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giovedì 3 novembre 2016

Morto Remo Ceserani , uno dei più importanti italianisti degli ultimi 50 anni

Nato a Soresina nel 1933 si laureò con Fubini a Milano.
Fu fra i maggiori studiosi di eclettismo e letteratura in Italia .
Di lui riportiamo ( nel collegamento che segue ) un articolo sul tema.
http://www.leparoleelecose.it/?p=24886

lunedì 3 ottobre 2016

Il collezionista di Tramonti - Recensione conferenza sul libro di S. T. Kondrotas


Realtà e Magia
in
SAULIUS TOMAS KONDROTAS
di
Francesco Parasole


«Mutare d’identità non significa però rinascere, smacchiarsi la coscienza.
Mutiamo quando risaliamo nel nocciolo oscuro della nostra interiorità
e scopriamo due cose: innanzitutto che siamo diminuiti, esseri claudicanti;
e poi che questa nostra condizione è comune a tutto il genere umano,
fa parte della nostra integrità»

Haim Baharier, Qabbalessico

Recensione a: S. T. Kondrotas, Il collezionista di tramonti ed altri racconti, (Trad. e cura di Pietro U. Dini), Books & Company, Livorno 2016.

In un paese conosciuto da pochi solo sulla carta geografica, o come nudo nome della costellazione europea o per qualche campione sportivo. In un paese iperboreo, quando ormai si è persa ogni memoria mitica che ci rammenti degli iperborei, leggendari “coltivatori” d'ambra. In un paese sospeso fra marginalità e oblio, dove il sole si dice con un sostantivo femminile (saule) e la luna è maschio (menulis). In un paese dove la lingua è antica e tenacemente resistente. In un paese che ne ha visti nei secoli di tutti i colori, ma che rimane immerso in una nebbia concreta ma anche metaforica. In un paese come questo, capirete, possono succedere cose interessanti che l'ormai smemorato Occidente non verrà mai a sapere.
Una di queste cose interessanti, ad esempio, è che in Lituania nacque nel 1953 lo scrittore Saulius Tomas Kondrotas, “illustre sconosciuto”, a cui quest'etichetta ben si adatta, finalmente riempiendosi di senso. Cito, al proposito, le brevi note biografiche del curatore e traduttore della raccolta, Pietro U. Dini: «prosatore, sceneggiatore, fotografo, ha studiato filosofia e psicologia all'Università di Vilnius fino al 1976; in seguito ha lavorato nella redazione dell'Enciclopedia lituana e, dal 1978, insegnato filosofia all'Istituto di Belle Arti della stessa città. Dal 1980 poté dedicarsi esclusivamente all'attività creativa, ma nel 1986, approfitando di una visita in Germania, chiese asilo politico nella Repubblica Federale...Da allora, e fino alla nuova indipendenza della Lituania (1990), è stato ufficialmente considerato un autore proibito. Nel 2004 si spostò a Praga...e successivamente si trasferì negli Stati Uniti d'America dove ancora oggi vive e continua la sua attività creativa, nel frattempo di nuovo apprezzata anche in patria. Negli ultimi anni però affianca alla letteratura (e forse privilegia) l'arte della fotografia» (dalla Postfazione, Felicità e noia in S. T. Kondrotas, pp. 166-167). Un autore proibito dal basso profilo, autoesiliatosi senza clamore e senza quella smania di fare il personaggio, così tipica di molti intellettuali transfughi (e non). Un profilo biografico comune a tanti intellettuali, tanto comune e rarefatto da essere considerato politicamente inutilizzabile finanche dall'opposizione di quel regime da cui era fuggito.
Per questa sua totale assenza di protagonismo, la figura di Kondrotas mi sta simpatica e mi accresce a dismisura il piacere della scoperta e il piacere di offrirlo, pressoché per la prima volta, ai lettori italiani. Prevalentemente scrittore di racconti, ha al suo attivo anche 2 romanzi, Lo sguardo del serpente (1981), tradotto in italiano da una traduzione francese, per la Mondadori nel 1990 col titolo La solitudine dell'acqua (ormai introvabile), e il romanzo (saga familiare) E si rattristerà guardando dalla finestra (1985), non ancora tradotto in italiano.
L'identità di un popolo e, conseguentemente, di uno scrittore di quel popolo, sta anche (e per i lituani soprattutto) nell'uso e nella custodia della propria lingua. L'autoesiliato Kondrotas continuerà a scrivere nella propria lingua, restando così in qualche modo in Lituania, celebrandone e preservandone in qualche modo l'identità, in se stesso e nel suo lavoro. In ciò diversamente dal più famoso scrittore ceco Milan Kundera, che pare ora scriva (direttamente?) solo in francese.
Dello scrittore in Italia già si conosceva un unico racconto, grazie ad Alessandro Baricco che lo citò da una prima traduzione sempre del linguista e filologo baltico Pietro U. Dini. Il racconto era Il collezionista di tramonti, proprio quello che dà il titolo a questa nuova antologia qui presentata. La versione orale che ne dette Baricco in 7 minuti circa, in una delle ultime puntate della gloriosa trasmissione Circolo Pickwick, è tuttora reperibile e godibile su https://www.youtube.com/watch?v=D99sq7S8kmE. Peccato che Baricco si dimenticasse di citare sia il nome dell'autore che quello del suo traduttore in italiano. E che il racconto, affabulante, affascinante, avvolgente, risultasse una rielaborazione totalmente “baricchiana”, tipica delle sue performances, che poco ha a che vedere col racconto in questione, anch'esso affascinante, affabulante, avvolgente ma per altre note, altri sapori, altre obliquità di sguardo. Non sempre giova l'affinamento in barrique per certi vini... Si rischia di renderli “ruffiani”, così come se non erro ci ricorda lo stesso Baricco in un suo saggio, e disperdere la loro forte personalità, unica, inimitabile ed altra.
Kondrotas, che meriterebbe d'essere maggiormente conosciuto in occidente (nozione ormai vaghissima, questa d'occidente, ma prendetela per buona), ha il fascino di uno sguardo altro, la rara dote di farci percepire della realtà gli interstiziali frammenti di assurdità e magia. Assurdità e magia non prive in alcuni casi di effetti comici o tragicomici. Ha la rara dote di aprire il reale al fantastico, partendo da un'impercettibile fessura che nel farsi della narrazione progressivamente si allarga e ci immerge in un altro mondo rispetto a quello inizialmente creduto. L'alterità poi, per noi lettori d'altra latitudine e d'altro orizzonte, è duplice: quella esotica del mondo baltico a noi sconosciuto, e quella esoterica (direi quasi virginalmente iniziatica) di un mondo più esteso e nascosto di quello visibile. Quel tipo di esoterismo che solo la vera letteratura sa farci dischiudere oltre il velo di Maya. In questo scrittore è la trama che, infine, cede il passo all'ordito, più complesso e labirintico, e indubbiamente più esteso.
Kondrotas semplicemente si chiede: «cosa sia nascosto nella profondità del nostro corpo o della nostra anima». Il suo fare artistico e lo stile che lo supporta hanno ricordato ai critici Jorge Luis Borges e Italo Calvino (esattezza, rapidità, leggerezza, visibilità, molteplicità e la mai scritta consistenza). Io aggiungerei anche il Dino Buzzati dei racconti (in particolare della raccolta Sessanta racconti, Mondadori 1958). Qualcuno ha anche opportunamente parlato di Kafka (così li scomodiamo più o meno tutti, i mostri sacri). Ed in effetti molti di questi racconti sono racconti di metamorfosi ed anamorfosi, fenomeni dove meglio si annidano l'esotismo e l'esoterismo di cui sopra dicevo.
E' sulla nozione di esotismo – che il traduttore-curatore ha cercato con successo di mantenere nel suo “trasporto” dal lituano all'italiano - su cui vorrei soffermarmi. Se tralasciamo la vulgata del “pittoresco” da puzzina sotto il naso, o lo stupore ingenuo di matrice new age, esotico è, propriamente, «ciò che (ci) viene da fuori». Qualcosa che si percepisce come “extra-neo”, non edulcorato (metabolizzato), nel nostro caso non occidentalizzato, a cui da una parte ci si abbandona (un canto di sirene), dall'altra, a volte con cautela e sospetto, si sente la necessità di comprenderlo, per ciò che ci differenzia, per quel che ci accomuna. Esotico è la percezione di estraneità all'interno dell'umano. E' qualcosa di straniero, ma che sentiamo che anche ci appartiene, che, in un modo misterioso (suggestivo), fa parte di noi, è dentro di noi. Ciò che di noi non conosciamo, e che uno straniero ci fa percepire, è esotico. E' acuto sentimento di reciprocità e intuizione sentimentale della necessità dell'incontro. L'esoterico, più interiore e personalizzato, è ciò che resta in noi dopo un incontro (magari con Dio – il totalmente altro -, magari con un altro essere umano, o con noi stessi …magari con narrazioni che ci fanno riflettere, come quelle di Kondrotas).
Il mondo magico e pagano (le popolazioni baltiche furono le ultime ad essere “cristianizzate”), mescolato ad una cristianità tardiva e talvolta “eretica”, unitamente ad una lingua arcaica, ancora parente stretta delle tribù indoeuropee erranti dell'Europa orientale (i linguisti storico-comparatisti parlano, per la lingua lituana e lettone, di «dinosauri linguistici»), sono la sostanza ed il fascino di questi racconti. I meccanismi narratologici hanno qualcosa della narrazione mitica, dove, come già menzionato, nel quotidiano più banale s'insinua l'inaudito e si sfocia nel surreale. Tutto questo ha fatto parlare, con tutto sommato felice etichetta, di “realismo magico” di Kondrotas. Dove la “magia”, anche qui con uno scarto di senso, va intesa non tanto come eclatante manifestazione soprannaturale, quanto come imperscrutabile ordito che sostiene il cosmo e che, talvolta e con fugace parsimonia, si palesa nel continuum per brevi tratti, accenni e suggestioni. Con tutti questi ingredienti, Kondrotas realizza un anti-canone letterario; a un livello più semplice costruisce allegorie ed infine induce a «guardare il mondo con occhi indipendenti». Tutti aspetti che ci fanno capire come Kondrotas non potesse non essere considerato un autore proibito dagli ultimi colpi di coda del realismo socialista. Le «magnifiche sorti e progressive» di un regime totalitario, ancorché ormai prossimo a trasformarsi in altro Leviatano, non potevano permettere che «la creazione» fosse «una spinta verso la libertà. La liberazione da ceppi personali, un modo di oltrepassare i confini della mente, del potere, della società, della religione, della coscienza, del canone» (vedi Postfazione cit. e Prefazione – Fenomenologia di un autore proibito).

