatura di Dio, non degli uomini. Per
questo la caccia di Achab appare blasfema – un agire che è un oltraggio a Dio –
come nota in più luoghi il primo ufficiale Starbuck.
Eccoci giunti all’equipaggio del «Pequod», alla
sua articolazione piramidale.
Sopra tutti, nella gerarchia navale, stanno Achab
e i tre ufficiali. Sono tutti americani, perché provengono, se non da
Nantucket, quantomeno da Capo Cod.
Tra loro e la ciurma ci sono i ramponieri che, in
una baleniera americana, sono considerati alla stregua di sotto ufficiali:
dormono infatti a poppa, vicino alla cabina del capitano. Chi sono costoro? Quiqueg,
il polinesiano tutto tatuato con cui Ismaele, si è detto, ha stretto amicizia; Tashtego,
un indiano di razza, «dalla capigliatura lunga e sottile», erede dei guerrieri
«cacciatori della grande Alce»; Deggu, «un gigantesco negro selvaggio, nero
come il carbone, con un passo leonino» (p. 151).
Tutti pagani e, in quanto pagani, strumenti eletti
per lo scellerato disegno di Achab. Difatti è a loro che si rivolge quando il
fabbro finisce di forgiare la lama arroventata con cui il capitano si illude di
abbattere Moby Dick. Per terminare il lavoro, il fabbro chiede una botte
d’acqua. Ma Achab ha in mente ben altro. Chiede il loro sangue, un sangue
pagano. E il senso di sfida, di oltraggio, risuona ancor più terribile nella
formula che suggella lo strano rito:
«Ego
non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli!»
urlò
Achab smaniando, mentre il maligno ferro divorava sfrigolando il sangue
battesimale. (p. 509)
Quanto al resto dell’equipaggio, la ciurma, è
variegatissimo. C’è un punto del racconto in cui i marinari intonano un coro e,
come in una sequenza cinematografica, sfilano uno ad uno di fronte al lettore. L’autore
non ne dice il nome, ma da dove provengono: da Nantucket, certo, e poi dalla
Francia, dall’Islanda, dalla Sicilia, da Malta e dalle Azzorre, dalla Cina e da
Tahiti, dal Portogallo, dalla Danimarca, dall’Inghilterra, da San Jago e da
Belfast… La ciurma, insomma, è un guazzabuglio di pagani e cristiani,
un’accozzaglia di «rinnegati e reietti» – sono termini di Melville – molti dei
quali portano a bordo del «Pequod» storie di dolore, di abbrutimento fisico e
morale.
Ma non importa. Ciò che è certo è che le simpatie
di Melville vanno proprio a tutti loro, come manifesta Starbuck, mentre medita
sulla grandezza dell’Uomo, sulla sua meravigliosa dignità:
Ma
questa augusta dignità di cui parlo non è la dignità dei re e degli
abbigliamenti … [è] quella democratica dignità che, su tutti, irradia senza
fine da Dio, da Lui! Il grande Dio assoluto!
Il centro e la circonferenza di ogni democrazia! (p. 147)
Una tale celebrazione della democrazia – americana, ovviamente – ci
porta dritto alle idee politiche dell’autore e, ancor prima, alla domanda che
finora volutamente ho eluso. Perché Melville ha racchiuso la storia del
«Pequod» in un trattato a tutto tondo sulla balena? Quale progetto vi è dietro?
E ancor prima, chi era Melville?
Nasce a Manhattan, Herman Melville, nel 1819. Ed è figlio di un ricco
commerciante e di un’austera calvinista. I nonni avevano combattuto per
l’indipendenza del suo paese: uno, come generale, l’altro prendendo parte al Tea Boston Party. Il padre gli parlava
dei lunghi viaggi in mare, delle tempeste, delle balene. Questo per dire che
patriottismo, spirito di ribellione, amore per il mare scorrono da subito nelle
sue vene. La morte del padre e i problemi economici lo costringono a cercarsi
un lavoro. Prova senza successo a impiegarsi, poi s’imbarca; prima su un
mercantile, poi su navi baleniere, con tanto di una parentesi sulle isole
Marchesi in mezzo al Pacifico, tra popolazioni cannibali.
