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sabato 24 gennaio 2015

PIUTTOSTO CHE ... RIFLETTERE SULLE PAROLE dI Francesco Parasole







«Siamo d’accordo, sono le parole che creano il mondo e io cammino su questo
mondo. Però mi attira ciò che si nasconde dietro ogni parola, dietro ogni tessera del mosaico planetario. Trattengo il fiato, mi tuffo sotto la superficie delle parole e scopro
mille mondi nuovi. Certo, mi sono lasciato un po’ d’aria per sorridere. L’ebbrezza da
profondità è una vertigine a portata di mano, poche righe sotto la superficie della pagina...».
Haim Baharier, Qabbalessico

 
Esistono vari tipi di “coscienze”, uno di questi tipi ci dice per l'appunto che «scienza e coscienza vanno scritti con la “i”» e il tipo in questione lo potremmo chiamare allora «coscienza grammaticale». Alcuni ribatteranno subito che faccio confusione fra “conoscenza” e “coscienza”. Per niente, “conoscenza” infatti non si scrive con la “i”. E poi, la “coscienza” è innanzi tutto uno stato interiore dell'essere umano, una potenzialità e una consapevolezza insieme, che vengono prima di ogni legge, regola o descrizione. In principio c'è la coscienza del linguaggio e della lingua, poi la conoscenza con le sue definizioni. E la “scienza”, che si scrive con la “i”, da che parte sta? La scienza, probabilmente, è un grande vaso dove confluiscono coscienze e conoscenze in maniera ordinata e congruente. Un archivio sempre vivo da cui attingere e a cui immettere i risultati o anche solo i conati della ricerca. E detto così, tout se tient. Ma le cose umane non sono mai facili, come lo è un teorema dimostrato.
Mi si obietterà allora che se “scienza” e “coscienza” si scrivono con la “i”, è perché siamo nell'ambito di nozioni quali: l'uso, la consuetudine, la convenzione e la regola, e quindi mi si dirà: «che ci combina scomodar la “coscienza” per questa elementare regoletta che ci insegnano alle scuole elementari (forse ancora)?». Ci combina, ci combina, perché il linguaggio è proprio come la coscienza, vive di libertà e di restrizioni. E funziona come il cuore: nell'alterno pulsare di diastole e sistole. E questo come preambolo può bastare.
La lingua italiana, come tutte le lingue del mondo, è dunque in movimento. L'Accademia della Crusca (per storia e leggenda guardatevi il sito) vigila. Vigila che il naturale sviluppo della lingua italiana, lo sviluppo che arricchisce e non depaupera, non si trasformi in ipertrofica babele. Una babele in cui la lingua da strumento di comunicazione diventi arma di fraintendimento e incomprensione. Vigila che non si trasformi, questo naturale sviluppo, in un'asfittica consunzione, in un'impotenza espressiva, arma di manipolazione e di ottuso conformismo. L'Accademia della Crusca vigila e mantiene viva la coscienza della lingua italiana. In questo caso “coscienza” è anche sinonimo di “identità”.
Ed è proprio da questo nobile osservatorio che è partito l'allarme del