La raccolta che qui si presenta comprende tredici racconti esemplari di questo schivo scrittore. Vi invito a vederli più da vicino.

    • Il collezionista di tramonti ha la levità e la levigatezza di un sogno che a fatica si fa strada nel grigiore e nella mediocrità del protagonista. Leggero come la casualità di un incontro, lucente e liscio come il balenìo di un tramonto, una volta penetrato nella realtà attraverso un enigmatico annuncio di giornale, nella sua insensatezza dà senso alla vita di chi lo accoglie. E collezionare tramonti diventa profonda consapevolezza dell'esserci, testimonianza del passaggio, poetica redenzione.

    • Come mio bisnonno ritornò sulla retta via è un simpatico, umoristico e surreale apologo sulle manie di grandezza e il desiderio di immortalità. Un nipote ricorda, in una sorta d'epopea familiare, quando i suoi avi furono Giganti (o, meglio, avrebbero voluto esserlo). Dove il mito, oltre che tradizione, si fa incarnazione di un desiderio antico.

    • L'amore secondo Juozapas (Giuseppe) è la storia d'amore di un macellaio di Praga verso un'ingrata prostituta. Dalle nuances tragicomiche, vi si celebra una vera e propria (e alquanto originale per la verità) “metafisica della carne”. Il simpatico, sensibile macellaio, in genere modello letterario di un certo erotismo pecoreccio e sbrigativo, qui assume la sacralità di un sacerdote, ministro del sacrificio sull'altare di un amore piuttosto particolare.

