Sabato 5 aprile prossimo non si terrà il previsto terzo incontro di Un Vino Un libro per problemi organizzativi.
Rimangono confermati tutte le altre date.
E' previsto di riproporre l'evento nel mese di maggio.
Rigraziando tutti per la partecipazione finora riscontrata di da dunque appuntamento al 10 Maggio prossimo con la Prof. Cristina Cassina che ci parlerà di Moby Dick e i vini della Tenuta Mariani.
Lamberto Tosi
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domenica 30 marzo 2014
sabato 22 marzo 2014
Il secondo incontro di Un vino Un Libro
Il secondo incontro che si terrà sabato prossimo sempre alle ore 17,45 al ristorante Antico Uliveto di Pozzi di Seravezza (g.c.), avrà come ospiti gli autori di
Breviario. Per apprendisti filosofi
Breviario. Per apprendisti filosofi
Presentato dagli Autori- Caputo Gianluca; Cortese S.; Mannucci Marco
Nell'introduzione del volume si legge: "Una scrittura collettiva: studenti, docenti, ricercatori che insieme collaborano per definire termini filosofici e per costruire un breviario....
In questo breviario alle voci si affiancano suggerimenti di lettura, di ascolto, di visione filmica, citazioni e aforismi contenuti nella lunghezza di un sms in un susseguirsi di domande aperte e di spunti di riflessione. Su tutto la consapevolezza che la filosofia sia un elemento importante per la cittadinanza di un individuo e che la filosofia debba essere per tutti con termini e lessici adeguati. La sfida del Breviario è anche questa: rendere accessibile la filosofia anche a coloro che non la incontreranno mai in un percorso scolastico."
L'azienda Macea di Borgo a Mozzano ci presenterà i suoi vini dal profilo unico prodotti in una azienda che ha fatto del rispetto della natura la sua chiave di lettura dell'agricoltura.
http://www.macea.it/
Come al solito alla presentazione seguirà la cena con i vini dell'azienda.
Maggiori informazioni http://www.antico-uliveto.it/
Come al solito alla presentazione seguirà la cena con i vini dell'azienda.
Maggiori informazioni http://www.antico-uliveto.it/
mercoledì 19 marzo 2014
La conferenza del Dott. Francesco Parasole
Riportiamo per chi non c'era e per chi vuole approfondire l'argomento trattato il testo della conferenza tenuta dal Dott. Francesco Parasole. Buona lettura.
3A
EDIZIONE DI UN VINO...UN LIBRO
2014
SOMMARIO
PRIMA CONFERENZA DEL 15 MARZO 2014
UN
PERCORSO DALLE STELLE ALLE STALLE:
Il
Viaggio iniziatico
Il
Viaggio di Abramo e di Ulisse
Assedio-Nostalgia-Ritorno
L'Io,
il Doppio e l'Altro
I
Tempi e il Tempo del Viaggio
Viaggi
vertiginosi: Giovanni Lindo Ferretti & Vinicio Capossela
Un
viaggetto fuori porta: Fabio Genovesi
Un
vino...un libro...
Terza
Edizione 2014
Abramo,
Ulisse & C.
figure
del viaggio e figure in viaggio
“Là
non c'è nulla che non sia beltà,
ordine e lusso, calma e voluttà”
ordine e lusso, calma e voluttà”
C.
Baudelaire, da Invitation
au voyage.
Libri
recensiti:
- Giovanni Lindo Ferretti, Barbarico, Mondadori 2013.
- Vinicio Capossela, Tefteri – Il libro dei conti in sospeso, Il Saggiatore 2013.
- Fabio Genovesi, Tutti primi sul traguardo del mio cuore, Mondadori 2013.
Il
viaggio lo si fa e lo si descrive. Lo si fa e lo si racconta come
esperienza personale: ed allora è letteratura. Lo si fa e lo si
descrive refertandolo: ed allora è antropologia, etnologia, studi di
folklore. Ricercare sul campo non è necessariamente essere
nella dimensione del viaggio. Il catalogo delle tipologie di viaggio
è lungo quanto gli aggettivi che possono essere accostati al
termine. E le metafore e le similitudini che dal “viaggio”
traggono vita e rappresentazione sono infinite. Questi aggettivi e
queste metafore-similitudini hanno fra loro spesso e volentieri
rapporti sfumati e di sinonimia. Il viaggio è un immenso serbatoio
di analogie. Su tutte è il “viaggio iniziatico” che costituisce
una sorta di campo archetipico di riferimento (cfr. di Emanuele
Trevi, Il viaggio iniziatico,
Laterza 2013). Ma esistono altri due archetipi di viaggio (di poco
sottostanti al più generale): quello di Ulisse e quello di Abramo.