piuttosto che...allarme che mi provo a propagandare, convinto che il (libero) pensiero passi (anche) dalla cruna dell'ago di una grammatica.
Su ogni cosa sarebbe necessario riflettere. Cercare di avere più (e ci insisto) “coscienza” possibile di ogni strumento che usiamo. Le parole, ad esempio. Maneggiarle con cura, rispettarle, apprezzarle, ovvero: saper attribuire loro il giusto prezzo, il giusto valore. Parole che hanno un'origine a volte lontana (etimologia), il cui significato nel tempo si è arricchito o specializzato (semantica) hanno da raccontarci molto di noi e della nostra storia. Anche le parole più piccine, le più umili, le locuzioni gregarie che servono da collegamento al discorso, snodi ausiliari ma fondamentali all'epifania del pensiero. Una di queste locuzioni è il nostro piuttosto che...vediamola più da vicino, scomponendola preliminarmente.
Più, può avere “più” funzioni grammaticali (anche aggettivo o pronome), ma qui ci interessa come particella avverbiale comparativa.
Tosto, con “tosto” il discorso si fa interessante. Forma avverbiale per “subito” (velocemente, repentinamente), ma anche aggettivo per “duro” (solido, compatto); vedi il “tipo tosto”, testardo e per lo più antipatico dei nostri modi di dire. Tosto come duro e veloce...ma perché? In effetti pare che la parola derivi dalla forma di participio passato, o più correttamente dal supino, dei vb.i latini torrère (tostum > tosto) e tostare (tostatum > tostum > tosto): «bruciato», talmente bruciato da essersi prosciugato e solidificato, ovvero «indurito, tostato»; e tutto questo pare che venisse percepito dai nostri progenitori latini come una cosa veloce, velocissima, “tosta”, appunto. (Chissà, l'immagine del fuoco che brucia, e tosta, in men che non si dica...)
Con che la faccio breve: in questo caso particella avverbiale comparativa (il quam dei latini (ancora loro!), punto di svolta fra il primo e il secondo termine di un paragone).
Voi mi capite che, se piuttosto che si può “tradurre” come più duro/veloce di...qualcosaltro, il qualcosaltro è inferiore (cioè, meno duro e meno veloce...tanto per restare sul terreno dei comparativi) e siamo di fronte ad un confronto (comparazione) che vede il qualcosaltro soccombere, essere preferito dal qualcosaltro ancora, che però viene prima (primo termine del paragone)...
Ora, vorrei ulteriormente convincervi che mi sono preparato per questo intervento e passo allora alla classica citazione da fonte indiscutibile, autorevole anziché no, o piuttosto che no (prima ho citato la Crusca, ma ora vi stupisco).
Una completa disamina di piuttosto, ce la dà la Treccani, più precisamente in: http://www.treccani.it/vocabolario/piuttosto:

Piuttosto: avv. [composto di più e dell'avv. tosto]
1. Nel sign. proprio, etimologico, più presto; in tale accezione, ormai fuori d’uso, si scrive preferibilmente in grafia staccata: il fuoco di sua natura più tosto nelle leggieri e morbide cose s’apprende, che nelle dure e più gravanti (Boccaccio). Da qui, nel linguaggio corrente, più

facilmente, più spesso, più volentieri; serve a indicare che qualche cosa avviene o si sceglie a preferenza di altra dello stesso genere: in questa regione piove p. d’estate che d’inverno; non prendo la carne, vorrei p. del pesce; voglio p. essere infelice che piccolo, e soffrire p. che annoiarmi (Leopardi). Introduce spesso una comparazione tra due parti uguali del discorso (due aggettivi, due verbi, ecc.): sono zone in cui fa p. caldo che freddo; lo direi sfacciato p. che disinvolto; chiederebbe l’elemosina p. che rivolgersi a lui per aiuto; e in frasi ellittiche: non ci arrenderemo: p. morire; chiedergli scusa? mi farei p. licenziare. Preceduto da o equivale a «o meglio» e serve a introdurre un’ipotesi più probabile, un’espressione più propria a confronto di altra già espressa: verrà, o p. manderà qualcuno a rappresentarlo; dalla parte dalla quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi (Leopardi).
2. Frequente, senza un secondo termine di paragone, nel sign. di «alquanto», «abbastanza»: fa p. freddo questa mattina; è un film p. interessante; una ragazza p. graziosa; spesso come espressione attenuata di giudizio spiacevole: l’esame è andato p. male; è stato p. maleducato con me.
3. Improprio l’uso di piuttosto seguito da che con il sign. di «o», «oppure», per indicare un’alternativa.