    • Nella nebbia è la mia anima, nell'immersione progressiva in una nebbia che invade un aeroporto di notte (una nebbia come solo uno scrittore del nord sa descrivere), si dipana fantasmatica un'originale riflessione sulla morte e sul suo mistero. La morte di un amico, sempre inaspettata, sempre acerba, si trasforma, mentre Kondrotas ce la narra, nel racconto che l'amico stesso avrebbe dovuto scrivere sull'enigma della morte. Di ogni morte. «Ora Lukas non fischiettava più le vecchie melodie e non pensava più alla sua infanzia. Si sforzava soltanto di non distogliere l'attenzione dalla strada e dalla nebbia, e qualche tempo dopo cominciò a pensare all'Ättestupa. Nel suo racconto La Torre di Babilonia un medico avrebbe dovuto riflettere proprio su questo» (p. 51).
      Sì, l'Ättestupa, termine svedese per «precipizio», «dirupo», o più propriamente, in questo caso ripreso dall'antica tradizione nordica, «mitico luogo dove avveniva il suicidio delle persone anziane (senicidio)», l'abisso dove si consumava il suicidio rituale di chi aveva troppa vita sulle spalle.1 In questo racconto è proprio la nebbia dell'aeroporto di Odessa che «allarga gli occhi» del protagonista (da Babilonia alle plaghe iperboree), che così tenta – forse invano – di dare risposta all'epigrafe in soglia del racconto: «Ogni morto è una sfinge, un enigma irrisolto» (H. K. Andersen).
    • Caolino ci conduce nuovamente in una storia d'amore. Una donna che celebra la vita come fatica e lutto costante. Una donna la cui forza affonda nel fango di un bosco d'autunno, la cui resistenza è fatta di solitudine e oblio. E infine un uomo irrimediabilmente votato all'adorazione di questa imperturbabile ninfa dei boschi...ma terribilmente brutta! Disarmante poetica di un “eroe” che continuava a vedere le cose così come gli erano apparse per la prima volta. Odori, giochi di ombra e luce, in un tempo che sfuma le sue categorie senza che noi ce ne accorgiamo...dal medium di un'antica fotografia color seppia, un fantasma s'incarna evocato da un essere umano che a sua volta evanesce.
    • Si fa giorno. E' la beffa di un folletto immortale, ma vecchio. Spiriti, folletti e serpenti sono numerosi ed attivi anche nella mitologia baltica (lituana e lettone). Addirittura, il serpente è un dàimon benevolo, contrariamente alla nostra tradizione giudico-cristiana. In questo racconto (come un po' in tutti del resto) s'insinua in chi legge una sottile inquietudine, un benefico disagio, che però rimane inespresso, sospeso e senza scioglimento. Qui l'autore ci costringe ad identificarci non con il protagonista, ma con i personaggi secondari, gli anonimi sciatori in pausa in un bar di montagna. La descrizione di una nevicata che copre a manto una stazione sciistica ci rende consapevoli del fare magico di Kondrotas. La sua magia (forse quella vera?) ha la funzione di sostenere, tenere insieme una realtà, la nostra, che altrimenti inaspettatamente potrebbe scollarsi, disgregarsi e dissolversi.
    • La nascita di un popolo. Un titolo questo che, a leggere il divertente racconto, a tutta prima sembra pretenzioso. Vi si narra di montanari che per la prima volta scendono al mare, a conoscere dal vivo la gente di città. Questa la trama scontata. Ma da una piccola fenditura di questa gita tutto sommato godereccia (quanto alle riposte speranze dei rozzi partecipanti), fluisce e si amplifica un respiro mitologico, fino a farsi epos e metafora della nascita di un éthnos; la nascita, appunto, di un popolo che s'individua nell'incontro-scontro con l'altro e inventa così una propria tradizione identitaria e una propria nobiltà.
    • Facezia è la descrizione di un incubo tecnologico che efficacemente e originalmente allegorizza la condizione esistenziale di chi vive sotto un regime totalitario. Uno “scherzo” onirico tragicamente connotato, un “motto” di spirito in cinque tempi: metamorfosi, aspirazione, compressione, lavoro, espulsione. Questa scansione è paradigma della meccanica esistenziale del protagonista che si ritrova “magicamente” miniaturizzato e scaraventato dentro il motore della sua motocicletta. Qui, questa volta, la magia è impiegata da Kondrotas per rappresentare una realtà di oppressione ed alienazione; quasi uno specchio che riflette immagini rovesciate.
    • Il giuramento. Racconto breve dove una profonda erudizione sottesa è filtrata da una poetica leggerezza di stile. Testo enigmatico ed evocativo, nell'incerto supplizio di un possibile eretico (da cosa? Da chi?), si riflette umilmente su verità, rivelazione, memoria e oblio. La necessità o meno delle illusioni, di una fede, dell'abbandonarsi alla “Parola” (ma quale?), la necessità di un'infinita interpretazione (tuttavia sempre provvisoria), fino alla maturazione di una vera e propria ermeneutica del suicidio, come unica possibilità di liberazione. Anche qui come altrove in Kondrotas «il modello di mondo della sua creazione si fonda su un principio di mentalità primitiva e mitologica, in esso si fondono insieme mito e realtà, leggende bibliche e presente» (vedi Postfazione cit.). La tematica mistagogica del racconto pur non distoglie il protagonista dal formulare una considerazione di livello apparentemente più basso (politico) ma esistenzialmente altrettanto affliggente: «E allora avverto di non essere ormai l'unico murato vivo nel mio paese, Lui è già qui...» (p. 86).