La storia di Ismaele, per molti aspetti, ricalca perfettamente la
biografia dell’autore. Per cultura e posizione sociale Melville avrebbe potuto
aspirare a un posto da sottoufficiale. Invece sceglie di imbarcarsi come
marinaio semplice: «per via del sano esercizio e dell’aria pura che si gode sul
ponte di prora» spiega Ismaele, mentre «il commodoro sul cassero», che crede di
essere più importante, «riceve di seconda mano l’aria dai marinai del
castello». (p. 41).
Dopo anni di navigazione rientra nel New England per dedicarsi alla scrittura.
Lo può fare perché sposa una ragazza di buona famiglia, non certo grazie al suo
lavoro: mentre i primi racconti conoscono un qualche successo, Moby Dick sarà un grande fiasco. E se
oggi quest’opera è considerata uno dei capolavori dell’Ottocento lo si deve a
una riscoperta tardiva, non prima degli anni Venti del Novecento.
Ribelle, patriota, viaggiatore, Melville è anche un autore ambizioso e
allo stesso tempo pratico. Moby Dick è senz’altro la trasposizione letteraria di un’esperienza personale, ma è
anche frutto del progetto di scrivere un libro commerciale, un libro che si
potesse vendere bene. E non è un caso che l’idea gli sia venuta durante un
triste soggiorno londinese, alla disperata ricerca di un editore. Pare che
tutt’a un tratto abbia avuto l’ispirazione: dopo tanti «no, grazie», il suo
prossimo lavoro avrebbe spiazzato il mercato celebrando lo spirito americano,
l’avventura, il piglio eroico dei suoi connazionali. E quale miglior soggetto
della lotta contro i titani del mare che proprio gli abitanti di Capo Cod
avevano perfezionato?
Ma i piani spesso vanno rifatti da
capo se il destino s’intromette. Quando il libro è quasi terminato, ecco
l’incontro con Nathaniel Hawthorne, divenuto celebre grazie al successo di La lettera scarlatta (1850). L’effetto è
esplosivo: quella che avrebbe dovuto essere una «descrizione romantica,
immaginaria, piana e di facile lettura della caccia alla balena», secondo le
parole dell’autore, si trasforma in Moby
Dick: opera terribile e maledetta.
Melville si ributta dunque a
capofitto nel lavoro, divora libri su libri: ai più recenti trattati di
cetologia affianca la rilettura delle opere di Shakespeare, cioè la morale e la
politica, i saggi di Ralph W. Emerson sulla natura come luogo di rivelazione
del soprannaturale, Frankestein di Mary
Schelly, come dire l’orrore, i racconti di Thomas Carlyle imbevuti di sogni e
possessioni demoniache … e molti altri ancora.
Mostri, angosce, demoni, morale e
politica finiscono nello stesso
calderone: interrompono, allargano, in ogni modo stravolgono il progetto
originale. E tutti quanti precipitano nella redazione finale. Che così
diventa il contenitore di molte cose, dove ciascuno può appuntare lo sguardo
dove meglio crede. Anche per questo le interpretazioni fioccano.
Per
alcuni la dissennata caccia del capitano Achab assume i tratti di un dramma in
cui l’uomo, nel folle tentativo di trascendere i propri limiti, ingaggia una
lotta contro il soprannaturale e condanna se stesso e i suoi seguaci alla
morte.