Quello che qui ci interessa è la sez. 3: “improprio l'uso...”. Bontà sua, la Treccani adotta un'espressione “politicamente corretta” per “decisamente sbagliato”! Altro che “improprio”... ma forse – contrariamente ai colleghi della Crusca – il lessicografo-treccani preferisce restare in attesa, in attesa che magari l'improprietà diventi regola, uso costante, se non addirittura esclusivo. E il peccato, giudicato veniale, assurga a regola di comportamento e di bello e simpatico scrivere. Il lessicografo-treccani, anonimo, non si vuol prendere responsabilità, né vuole passare alla storia della patrie lettere come un Catone, per di più codino, reazionario e (Dio ne guardi!) purista.
Io non ho di questi problemi.
E se allora dei milanesi qualsiasi (con rispetto parlando) mi trasformano la locuzione avverbiale “piuttosto che” da locuzione comparativa – come è sempre stata – in locuzione disgiuntiva, blandamente disgiuntiva, praticamente quasi congiuntiva, per me c'è di che turbarsi non poco.
E se poi, dai milanesi qualsiasi di cui sopra, questo uso si trasferisce velocemente (tosto) al mondo giornalistico, televisivo e tipografico, la cosa diventa inquietante. L'incoscienza linguistica si propaga come un incendio, un'esondazione, una metastasi. E il vezzo antipatico di pochi incoscienti snobbini si palesa qual è: un vizio, come l'etimologia ci rivela. Ma figuriamoci se qualcuno si mette ancora in ascolto dell'etimologia, per avere un minimo di coscienza (giustappunto) di quel che dice!
E non ne stiamo facendo una questione di purità, purezza, purismo, puritanesimo...'sti cazzi (direbbe il Grande Carver – in esoterico acronimo anche: I. G. C., per i suoi fedeli seguaci)! Ne facciamo bensì una questione di comunicazione o, per gli aziendalisti, di utilitaristica economia linguistica, se vogliamo buttarla sul malthusiano brutale.
Da tempo nella nostra lingua alcuni vezzi/vizii si vanno imponendo.

All'inizio simpatiche primizie e originali “modi di dire”, finché circoscritti, nel loro successivo diffondersi diventano antipatici abusi, inutili ridondanze, segnali di povertà di spirito, di schematica formularità del pensiero, di pigrizia dell'espressione. Magari, alcuni anche grammaticalmente corretti (o al limite), ma drammaticamente scontati. E con questo stiamo andando a definire in realtà il “luogo comune” (vedi Flaubert che ci scrisse un famoso dizionario...), il citazionismo ormai inconscio di derivazione pubblicitaria o giornalistica, piuttosto che l'errore grammaticale in senso stretto. I luoghi comuni ci son sempre stati e le “frasi fatte”, pure. Certo, ma ora decisamente, il troppo stroppia! O no?
“Esatto!” per “sì!” (rivelatoci già in antico da U. Eco nel suo Diario minimo, Fenomenologia di Mike Bongiorno); “anche no” e “anche sì”; “assolutamente sì” e “assolutamente no”, poi, per far prima (?), solo “assolutamente”, affidando il senso del “sì” e quello del “no” all'enfasi interpretativa più o meno alta o bassa, gonfia o sgonfia, della voce dell'enunciante.
E ancora: «C'ho e c'ha, per “ho” e “ha”, quando a monte o a valle non si giustifichi né un luogo (un “qui”), né un vantaggio (un “per noi”)...oppure, anzi no!, piuttosto che espressioni del tipo, savasandire, faccio cose, vedo gente...lavoro, guadagno, pago, preténdo (mi raccomando “e” tonica meneghina, particolarmente chiusa e strascicata)...mentre vanno in giro tipe, sbandierando il lato B (perché “culo” è volgare da scrivere, ma da mostrare anche no!), ben sapendo tutti che il problema è ben altro...ma che questa è un'altra storia...o quant'altro, perché c'è una bella differenza se ci mettiamo un minutino piuttosto che un nanosecondo...quando poi in ultima analisi è solo un problema di degrado piuttosto che di parentado...infine, ho visto cose che potrei stupirvi con effetti speciali: la scomparsa dei congiuntivi, con la collusione dei condizionali e la smaccata complicità delle subordinate, ormai vieppiù resesi da tempo irreperibili...ma qui m'ammuto, per non tediare questo nobile conseNso, piuttosto che questa platessa illustre, qui riunitasi in questo prestidigitoso ascoltatorio...piuttosto che andare a vedere la partita (ma chi ve l'ha fatto fare?)».