    • La volpe rossa è un altro racconto di metamorfosi (ben tre metamorfosi che s'intrecciano), di trasmigrazioni e dissolvenze. E' la storia dell'ultima caccia del più vecchio cacciatore di Sniegovija. Siamo nel 1943, ce lo dice espressamente l'autore, ma tutta la narrazione affonda in un tempo arcaico, nell'ucronia sospesa del mito. Storia dalle profonde radici antropologiche, di tracce, odori, amori e sorrisi di volpe, di spiriti della danza (hoprat) e afrori animali, dove «Kondrotas introduce il lettore in un mondo “pericoloso” alla maniera di Kafka...dove gli eventi della quotidianità più comune vengono presentati in una dimensione segreta, terrificante, senza alcuna spiegazione» (vedi Postfazione cit.). Dove cacciatore e preda si scambiano le parti per poi confondersi, dove il “Pie(t)rino” di Sniegovija (come di ogni paese) accoglierà infine in sé lo spirito della volpe e del cacciatore insieme.
    • La casa sospesa. Una casa solitaria, da tempo messa in vendita, da nessuno da tempo acquistata. Non si tratta di una magia semplice, questa, né di un film dell'orrore. Potremmo dargli un sottotitolo, a mo' di guida per i naviganti: l'odore maschile della solitudine. Uno gnomo custode ben consapevole del mistero, pur tuttavia genuinamente ospitale. «Uno spesso strato di polvere copriva tutto...e il silenzio era soffice e poroso» (p. 110). Una sinfonia di odori che si riposano sotto la polvere. Ogni cosa, se ci pensate, quando è sotto la polvere si dice che si riposi. Come ci si riposa sotto coperte, calde e rassicuranti. Ma d'improvviso rimossa, la polvere disvela odori insopportabili, odori in agguato pronti ad assalirvi. Questi odori amari che hanno colori e sanno anche urlare, odori che non si riposano, che sanno aggredirvi e mettervi in fuga. Altro che Proust!
    • La campagna d'inverno. Distopia allegorica degna del migliore Philip K. Dick. Titolo ambiguo, ma niente a che vedere – lo scopriamo subito – con paesaggistiche divagazioni stagionali, melanconici bucolicismi nordici o più caserecci, per noi, accoramenti sentimental-canzonettari del tipo Il mare d'inverno. In un'atipica guerra fra Stati (ricordate Zamjatin di Noi e l'Orwell di 1984?), in un tempo che ha tutte le caratteristiche arcaiche di un futuro da incubo, gli strumenti musicali sono armi potenti la cui musica uccide, e gli orchestrali falangi di soldati condannati a morire ad ogni esecuzione.
    • La stirpe dallo stemma del centauro è l'ultimo racconto di questo esemplare florilegio del nostro autore. Forse quello più smaccatamente baltico (e lituano), ma non per questo meno “universale” e inquietante per la sensibilità dell'Occidente. Uno dei miti di fondazione di un popolo, che si sente sempre al contempo nel cuore e ai margini di un paese amato e sconosciuto, si trasfigura nell'indefinibile intreccio di epica e leggenda, fiaba di metamorfosi e crudele magia, destino tragico; dove occorrono personaggi che siano al tempo stesso persone, eroi, maghi (Merlino?) ed aedi (Omero?). Un racconto in cui s'indaga l'essenza e la fenomenologia della paura, in cui le colpe contaminano il destino delle generazioni, gli uomini per essere veramente tali devo diventare Centauri e la saggezza diventa menzogna se declinata nel tempo sbagliato («Però avvertii che quelle parole erano troppo sapienti per quell'ora, e perciò false» p. 139).
C'è tutto Kondrotas in questi tredici racconti che qui ho voluto solo tratteggiare come schizzi su un foglio, per fermare contorni di idee ancora embrionali e sfuggenti, per suggestionare e suggestionarmi in una sorta d'abbandono critico. La “critica”, per definizione e statuto, scompone e intorno ad ogni pezzo scomposto traccia un confine, cataloga. Ecco, io credo che lo stile di Kondrotas, il suo fare letterario (comporre), trascenda le sue componenti ancorché individuabili (scomporre). E che l'unico modo di comprendere sia l'abbandono nel godimento del tutto. Una magia chimica dentro una realtà che, invece, si vuole e si anela meccanica, per meglio controllarla ed esserne consolati. Kondrotas accetta la fluidità del reale, la sua alchemica sostanza metamorfica, disvelando l'illusorietà del meccanismo visibile. Godere della realtà (quella vera, inconoscibile se non per enigmi e riflessioni di specchio), godere dei racconti di questo autore, non significa approdare a certezze, poggiare su terreno sicuro, consolarci e restare sereni; godere (il vero godimento della letteratura) è avvicinarsi con timore e tremore al magma del mistero, subirne l'abissale orrore e la fascinazione della vertigine.
Oscenamente la bassa marea denuda il mare (La nascita di un popolo). Così Kondrotas nella sua dialettica lunare oscenamente denuda della realtà il magico segreto che essa nasconde. E non ci importa più che questa acuta alterità dell'essere gli derivi dalla sua balticità, dal parlare una lingua antica e gelosa custode di un ethnos, dall'aver vissuto sotto un regime che voleva la realtà uniforme e indistinta, dall'esserne fuggito. Tutto questo più non ci importa.
C'era un segreto da imparare. Un segreto nomade che ci è stato rivelato fra le tonalità dei grigi, fra candori di neve e le ambrate cromie boschive di questi racconti: siamo tutti esseri instabili ed erranti come le tribù degli Sciti descritteci per la prima volta da Erodoto; siamo tutti pellegrini e forestieri, anzi dei “sopraggiunti”, ed è solo se ci accomuna un senso di estraneità che diventiamo un popolo. Su questa estraneità fondiamo la nostra identità, anch'essa instabile e nomade, che è relazione di lontananza e vicinanza, insoluto mistero di marginalità nel cuore.