Le loro variegate manifestazioni hanno informato, informano e
informeranno la nostra civiltà “occidentale”, o quel che ne
resta. Ma, a ben vedere, non solo. Il viaggio di Abramo è quello di
sola andata. Quello di Ulisse è quello di solo ritorno. Ma le cose,
nelle vicende umane, non sono mai così semplici. A volte si
intraprende un viaggio di sola andata perché incapaci di tornare
indietro. A volte si fanno solo viaggi di ritorno, perché incapaci
di affrontare il nuovo. In entrambi i casi la storia non è mai
lineare. Se poi aggiungiamo che il più delle volte andata-e-ritorno
si intrecciano, coincidono o si sfumano l'uno nell'altro, ecco che
cominciano i guai per noi poveri uomini.
Il
viaggio di Ulisse è iniziato più di tremila anni fa. Come tutti
sanno, è di fatto un “ritorno” (gr. nòstos),
fantastico e tormentato, e talmente iniziatico
che
dall'Odissea
trae origine ogni trama, ogni romanzo, ogni personaggio di racconto,
ogni eroe-protagonista che è in un modo o nell'altro un'incarnazione
di Ulisse, un'incarnazione di Nessuno alla ricerca di una identità.
L'identità la si trova nel “ritorno” a casa dopo aver superato
varie prove (le avventure,
che siano di terra, di mare o dello spirito e del linguaggio). La si
ritrova dopo un viaggio d'andata nella scissione, nella
frammentarietà, dopo un viaggio verso l'ignoto che ci ha diviso,
saggiando con crudeltà le nostre capacità di resilienza. Chi
sopravvive, ritorna,
per inventarsi nuovamente: non a caso Ulisse, Odisseo, pare riparta,
certo anche per seguir virtute e canoscenza...ma
forse per poter nuovamente in eterno provar nostalgia
e nuovamente così ritornare. Il “ritorno” è dunque una
condizione dell'esistenza: il tentativo di ricomporre una polarità.
Quello che ero, quello che son diventato (uno nessuno
centomila), quello che vorrei
tornare ad essere ma che non sarò mai più, perché carico d'anni ed
esperienze. Non si ritorna mai gli stessi, impunemente. In fondo la
maggior parte degli archetipi – queste forme vuote ma così
universali e cariche di senso e di mistero – si presentano come
polarità, variegate mappe, con molti termini in opposizione a
segnare percorsi e in cui si aggira la nostra esistenza come fra
miraggi.
Ulisse
ritorna dopo un assedio, quello di Troia, cantato nell'Iliade.
L'assedio è la negazione del viaggio. Franco Ferrucci, in un piccolo
capolavoro ingiustamente dimenticato, L'assedio e il
ritorno – Omero e gli archetipi della narrazione
(Mondadori, 1991), parla dell'assedio come di una “posizione di
stallo”: “un cerchio gravitante verso il centro”, dove il prima
e il dopo non esistono ed il tempo è sospeso. Ed afferma che “il
primo modello narrativo che ci viene offerto” agli albori della
letteratura occidentale “è quindi l'assedio”, perché
nell'equilibrio degli opposti definiti dal cerchio (Troiani ed Achei)
si realizza la sfera, che “è il punto di massima resistenza reale
e mentale alle forze del caos”. Accettare il viaggio (rompere
l'assedio) è accettare il rischio del caos, accettare il rischio
dell'annichilimento, il rischio di perdersi nello spazio e nel tempo.
Ecco allora che estrema difesa al perdersi nel caos è il viaggio
inteso come “ritorno”, un ripercorrere a ritroso vie già
percorse. Seguire un itinerario già tracciato. Il ritorno implica
una concezione del tempo sostanzialmente “ciclica”. E una
rinnovata necessità di ricomporsi, di chiudersi in se stessi, una
rinnovata necessità di assedio, ma in un'edenica, utopica condizione
originaria.