Le parole di una lingua, di tutte le lingue, si affievoliscono e si perdono, a volte. A volte si risignificano, cambiano di segno, si rimodellano. A volte esplodono in frammenti di altre parole, o si nascondono quasi implodendo in altre parole ancora. Vengono sostituite, per moda, da parole di lingue diverse e così si abbandonano. Dimenticando la loro storia, il loro carattere. Le parole si stancano, si usurano, invecchiano e muoiono. Parole un tempo usate, magari abusate, ma fiere ed orgogliose d'essere ricettacoli di idee ed emozioni, si obliterano nelle voci di chi parla, nella babele dell'etere e della carta stampata,

nella memoria, sempre più siliconica.
Alcune poi si nascondono (per timidezza o paura) e non si riesce più ad usarle. Non le troviamo più. Spariscono dalla circolazione. Pochi valorosi nostalgici allora ne vanno in cerca, intervistando i vecchi, prima che se ne vadano anche loro per sempre coi loro segreti di parole e storie. E quando va bene, queste parole perdute, fragili e dimenticate, vanno a riposare nei ricoveri dell'erudizione: i registri dei lessicografi, gli inventarii degli storici della lingua. E vivono in un'eterna animazione sospesa.
A volte le lingue muoiono. E si perde così un patrimonio immenso di rappresentazioni del mondo e di rappresentazioni dell'animo umano nel mondo.
Consumiamo le parole come i merendini (quelli che i moderni chiamano snaks, metonimicamente confondendo la tipologia del consumo, secondo l'espressione anglosassone, da ciò che si consuma e sostituendo a spuntino un cacofonico monosillabo, onomatopea di uno schianto, breve e definitivo). Consumiamo le parole come si consuma la memoria d'ogni esperienza. Consumiamo le parole con la stessa crudele leggerezza con cui cambiamo modello di smart-phone.
In questa deriva, convinti di navigare su rotte più esotiche e complesse, sguazziamo nella tinozza del giardino, sognando sconfinati oceani in quindici centimetri d'acqua. Fascinazione del virtuale, che già che ci siamo potremmo più pertinentemente chiamare illusione!
In questa deriva, in cui la ripetizione non è efficace espediente stilistico di minimalisti in erba, ma semplice mancanza di parole..., in questa deriva, anche il pensiero si affievolisce, semplifica il proprio nobile affanno e si bea di una sintassi breve come i suoi sogni, disarticolata come i suoi desideri. E il non detto, nasconde il vuoto, piuttosto che l'ineffabile, per sua natura solo accennabile e sospeso su un abisso, su una vertigine di senso; concetto o sentimento che sia. E il non detto, è solo indigenza di parole. La sconnessione sintattica, ignoranza di grammatica, piuttosto che irriducibile profluvio di pensieri che non ammette sponde al suo spandersi.
La concezione della purezza di una lingua è una sciocchezza, frutto di ideologica cattiva coscienza (e sempre qui si torna). Che una lingua resti immobile così come descritta dai manuali è altra coglioneria dei grammatici prescrittivi, insipida schiatta di reazionari utopici, ormai in estinzione. Ma fra il modello ideale di purezza e la degenerazione in atto ce ne corre. Noi che con tutti omai siamo connessi, pur tuttavia superficializziamo le nostre potenzialità comunicative, che sono potenzialità di relazione con gli altri e al contempo capacità di costruzione identitaria. Insomma, temo che, in ogni barbarismo linguistico, in ogni sconnessione sintattica, oggi come non mai si nasconda una perdita della capacità di pensare, una perdita di consapevolezza di sé e dell'altro, una povertà dell'Essere. O, nella migliore delle ipotesi, una povertà di

manifestazione dell'Essere. Dal flusso di coscienza al flusso d'incoscienza il passo può esser breve. La faccio troppo tragica? Non saprei.
Comunque, per non sembrare il solito “apocalittico” e retorico laudator temporis acti e per tenermi in buona compagnia, la citazione di un saggio contemporaneo ebreo a conclusione, qui ci sta bene.
Haim Baharier si riferisce alla lingua tedesca e alla Germania ai tempi del Nazismo, ma ditemi se non si potrebbe perfettamente adattare, qui ed ora, alla lingua italiana e all'Italia. Ecco la citazione:
«Sintomatico che il linguaggio pervertito abbia messo radici in principio proprio in Germania, culla in quel momento degli studi filologici e filosofici: come dire che partoriti da una lingua esemplare siano nati simultaneamente figli puri e figli mostruosi. E i secondi abbiano ammazzato i primi in nome della purezza della mostruosità» (Haim Baharier, Qabbalessico).

Livorno, 23 Gennaio 2015

Francesco Parasole