Livorno, 30 Settembre 2016


Francesco Parasole
1Già nell'antichità troviamo attestazioni di questa pratica presso popolazioni dell'estremo nord (gli Iperborei), ad es. in Procopio di Cesarea (VI d. C.); Pomponio Mela (I d. C.) e Solino (III d. C.) ne parlano a proposito della popolazione degli Heruli, considerati da alcuni studiosi etnia protobaltica.

lunedì 15 agosto 2016

Il menù della serata del 20 agosto

Come di consueto  seguirà l'incontro la cena con il relatore  e  il produttore presso l'agriturismo "Il Bardellino" che ci ospita.
Di seguito il menù:

Salumi e sgabei, torta di verdure, 
tagliatelle al limone e menta, 
grigliata di carne, patate al forno, 
crostata alla confettura ai frutti di bosco, 
acqua, vini, caffè, euro 25. 

Prenotazione obbligatoria entro il 18/8/16.
Telefonare x prenotazione al numero 
+39 347 655 3071



Come raggiungere l'Agriturismo:
Dall'autostrada A15 Parma La Spezia, uscita Aulla (MS) proseguire per Fivizzano, poi per Soliera, e troverete le indicazioni .
https://www.google.it/maps/@44.2119667,10.076267,722m/data=!3m1!1e3?hl=it

martedì 2 agosto 2016

Un vino un libro in azienda in Lunigiana

Nuovo incontro di Un Vino .. Un Libro in cantina.

Questa volta ad ospitarci è l'az. agricola e agrituristica "Il Bardellino"  di Soliera - Fivizzano (MS).
Questa  volta  avremo l'occasione di abbinare i vini come il Coriolano o il Ronco dell'Oratorio a un libro di racconti di un valente scrittore Lituano,  Saulius Tomas Kondrotas, presentato dal dott. Francesco Parasole che ha collaborato all'edizione italiana curata e tradotta da Pietro U. Dini.

Fine letteratura e fine  viticoltura per questo incontro lunigianese che sarà come sempre accompagnato da una cena proposta dall'azienda d un prezzo speciale.
qui sotto il volantino dell'evento con le informazioni utili.

Vi aspettiamo il 20 Agosto alle ore 18,00.



venerdì 3 giugno 2016

Il Testo della Relazione della Prof.ssa. Cristina Cassina sul libro Generazione X



Facendo seguito alle molte richieste pervenute, pubblichiamo con piacere il testo della Conferenza , ringraziando Cristina per la disponibilità.
Buona lettura.

Lamberto Tosi





Douglas Coupland,
Generazione X. Storie per una cultura accelerata (1991)



1. Generazione X. Storie per una cultura accelerata è l’opera prima di un autore canadese, Douglas Coupland classe 1961. Opera di una certa importanza: non solo perché lancia (non inventa[1]) un’espressione entrata prepotentemente nel dibattito pubblico, ma anche perché apre una fortunata carriera di scrittore e di artista: oltre una quarantina di pubblicazioni in poco più di 20 anni e moltissime esposizioni, collettive e personali.
Due anime che da sempre s’intrecciano nel suo percorso, come si coglie semplicemente sfogliando il libro[2]: una piccola fotografia è ripetuta all’inizio di ogni capitolo mentre, ai bordi, inserti grafici (vignette e non solo) e didascalici (per lo più definizioni di espressioni e parole di nuovo conio) accompagnano, pagina per pagina, la lettura. Il risultato è di offrire un’opera che sta a metà strada tra diversi generi espressivi. Una soluzione intrigante, certo, ma ciò che più mi interessa è il problema che Coupland solleva fin dal titolo dove campeggia l’idea di una certa generazione, che poi è la mia generazione.
Per entrare nel merito, d’altra parte, è necessario intendersi sulle parole, anzi sul significato della parola e della lettera che compongono il titolo dell’opera: Generazione X.

2. Comincio col dire una cosa che forse suonerà banale: al primitivo significato di generazione, che rimanda agli anelli biologici tra genitori e figli, nel tempo se n’è andato sovrapponendo un altro: quello secondo il quale «l’essere nati in un determinato periodo e aver vissuto gli anni cruciali della formazione in un determinato clima culturale, caratterizzato da particolari eventi storici, lascia una traccia sui modi di sentire, pensare e agire degli individui»[3].
Il secondo significato, al di là della citazione colta, è a tutti familiare. Ma proprio perché familiare tende a nascondere il fatto che alle sue spalle si situa una vera e propria rivoluzione, un cataclisma che riguarda il soggetto. Solo a partire da un certo momento si è infatti cominciato ad attribuire un valore particolare alla fase formativa degli esseri umani, accentuando diversamente l'infanzia e la giovinezza dalla maturità. Così, se di generazioni si ragionava pure nei testi antichi, le cose cambiano a partire dalla fine dell’età moderna – questo è il momento – quando prende piede una percezione della vita ritmata su fasi differenti. Tale rivoluzione, preparata da pensatori del Cinque-Seicento, affiorata nell’età dei Lumi ma lavorata a fondo solo a partire dal romanticismo, è legata alla sfera dei sentimenti e allo scavo nell'interiorità di ciascuno. Senza risalire troppo indietro, facciamo perlomeno un nome: Jean-Jacques Rousseau.
Il nuovo, o secondo significato di generazione, oggi appartenente al senso comune, è anche quello che ha attecchito nelle scienze umane e sociali. Il discorso qui si farebbe lungo (e, temo, noioso), per cui isolo due aspetti per altro correlati:
a. che le discipline storiche, sociologiche e politologiche non assegnano più alle generazioni una durata standard (i celebri 20-25 anni) perché una generazione dura fino a quando non se ne impone un’altra;
b. che con il secondo concetto di generazione si è cercato di mandare in soffitta il concetto di classe sociale, trasferendo appunto alle generazioni quel quid di conflittualità che da sempre è implicito nell'idea di classe sociale, ancor prima della diffusione delle opere di Marx. Da tempo il suo utilizzo annuncia un rapporto in termini oppositivi: si parla di una generazione ante-guerra in opposizione alla generazione dei baby-boomers, e più recentemente ... di generazione X.

3. Che poi è il titolo del racconto di cui ci occupiamo.
Sul nesso generazioneletteratura va detto che è vastissimo ma anche piuttosto recente. Recente nella misura in cui il genere del romanzo, tra gli ultimi arrivati nella grande famiglia della letteratura, ha subìto fatto propria la seconda accezione, oppositiva e conflittuale. Forse – ma è solo un'ipotesi – ne ha addirittura precorso la messa a punto nelle discipline accademiche. Come non pensare, anche in assenza del lemma generazione, a due capolavori quali Padri e figli di Turgenev (1862) e I vecchi e i giovani di Pirandello (1913)?
Gli esempi, ovviamente, non vengono per caso. Generazione X può tranquillamente collocarsi in questo filone contrappuntato da incomprensioni e tensioni generazionali. Se non che il titolo richiede una precisazione in più: la lettera X – che non appartiene al nostro alfabeto, ma al greco e al latino, nonché a molti altri alfabeti che da questi derivano – ha dietro di sé una pluralità di significati che meritano un inciso.