Per
altri è l’epopea di un popolo multienico, dilaniato dal problema dello
schiavismo (quanti passi su questo tema nell’opera …) e proiettato nella
seconda rivoluzione industriale. Quando Moby
Dick esce, nel 1851, la lucrosissima industria baleniera è ai suoi massimi
splendori (tra breve arriverà il declino, ma nessuno può saperlo), ma con la
scoperta dei giacimenti californiani è già scoppiata la febbre dell’oro: il
paese, lo si sente, naviga verso nuove espansioni economiche e demografiche
Per
altri, al contrario, l’estenuante
lavoro sul «Pequod» – una baleniera è una fucina che non si ferma mai – altro
non sarebbe che l’anticipazione della fabbbrica fordista, delle sue molteplici
alienazioni.
E
ancora: secondo alcuni il cuore del romanzo sarebbe lo scontro tra Achab e la
balena (Dio o diavolo? L’orrore o il sublime?), per altri tra Achab e Starbuck (la
follia contro la ragione), per altri ancora tra Achab e la ciurma. Ma qui
fermo, perché è alla questione politica che mi preme tornare.
C’è anche chi, nel «Pequod», ha visto la metafora dello Stato. Gli
antecedenti di certo non mancano; la metafora nave Stato è presente fin da
Platone, se non addirittura da prima, ed è stata ripresa infinite volte. Se non
che, solitamente, essa simboleggia il valore del capitano, serve cioè per
mettere in risalto la figura di colui che governa la nave.
Il movimento di Melville è diverso (per lo meno in questo lavoro, perché
altra cosa sono Benito Cereno e Billy Budd, due racconti tardivi). Moby Dick mostra i pericoli che si
corrono quando alla guida c’è un cattivo capitano. Cattivo non perché gli
manchino le competenze … Anzi! il vecchio Achab è un grande capitano, «è fuori
del comune» ed «è abituato a cose meravigliose più profonde del mare» (p. 114).
Ma è ossessionato dalla balena bianca e questo gli ha fatto perdere di vista
l’obiettivo originario dell’impresa – obiettivo tipicamente americano,
aggiungo: arricchirsi tutti, anche se in proporzioni diverse.
Sul piano politico, c’è dunque che Achab – il capitano dispotico – affascina.
Mentre scorrono fiumi di grog, stringe l’intero equipaggio al giuramento:
tutti, nessuno escluso, daranno la caccia alla balena maledetta. E se neppure il giusto, il retto Starbuck
è capace di sottrarsi al voto blasfemo, né poi di fermare il suo capitano, è
perché anche lui in fin dei conti non sa resistere alle seduzioni del potere.
C’è un monologo lancinante, a questo proposito, che si compendia nell’ossimoro:
«ubbidire ribellandomi» (p. 200). Così la tragedia finale non potrà essere
evitata, nonostante una serie inequivocabile di profezie e di presagi.
Con l’immagine del cattivo capitano, insomma, Melville sembra voler
mettere in guardia la giovane e impetuosa democrazia americana additandole il
pericolo, sempre in agguato, del tiranno. Ma i tratti di questi diversi modelli
politici il lettore deve andare a cercarli là dove meno se li aspetta: … a
tavola!
Quale contrasto tra il pranzo degli ufficiali e il pranzo dei
ramponieri! Il primo si svolge
all’insegna di un terrore reverenziale ed è scandito da regole non dette, ma
non per questo meno rigorose. L’altro, che si tiene a ruota nello stesso luogo,
la cabina, è tutta un’altra storia.
Con l’intollerabile imbarazzo e con le invisibili
tirannie senza nome della tavola del capitano facevano bizzarro contrasto
l’assoluta, spensierata licenza e facilità e la democrazia quasi folle di
questi tipi inferiori che erano i ramponieri. Mentre i loro padroni, gli
ufficiali, parevano temere il rumore dei cardini delle proprie mascelle, i
ramponieri masticavano il cibo con tanto gusto che se ne sentiva l’eco. (pp.
181-2)
È una pagina, tra le tante, che andrebbe gustata nella sua interezza. Ma
questo schizzo sulla democrazia gaudente, sulla «assoluta, spensierata licenza» (che non sfugga la parola: è
proprio questa la democrazia che Platone stigmatizzava) basta già per
pungolarci con un interrogativo: come se soltanto ai pagani sarà dato di godere
di quel frutto che Rousseau, ricordiamolo, considerava riservato agli dei. Ma
la domanda ci porterebbe lontano, mentre è tempo di chiudere.