Già
sappiamo che il nòstos
non
evitò al variegato
Ulisse di perdersi. Col “ritorno” ci viene offerto il secondo
modello narrativo: che poi è la lotta col labirinto muniti del filo
di Arianna. Ma per accettare il viaggio, ancorché di ritorno,
bisogna provarne curiosità, desiderio e a volte dolore. Tutto questo
è espresso dal termine nostalgia.
Per abbandonare l'assedio immobile e senza tempo è necessario che in
noi fiorisca e s'imponga la nostalgia,
la “sofferenza del/per il ritorno”: sofferenza provocata da un
desiderio inappagato, ma anche
dolore
che provoca il ritornare. Milan Kundera in un romanzo edito da
Adelphi nel 2011, L'ignoranza,
fa un excursus solo apparentemente linguistico sulle significazioni
di “nostalgia” e parla anche di Ulisse. In sintesi egli dice che
la
nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di
ritornare. Che per
questa nozione fondamentale la
maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine
greca (nostalgia
appunto),
ma anche altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli
spagnoli dicono añoranza,
i portoghesi saudade.
In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura
semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata
dall'impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria
terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice
homesickness.
O, in tedesco, Heimweh.
In olandese: heimwee.
Ma questi termini danno una riduzione spaziale di questa grande
nozione. Sempre in tedesco esiste un termine pregnantissimo, molto
usato nel romanticismo, Sehnsucht,
praticamente intraducibile. Si è proposto “anelito”,
“struggimento”, un desiderio doloroso. Ovvero mentre Heimweh
è il desiderio di riappropriarsi del passato, spesso legato ad
oggetti precisi, la Sehnsucht
è
la ricerca di qualcosa di indefinito nel futuro. Più precisamente,
si potrebbe tradurre Sehnsucht
con
"desiderio del desiderio". Una delle più antiche lingue
europee, l'islandese, distingue i due termini: söknudur:
«nostalgia» in senso lato; e heimfra:
«rimpianto della propria terra». Per questa nozione i cechi,
accanto alla parola «nostalgia» presa dal greco, hanno un
sostantivo tutto loro: stesk,
e un verbo tutto loro; la più commovente frase d'amore ceca: stýská
se mi po tobě:
«ho nostalgia di te»; «non posso sopportare il dolore della tua
assenza». In spagnolo, añoranza
viene dal verbo añorar
(«provare nostalgia»), che viene dal catalano enyorar,
a sua volta derivato dal latino ignorare.
Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la
sofferenza dell'ignoranza. Ma si può provare nostalgia per ciò che
si sa, per ciò che si sapeva e non si sa più, per ciò che non
abbiamo mai saputo e che forse vorremmo sapere. Ancora Kundera: più
la nostalgia è forte, più si svuota di ricordi. Diventa desiderio
puro. Più Ulisse si struggeva, più dimenticava. Perché la
nostalgia non intensifica l'attività della memoria, non risveglia
ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com'è
dalla sofferenza. La nostalgia (o il suo eccesso) da stimolo al
viaggio di ritorno, può diventare condizione permanente dell'anima,
blocco, situazione di assedio, incapacità non-volontà al viaggio.
Il
viaggio di Abramo è iniziato forse più di quattromila anni fa, da
Ur dei Caldei. Di lui ne parla solo La
Genesi
e il Corano,
ma è «padre di molti (popoli)» secondo la rinominazione divina. La
sua “nostalgia” è quella di Dio, di un Dio che è entrato nella
Storia attraverso la sua storia individuale di uomo, è la
“nostalgia” per la sua promessa. La promessa delle promesse che
si incarna in una terra. La sua “nostalgia” è quella per una
moltitudine di discendenti,
come
le stelle del cielo e più; discendenti che sa di non esser destinato
a conoscere. Il viaggio di Abramo è un viaggio di sola andata, che
implicherà sacrifici ed assedi, all'inseguimento di un Dio che parla
solo a lui e che pur si nasconde nella caligine. E' una fuga, questo
viaggio, una fuga d'amore e di ambizione. Un viaggio, come totale
apertura all'Altro.