4. Il fatto più interessante è che con essa si è evocato di tutto e di più.
Andando alla rinfusa, la X ha simboleggiato cose tra le più sacre (la croce di Costantino, dove la Chi si sovrappone alla Rho per formare il monogramma di Christòs) e cose davvero profane (il tesoro nelle mappe dei pirati).
A metà strada potrei collocare i baci. Le X che chiudono le lettere e che stanno per baci provengono addirittura dal medio evo, quando gli analfabeti firmavano i documenti legali apponendovi una croce o una X. Chi firmava, baciava il segno per promettere di mantenere fede all’atto. Altro fatto curioso: oggi si guarderebbe con sufficienza mista a commiserazione se qualcuno apponesse il segno X a mo’ di firma, e al tempo stesso consideriamo davvero cool mettere tante X per simboleggiare altrettanti baci ... Scherzi della nostra memoria (bizzarramente) selettiva.
Qualche parola in più merita invece la leggenda[4] secondo la quale è dalla lingua francese che, per puro caso, proviene uno dei più importanti significati della lettera X: la sua associazione all’incognita. Prima nel senso tecnico, cioè di entità sconosciuta nelle equazioni algebriche; poi di incognita in senso generale, come nel caso del cromosoma X e dei raggi X: quando furono scoperti non era infatti per nulla chiaro quali fossero la loro funzione e le loro proprietà; e la X stava a significare proprio questo.
Questa associazione sarebbe legata alla prima stampa del trattato De la géométrie di Cartesio. Siamo nel 1638. Nel manoscritto il grande matematico aveva utilizzato le prime tre lettere dell’alfabeto (A, B, C) per indicare le costanti e le ultime tre per indicare le incognite (nell'ordine di utilizzo Z, Y, X). A lavoro avanzato lo stampatore, ormai a corto di Z e Y, chiese all’autore il permesso di usare più X, delle quali ancora abbondava. Cartesio rispose che la soluzione era accettabile, sancendo il successo dell’accoppiata X-incognita.
Se poi acceleriamo (come suggerisce il sottotitolo del libro) e veniamo a tempi assai più recenti, è difficile non constatare il boom della lettera X nell’epoca dell’informatizzazione. La X è ovunque ed espressioni quali X-file e X-factor suonano, per lo meno nelle intenzioni di chi le ha lanciate, accattivanti, stuzziacanti, in una parola .... positive.
Proprio per questo si fa fatica a immaginare che tale successo implica una riabilitazione: eppure è così. Il fatto è che in America – che del resto è la terra da cui ci vengono questi format televisivi – la lettera X ha a lungo indicato cose «proibite» o «pericolose». Per buona parte del Novecento è stata utilizzata per indicare la presenza di ingredienti pericolosi in prodotti destinati al grande consumo. Maggior risonanza negativa, però, ebbe una decisione presa nel 1968. In quell'anno l’associazione filmografica americana impose una classificazione della produzione nazionale. Così, tra i film destinati agli adulti, R stava per Restricted ed X per Extreme, la categoria che includeva anche la pornografia.
È anche importante precisare che non è questo il senso di Malcom X (+ 1965), il nome scelto dall’attivista afro-americano all’opera proprio in quegli anni. La sostituzione del cognome Little con la lettera X stava per «cosa perduta», voleva cioè sottolineare il fatto che la sua famiglia aveva perduto il nome originario quando fu portata via dall’Africa.



5. Non ho perso il filo e torno al romanzo, per dire che David Coupland non intende comunicare l’idea di una generazione incognita, una generazione estrema, perduta o pericolosa. Nient’affatto.
Due parole sulla trama.
Il racconto è scritto in prima persona: il narratore, Andy Andrew, è un giovane di quasi trent’anni che ha fatto una scelta di vita precisa. Si è lasciato alle spalle la famiglia, gli anni degli studi e alcune esperienze lavorative di un certo livello. Proprio da lì è nato il rigetto del modello yuppistico dominante l’America che traghetta negli anni Novanta, come pure di una società che inquina il pianeta con i suoi rifiuti e la tiene sotto scacco con la minaccia del nucleare. Matura allora la scelta di riparare in California, a sbarcare il lunario preparando cocktail nella surreale cittadina di Palm Spring, frequentata da pensionati facoltosi che si addensano nei Mall e nelle cliniche di chirurgia estetica: non dunque sulle coste, a cavalcare le onde dell’Oceano come ai tempi della beat-generation, bensì in una squallida cittadina ai confini del deserto californiano.
Una scelta di vita che Andy condivide con due coetanei, Dag e Claire, anche loro sovraistruiti (hanno frequentato le migliori università) eppure irremovibili nel preferire un McJob alle effimere battaglie per il successo. Da notare il neologismo, McJob, la cui definizione si trova puntualmente in una didascalia a p. 13 dell’edizione italiana: «impiego a paga irrisoria, basso prestigio, bassa dignità, bassa realizzazione e senza futuro, in genere nel settore dei servizi».
C’è un’altra ragione per la quale i tre diventano amici per la pelle. Benché di indole diversa (Dag in particolare è un tipo violento), nutrono un medesimo amore per le storie: inventano e si raccontano storie in qualunque momento. Il risultato è che il romanzo corre su diversi binari temporali dal momento che l’io narrante è continuamente inframmezzato da ulteriori inserti narrativi.
Ecco delineato il contesto: giunti in questo nulla che è Palm Spring, Andy, Dag e Claire vivacchiano, si divertono, praticano uno snobbismo politico-culturale che li porta ora a un cinico isolamento ora a sognare a occhi aperti rincorrendo miti futuri o miti che non ci sono più.