Lo farò riallacciandomi a due tipologie di viaggio proposte, in un precedente
incontro, da Francesco Parasole.
Quello di Achab mi sembra un
viaggio abramitico, senza ritorno, non perché Achab se ne infischi del ritorno,
anche lui ha una moglie e un figlio ad aspettarlo … Ma il suo, prima di tutto,
è un viaggio-assedio, un viaggio-vendetta. E Starbuck glielo grida in faccia:
«Iddio, Iddio è contro di te, vecchio; lascia! È un viaggio del male!» (p.
525).
Quello del «Pequod» mi suona
come un viaggio ulisseo: anche in considerazione della tecnica, del saper fare
di ogni nave baleniera, e non solo per il desiderio di tornare alla cara
Nantucket, proprio «là dove crescono» le ciliegie (p. 585). Tuttavia, proprio
perché incapace di ribellarsi – tradotto sul piano politico, perché incapace di
difendere la democrazia – l’equipaggio sarà inghiottito dall’oceano, ad
eccezione del solo Ismaele.
Quello di Moby Dick, invece, non è un viaggio, per lo meno non è un
viaggio con o senza ritorno. Lo studio del comportamento dei cetacei è
piuttosto recente: solo da pochi anni sappiamo che il capodoglio percorrere
decine di migliaia di chilometri ogni anno e non per ragioni riproduttive o
nutritive. Viaggiare è nella sua essenza, è la sua stessa natura.
Così, quale incanto la chiusa del libro … E non alludo a Ismaele, raccolto dopo un
giorno e una notte dalla pietosa «Rachele».
Voglio piuttosto pensare che Moby Dick, benché arpionata e ferita, sia
tornata a viaggiare: a inabissarsi per poi riemergere, a soffiare e a saltare,
a muovere l’enorme coda esibendo su tutti gli oceani la sua leviatanica
potenza.
mercoledì 14 maggio 2014
Variazione del Programma e prossimo incontro
A causa di impegni sopraggiunti il Prof. Neyroz non potrà tenere l'incontro del 24 maggio prossimo, che quindi si terrà a data da destinarsi.
L'incntro di sabato prossimo con Il prof. Zappalà e l'azienda G.B. Vajra di Barolo si terrà regolarmente. Come sempre siete tutti invitati.
Alcune info sul Prof. Zappalà
Invervista biografica qui sotto.
http://www.osservatoriofeynman.eu/interviste%20scienza/Zappala.html
Sull'azienda G. B. Vajra
ecco alcune notizie
Aldo Vajra inizia ad interessarsi all’azienda agricola di famiglia durante gli anni dell’università ed esordisce nella difficile annata del ’72. Si allontana presto dai produttori “modernisti” e inizia un percorso personale, in equilibrio fra tradizione e modernità.
L'incntro di sabato prossimo con Il prof. Zappalà e l'azienda G.B. Vajra di Barolo si terrà regolarmente. Come sempre siete tutti invitati.
Alcune info sul Prof. Zappalà
Vincenzo Zappalà (1945) è un astronomo italiano. Il suo campo di interesse prevalente è quello relativo allo studio del sistema solare ed in particolare dei corpi minori, quali comete ed asteroidi. Il MPC gli accredita la scoperta di noveasteroidi.
Vanta al suo attivo oltre 250 pubblicazioni sulle maggiori riviste scientifiche internazionali. I suoi maggiori risultati scientifici hanno riguardato lo studio delle proprietà rotazionali degli asteroidi e la definizione di un nuovo metodo, oggi universalmente riconosciuto, per la definizione delle famiglie asteroidali. È stato varie volte membro di consigli scientifici di congressi internazionali, oltre che presidente di alcuni di questi. Ha tenuto numerose conferenze in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e in Russia (presso l'Accademia delle Scienze). Dal 1997 al 2000 è stato il Presidente della Commissione 15 dell'Unione Astronomica Internazionale, di cui è membro dal 1975. È stato anche co-leader del gruppo di lavoro sul sistema solare della missione spaziale Gaia.