Un viaggio di fede e di fiducia, ben lontano dall'atteggiamento
guardingo, prudente e sospettoso di Ulisse. Anche qui dunque un
archetipo potente ma decisamente opposto a quello dell'eroe greco.
Abramo si fida, Ulisse mai!
Ma
vediamo cosa ci racconta in proposito il filosofo francese di origine
ebreo-lituana Emmanuel Lévinas: «l'itinerario del pensiero
occidentale resta quello di Ulisse, la cui avventura nel mondo non è
stata che un ritorno alla sua terra natale, una compiacenza del
“medesimo”, una misconoscenza dell' “altro”. Al viaggio di
Ulisse, il quale desidera soltanto tornare a casa sua, è
necessario
contrapporre l'apertura di Abramo che si incammina in vista di una
Terra Promessa». Il compiacersi del “medesimo” ed il
misconoscere l'”altro” è movimento di ritorno per riconquistare
la propria identità (l'Io), ponendo distanza (o fuggendo)
dall'”altro”, dalla relazione con lo straniero. Abramo si getta a
corpo morto nel “totalmente Altro”. Ma, apparente contraddizione
con quello fin qui detto, il Dio con cui parla gli permette di non
disperdersi in questa avventura, in questa apertura del viaggio.
Abramo e il suo popolo nel viaggio verso,
nel viaggio dell' andata,
trovano quello che Ulisse trovò solo nel viaggio del ritorno.
La fondazione di un popolo, della sua tetragona identità, attraverso
il rischio di un cammino verso l'ignoto, un cammino di promessa. Ecco
un altro dei paradossi del viaggio. Da Abramo ad oggi, di diaspora in
diaspora, sembra un destino segnato...dove i “ritorni” sembrano
precari e condizioni ineluttabili di assedio. Anche Ulisse, però,
dovrà riconquistare la sua casa, ripetendo un antico assedio.
Quindi ecco che le due polarità iniziano ad avvicinarsi, a sfumare
i loro confini. Fra un Abramo ed un Ulisse esistono dei “gradi”
intermedi: il viaggio come necessità fatale, il viaggio
necessario,
che tutti ci rende migranti. Ed allora fra un Abramo ed un Ulisse si
sdipanano il viaggiare del pellegrino e quello del nomade, il
viaggiare del missionario e quello dell'Ebreo
errante.
Dove, anche qui solo apparentemente, la distinzione insanabile e
radicalmente oppositiva è quella fra l'andare e basta, o il
ritornare; fra avere uno scopo o non avere uno scopo.
Fra
un Ulisse (l'IO) e un Abramo (l'ALTRO) esiste ad esempio, ed in
particolar modo in letteratura, il DOPPIO, il motivo del Doppio,
altra particolarità che il viaggio porta con sé. Il “doppio”
allude ad una crisi dell'Io, ad una crisi della soggettività. Nel
“doppio” si afferma, tentando di contraddirla, la molteplicità
(che ci spaventa, sia essa quella degli altri che quella
dell'inconscio). Il “doppio” è il risultato di un viaggio di
andata-ritorno, dove si ritorna disastrati, misconosciuti a noi
stessi e ciò nonostante si tenta di
ricomporci
in qualche modo. E' come un processo di sintesi che segnala uno
sforzo fallito di assimilazione dell'alterità per arricchire
l'identità di partenza. Nel “doppio” quella dimensione di
alterità che viene assimilata nella soggettività di fatto
indebolisce l'identità di partenza, quell'identità che troppo
spesso diamo per scontata nel momento in cui ci mettiamo a leggere il
mondo.
In
questo che potremmo definire il
viaggio del “doppio”,
Abramo la vince su Ulisse (ancorché quest'ultimo simbolizzi la
conoscenza razionale). Abramo (simbolo della conoscenza spirituale)
supera la prova del doppio, Ulisse ne è vittima. E' un po' come se
fosse lui, l'eroe greco dalla “multiforme mente”, una delle
incarnazioni dell'Ebreo
errante.