6. Tre giovani, il deserto, le storie: anzi il rito delle bedtimes stories (favole della buona notte). È attorno a questi fattori che Douglas Coupland organizza il tentativo di dare un volto a un gruppo giovanile non incognito, tuttavia sfuggente, prima di tutto alle maglie della sociologia. Non a caso l’idea di utilizzare la lettera X gli viene dalla lettura di un saggio di Paul Fussel[5] dove il grande storico della prima guerra mondiale invocava una nuova categoria per descrivere coloro che non appartenevano a nessuna delle tradizionali classi sociali. E parlava di X people, X persons.
Da queste espressioni al titolo del romanzo il passo è davvero breve. Ma Coupland – da romanziere di indubbio talento – lavora il materiale con spunti propri.
La sua idea di Generazione X appare nel bel mezzo di una favola della buonanotte. È Andy che ricorda un fatto vero, un fatto accaduto qualche anno prima. Si trovava in Giappone presso la redazione di una rivista per adolescenti nell’ambito di uno scambio universitario. Un giorno il signor Takamichi, «il Grande Vecchio della compagnia», appare improvvisamente ai piani bassi, formicolanti di impiegati, e gli rivolge la parola:

«lei deve essere Andrew». «Salga da me. Beviamo qualcosa. Facciamo quattro chiacchiere».

Non dirò ciò che succede dopo; voglio solo soffermarmi sui pensieri che, nella rielaborazione di Andy, in quel momento si accavallarono nella sua mente. Andy è consapevole che l’invito del Signor Takamiki ha scatenato la gelosia dei suoi colleghi giapponesi. È dunque a disagio, ma non al punto di perdere lucidità. Anzi, proprio sotto gli sguardi invidiosi che lo seguono, mentre si allontana con il « Grande Vecchio», mette a nudo tutta la differenza che corre tra due culture di una stessa generazione.

«Mi sembrava di subire in quel preciso momento la scomunica ufficiale dal corpo degli shin jin rui. È così che i giornali giapponesi definiscono i ragazzi sui vent’anni che lavorano negli uffici: i nuovi uomini. È difficile spiegarlo. Qui da noi [in America] c’è lo stesso gruppo giovanile, altrettanto grande, ma non ha un nome ben preciso … una Generazione X … che cerca deliberatamente di nascondersi. Qui da noi c’è più spazio per perdersi, con cui mascherarsi. In Giappone, invece, sparire non è concesso.»[6]

7. La X, allora, non è una generazione in senso generico, sconosciuta o inconoscibile. Al contrario: è una generazione di cultura nord-americana, prima di tutto, e ancor più precisamente un gruppo giovanile che non intende mostrarsi e cerca uno spazio in cui nascondersi.
Ora, se c’è qualcosa di stridente (paradossale, ironico, fors’anche grottesco?) nella ricezione di questo testo, cioè nel successo dell’espressione Generazione X, è il fatto di aver messo saldamente radici tra i guru della comunicazione pubblica di mezzo mondo. I quali, a forza di parlarne, hanno finito per distorcerne il significato: hanno associato ad essa l’idea di una generazione disimpegnata, fannullona, perdente, sfortunata, una generazione sacrificata, costretta ad accontentarsi delle briciole al grande desco del denaro e del potere.
E anche chi ha contrastato tale lettura non è esente dal sospetto di un intervento strumentale. Contro di essa prese posizione Bill Clinton: nel 1992, durante la campagna presidenziale, si rivolse agli studenti di un’università della California definendo gli X-voters non «fannulloni» (Slackers, come suggeriva il titolo di un film indipendente del 1991), bensì «cercatori». Ma era ovvio che il vero cercatore era lui, a caccia di quei voti.
 I sociologi, d’altro canto, non hanno perso tempo ed hanno inventato, dopo la Generazione X degli anni Sessanta e Settanta, una Generazione Y, quella che nasce tra la fine degli anni Ottanta e il 2001 (altra data periodizzante della storia statunitense). E già si guarda con interesse a una Generazione Z.
Ripeto, se c'è qualcosa di grottesco in tutto questo è che Coupland, a cui tutti si riferiscono, è il primo a non riconoscersi in tali letture. Lo ha anche ribadito più volte in interventi pubblici: «Generazione X è un’espressione tra le più abusate». La presa di posizione non deve sorprendere: Coupland fa letteratura, non sociologia[7]. E il suo racconto è tutto giocato su esistenze private, declinate al singolare, immerse in una cultura nord-americana e – soprattutto – frutto di scelte deliberate, nient’affatto subìte. Se le parole hanno ancora un senso …

«Noi viviamo vite piccole e di periferia; siamo ai margini, e ci sono molte cose alle quali decidiamo di non partecipare. Volevamo il silenzio, e adesso lo abbiamo.»[8]

Messa da parte la tentazione sociologica resta, però, la voglia di sapere qualcosa di più su questi giovani che sembrano far di tutto per starsene da parte. E poi perché il silenzio?
Torniamo al racconto.
Alla fine delle vacanze natalizie trascorse in famiglia e prima di riprendere l’aereo per «Stupidopoli», Andy, il nostro narratore, visita un parco della rimembranza, eretto in onore dei caduti in Vietnam. Lo accompagna il fratello Tyler, un giovane per ora avviato a un'importante carriera, dunque molto diverso da Andy. Tyler mostra rispetto per il luogo, ma non capisce perché Andy si interessi al Vietnam se, per usare le sue parole, «era già tutto finito prima ancora che tu diventassi adolescente».
 La risposta di Andy è duplice. Più sfumata nel rivolgersi al fratello, al quale parla di vaghi ricordi, «tutta roba vista in bianco e nero alla TV». Più profonda dentro di sé.