Gli è stato dedicato l'asteroide 2813 Zappalà, scoperto da Edward L. G. Bowellnell'Osservatorio Lowell di Flagstaff in Arizona.
http://www.osservatoriofeynman.eu/interviste%20scienza/Zappala.html
Sull'azienda G. B. Vajra
ecco alcune notizie
La cantina: L’azienda agricola G. D. Vajra è proprietaria dei migliori terreni di località Vergne, a metà strada tra Barolo e La Morra. Si tratta di una zona piuttosto elevata del comprensorio di Barolo, dove nascono vini di grande finezza e complessità aromatica.
Aldo Vajra inizia ad interessarsi all’azienda agricola di famiglia durante gli anni dell’università ed esordisce nella difficile annata del ’72. Si allontana presto dai produttori “modernisti” e inizia un percorso personale, in equilibrio fra tradizione e modernità.
Produce vini integri, rispettosi del terroir, eleganti e freschi. Con l’appoggio della moglie Milena, donna dalle straordinarie doti umane, estende la superficie aziendale con nuove vigne e nuove varietà, condotte secondo i criteri dell’agricoltura biologica. Oggi l’azienda si estende su una superficie di 50 ettari, nei comuni di La Morra, Barolo, Sinio, Serralunga, Novello e Mango.
sabato 3 maggio 2014
Commento di Cristina Cassina alle valutazioni sul web
Interessante questo sito che ci segnali ...
Altro che Moby Dick, questo sì che fa paura!
E avrebbe fatto paura soprattutto al capitano Achab, visto che nella pseudo sinossi del libro
si
segue non il romanzo, di circa 600 pagine – come sottolinei tu stesso
per l'appunto – bensì la trasposizione cinematografia di J. Huston !
Di
più non dico, no ... le tre stelline ... la valutazione ...
bibliometrica o non bibliometrica ... no, proprio non ce la faccio.
Certo, hai ragione. La vera bellezza di un classico è che si torna sempre a discuterne.
Meglio ancora se in buona compagnia.
Un abbraccio
Cristina
venerdì 2 maggio 2014
Moby Dick - il prossimo libro e i commenti sul web
Come saprete dal programma il prossimo incontro di un vino .. un libro avrà come argomento il libro Moby Dick di Melville commentato da Cristina Cassina e i vini della Tenuta Mariani di Massarosa.
Quello di cui però vorrei parlare oggi è di come si siano diffusi sul web i siti di recensioni di libri e come questi affrontino classici di questa portata.
E' indubbio che l'esigenza gallileiana di misurare tutto il misurabile sia il paradigma della nostra epoca. Si danno giudizi e punteggi in centesimi ai vini, in stelle ai ristoranti, in forchette alle osterie, in "faccine" all'umore ecc. ecc. , ma trovare commentatori di un libro come questo di oltre 600 pagine che condensano il tutto in tre categorie : stile , contenuto, piacevolezza mi pare oltremodo riduttivo . Lo so qualcuno citerà Eco e il suo Diario Minimo con le tre recensioni anomale, ma qui si cercava una chiave di lettura tra il faceto e il sarcastico non un punteggio assoluto.
Rimane la consapevoleza, leggendo queste recensioni , credo fatte in buona fede che siano la prova più lampante di come un vero capolavoro possa prestarsi a molti livelli di lettura ma anche a notevoli incomprensioni.
Attendendo il commento di Cristina Cassina.
Per vedre le recensioni di cui parlo seguire questo link http://www.qlibri.it/narrativa-straniera/classici/moby-dick/
Lamberto Tosi
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