Sempre secondo Lévinas, per Abramo «l'Altro
cesserebbe
di essere un'entità da avvicinare, definire, assimilare, ma un dono
da accogliere nella sua infinita distanza. L'universo del doppio
(quello
di Ulisse) sembra
invece negare questo tipo di esperienza che si apre all'epifania
dell'Altro,
il quale, lungi dall'essere un dono, viene a costituire una minaccia»
(da Io
E'/E un Altro,
di C. Mengozzi, in www2.units.it/clettere/doppio.htm).
Ma
in ogni viaggio è anche importantissimo il tempo. Abbiamo detto che
il viaggio del ritorno, quello di Ulisse, implica
una concezione del tempo sostanzialmente “ciclica”.
Il
viaggio di Abramo implica
una concezione del tempo sostanzialmente “lineare”.
Un tempo che pro-cede. Un tempo che non ritorna. Un tempo che si
consuma nel suo solo scorrere in un verso («fino alla consumazione
dei secoli»). Il tempo di Abramo, che è anche il nostro, ci concede
un'unica possibilità, un'unica possibilità di viaggio, di incontro
e di riscatto. Il tempo di Ulisse è quello del ritorno, del tempo
che si riavvolge e ritorna, il tempo delle stagioni che si ripetono,
il tempo circolare, sapienziale. Ma i greci avevano parole per
entrambe le specie di tempo, anzi, qualcosa di più. Il tempo
perfetto eterno e ripetibile era detto àion,
il tempo lineare, misurabile e consumabile era chrònos.
E il qualcosa di più, era una terza parola: kairòs,
il tempo della possibilità, dell'incontro cruciale, vitale, un tempo
discontinuo e miracoloso delle opportunità, dell'avventura, l'attimo
da cogliere e da fissare, il tempo “maturo” dell'accadere. Molto
di più di una semplice sintesi delle due nozioni precedenti. E' il
kairòs
il tempo del viaggio e del racconto, dell'ucronia dell'assedio e
dell'utopia del ritorno. Il tempo della Tradizione, che è fiume e
radice, dove ogni progresso ha bisogno di un ritorno ed ogni ritorno
di un progresso. Che questo poi sia finito o infinito, non ci è dato
saperlo.
Allora
anche ogni libro è un viaggio nel kairòs
(“cronotopo” lo definisce riduttivamente e con un tecnicismo
piuttosto bruttino Michail Bachtin), dove è necessario, per non
perdersi, procedere come Abramo ma con la nostalgia guardinga e
menzognera di Ulisse.
Oggi finalmente vorrei parlare
di tre fenomenologie di viaggio esemplificate nei tre libri che
sottopongo alla vostra attenzione. A mio parere non immuni dalla
marca iniziatica, né dalla qualificazione ulissiaca e/o abramitica.
Ognuno a suo modo, come è giusto che sia.
Tre tipi di viaggio, tre tipi
di percorso (umano e artistico), tre generi di racconto, tre autori
estremamente diversi per stile, pensiero ed approdi del pensiero.
Perché anche i pensieri sono viaggi o veicolano viaggi, ed ogni
tanto approdano, si soffermano in qualche porto, mai definitivamente.
Giovanni Lindo Ferretti,
Vinicio Capossela, Fabio Genovesi, rispettivamente: classe 1953
(Cerreto Alpi), 1965 (Hannover), 1974 (Forte dei Marmi). Solo un
trentennio della seconda metà del “Secolo breve”, in realtà
“veloce”, ed anche ben scansionati di decennio in decennio
nell'ordine di apparizione. Solo un trentennio della seconda metà
del “Secolo breve”: quindi, volenti o nolenti, tre generazioni.
Il
mio maestro delle scuole elementari diceva che le generazioni erano
come i nonni. Ogni nonno, quantificabile un po' per eccesso, faceva
cento anni. In questo modo noi pargoli ci orientavamo nelle distanze
della Storia, compitando con le dita. Erano altri tempi. Ancora non
avevamo percepito l'invasione dei barbari, ancora E. J. Hobsbaw non
aveva scritto il suo “Il secolo breve”,
né Zygmunt Bauman aveva registrato il marchio della Società
liquida, con tutte le prolifiche
variazioni sul tema e le possibili sostituzioni nominali da
aggiungere all'aggettivo liquido.