«Okay, certo, penso tra me, è vero, erano giorni molto brutti. Ma erano anche gli unici “giorni” che avrò mai: momenti di storia con la S maiuscola, in cui la ‘storia’ non era ancora diventata un comunicato stampa, una strategia di marketing e uno strumento cinico per campagne elettorali. E vi dirò, oltretutto non è che abbia visto neanche molto: sono arrivato a un grande concerto nell’arena della storia solo quando stava per finire l’ultima canzone. Ma ho visto abbastanza, e oggi che vivo in una bizzarra assenza di qualsiasi riferimento temporale, ho bisogno di un legame con il passato che abbia qualche importanza, per quanto flebile possa essere».[9]
           
8. Il punto merita attenzione. Perché aiuta a capire ciò che sta dietro al disimpegno, al cinismo, all'ostentato distacco dalla società. Tutti atteggiamenti alimentati da un disagio che, questa volta, è un problema davvero generale. Il fatto è che Andy, Dag e Claire si trovano a vivere in quel tempo che è stato definito «la fine della storia» (F. Fukuyama). Che non è la fine della storia in sé, ma casomai la mancanza di alternative alla sola ideologia ancora in piedi.
Si è anche detto che il cemento che più unisce questi giovani è la stessa passione nel raccontare storie. Costruire trame, proiettarsi avanti e indietro nel tempo, mischiare l’autobiografico e l’immaginario, è infatti la risposta – forse debole, ma ai loro occhi efficace – che hanno scovato per lenire il malessere prodotto dalla fine della storia.
Che si tratti di qualcosa d’importante lo si intuisce dalla serietà con cui rispettano le regole che loro stessi, usi a vivere nella più completa sregolatezza, si sono imposti: mai interrompere, mai criticare, le stesse regole che imperano nelle riunioni degli alcoolisti anonimi, nota Andy. In un mix di sacralità e funzione terapeutica.
Aggiungiamo che il deserto è il contenitore eletto di queste esistenze, tutte protese ad afferrare il tempo. Perché il deserto è uno strano mondo, vergine e allo stesso tempo ricco di miti del passato: la frontiera, i pionieri, il senso del selvaggio. Soprattutto, è lì che abita il silenzio e nel silenzio è più facile narrare. Il deserto, nota con felice espressione Andy, «è l’equivalente dello spazio bianco alla fine di un capitolo»: vale a dire terra di nessuno se non, forse, l’ultimo rifugio per chi è in cerca di libertà.
Il rito della narrazione e «lo spazio bianco» del deserto sono dunque i perni di un racconto che narra davvero – dobbiamo ora chiederci – solamente di singole … piccole vite? Una domanda volutamente retorica.
Claire, a un tratto, esclama:

«non è sano vivere la vita come se fosse una sequenza di piccoli momenti isolati e slegati. – O le nostre vite diventano storie, o altrimenti non c’è modo al mondo di viverle.»[10]

Così, senza clamore, con una prosa che scivola via come un fiume in piena, il romanzo di Coupland sale fino all’altezza della riflessione contemporanea. I suoi protagonisti, per un verso, provano sentimenti tipici della società post-moderna, a partire dal disagio che nasce in una società irrimediabilmente «liquida» (Z. Bauman); ma, per un altro, ambiscono a contrastarla, lasciando – attraverso la pratica della narrazione – tracce profonde, tracce visibili, oserei dire .... tracce solide.
La narrazione non va presa sotto gamba se, è stato scritto, è una forma di organizzazione dell’esperienza. Essa serve per costruire il mondo, per suddividere gli eventi al suo interno, per modularne importanza e significato. Non solo: senza di essa «ci perderemmo nel buio di esperienze caotiche, e probabilmente non saremmo affatto sopravvissuti come specie»[11].
Di tutto questo Andy, Dag e Claire sono (a modo loro) consapevoli:

«Sappiamo bene che è per questo che ci siamo lasciati tutti e tre le nostre vite alle spalle e siamo venuti nel deserto: per raccontarci delle storie e rendere le nostre vite storie degne di essere raccontate.»[12]

§. Infine, la domanda di rito. A quale genere ascrivere l’opera prima di questo versatile e prolifico artista canadese?
Se dall’importante dibattito attorno al tema generazionale isoliamo l’apporto specifico della critica letteraria, a seconda degli interpreti emergono tratti epici, in ragione della centralità del deserto, non pochi richiami a un tardo romanticismo, ma anche una vena di decadentismo, la quale – è una mia notazione – ancora una volta affiora negli anni che precedono un’altra fin de siècle.
Riferisco tuttavia più per dovere che per reale conoscenza della materia. Noto in ogni modo che sono generi classici quelli chiamati in causa, non filoni grunge, post-post-moderni o chissà cos'altro. Come i classici, e indipendentemente dalla fortuna (e distorsioni) del titolo, il romanzo di Coupland in effetti ha ancora tante cose da dirci.
Oltre al disagio del nostro tempo, vale la pena ricordare la privatizzazione del dissenso, un fenomeno descritto con grande lucidità prima ancora che un nume della filosofia contemporanea (Z. Bauman) lo tematizzasse: una ragione in più per lasciarsi tentare dallo spleen di questo frutto di ultima, anzi penultima generazione.



[1] Il primo utilizzo risale a un servizio fotografico americano del 1953 con il quale s’intendeva fissare i volti di una nuova generazione, quella nata tra gli anni Venti e gli anni Quaranta.
[2] Purtroppo, pur essendo un libro recente, la traduzione italiana è ormai esaurita da tempo. Lo si può prendere in prestito in biblioteca, comprarlo usato oppure leggerlo in lingua originale.
[3] A. Cavalli, Generazioni, in «Parolechiave», aprile 1998, p. 17.
[4] Ci sono altre possibili spiegazioni. Per indicare l’incognita, in un’equazione che ne contiene una sola, gli arabi usavano l’espressione «la cosa».
In arabo «cosa» si dice «shay», un suono simile alla X.
[5] P. Fussel, Class: a Guide through the American Status System, Simon & Schuster Touchstone: New York 1983
[6] D. Coupland, Generazione X. Storie per una cultura accelerata, trad. it. di M. Pensante, Milano, Mondadori 1996, pp. 72-73. Ancora nella stessa pagina: «Poveri giapponesi», pensa ancora Andy, «dovunque si trovino, sono in gabbia, inchiodati su quella loro scala sociale sempre ferma e noiosissima».
[7] A questa valanga di etichette, mi sembra che Coupland abbia risposto con la consueta ironia pubblicando Generazione A (2009): una favola distopica ambientata nel 2020.
[8] Coupland, Generazione X, cit., p. 21, i corsivi sono miei.
[9] Ivi, pp. 183-184.
[10] Ivi, p. 17
[11] La citazione è tratta da J. Bruner, La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 65.
[12] Coupland, Generazione X, cit., p. 17.