E' solo di recente che i sociologi, dopo aver definito sommariamente
la nozione di “generazione” come «gruppo
esposto agli stessi eventi storici»,
hanno infine ammesso che essa è «un'unità di misura non standard
quantificabile nella distanza media fra genitori e figli (20-25
anni)». In ciò peccando ulteriormente per approssimazione. Le
generazioni viaggiano più veloci e un decennio è già tutta
un'altra storia.
Giovanni Lindo Ferretti, Vinicio Capossela, Fabio Genovesi sono di
tre diverse generazioni (anche se consecutive), non per la diversità
dello stile, che sarebbe dato insufficiente e ingenuo, ma per
approccio al viaggio,
e al tempo
del viaggio
(che
pur si riverberano nello stile) che si portano dietro. Tre velocità
diverse. Tre percorsi diversi. Scanditi in tre mistiche
differenti, all'interno dello stesso campo di gioco e delle stesse
polarità.
Il
primo fu famoso cantautore punk italiano degli anni '80, tuttora
canta ed è performer
in contesti vari, dove fa antologia del suo passato, crea canzoni
nuove, prega, rilascia interviste, scrive e recita. Dopo un percorso
accidentato, intenso e per alcuni pieno di contraddizioni patenti,
dopo aver anche toccato il fondo della sofferenza nella malattia (per
alcuni la sua “Via di Damasco”),
attualmente
vive nel suo paese natale, Cerreto Alpi, paese di montagna in
provincia
di Reggio Emilia, dove scrive, compone musica, collabora con la
Comunità
Montana e le associazioni culturali locali e alleva i suoi cavalli,
che usa anche per spettacoli itineranti, ai limiti del circense e
delle rappresentazioni di Sons
et
lumières,
ma ormai più d'ispirazione spirituale che psichedelica.
In un'intervista al quotidiano L'Avvenire del 2009 afferma: «Dopo
aver cercato il senso in mille modi senza trovarlo, l'ho trovato
tornando a casa. Al mio mondo di quando ero bimbo: i monti, il
rosario [..] - Ma Giovanni Lindo Ferretti oggi chi è? - Nel Te
Deum può
scoprirlo». E scusate se è poco...
Giovanni
Lindo Ferretti, per alcuni un “voltagabbana” (dei molti che si
registrano nella storia delle arti), in realtà è un Reduce,
come il consapevole titolo della sua autobiografia, edita da
Mondadori nel 2006. Quindi un “ritornato”, un “ricondotto”,
forse un “ridotto” (con facile ed arbitrario scambio fra
ricondurre
e ridurre),
comunque non un semplice sopravvissuto
a una guerra,
secondo l'opinione corrente. Decisamente un abramo nella parte
iniziale della sua vita, ora un ulisse che, come il primo, ogni tanto
per curiosità, ma parrebbe soprattutto per necessità di vita,
riprende il viaggio solo in via momentanea e missionaria. Ora
finalmente un Odisseo, che secondo la controversa etimologia può
anche significare «odiato, tenuto in dispregio». Un ulisse con la
fede di abramo, che ha consumato nell'adempimento la sua nostalgia di
casa e nutre quella del divino nella devozione e nella tradizione
cattolica. Il personaggio è quello del “Figliuol
prodigo”,
la trama è quella di una redenzione biblica.
Vinicio
Capossela «cantautore, polistrumentista e scrittore italiano», di
più ampio successo ma anch'esso per “palati fini”, sempre in
giro per spettacoli, tessitore raffinato di testi e musiche, ironico,
allusivo, etnico e satirico, leggero ed allegorico, sembra vivere
solo una dimensione abramitica ancorché decisamente laica.
Apparentemente per lui il viaggio è solo di andata, è solo per
seguir
virtute e canoscenza...ma
con la fede che ci sia, da qualche parte, un'Isola
che non c'è,
vale a dire, una Terra
Promessa.
Anche se questa sua velocità
di viaggio si porta dietro, usa e rielabora materiali di indubbio
antico spessore, navicelle d'ingegno dal profondo pescaggio.
L'itineranza comunque sembra essere la sua cifra. Dei tre è colui
che maggiormente incarna il nomadismo dell'artista. Ma in Tefteri,
come si vedrà, scoprireremo apertamente il suo momento o se vogliamo
la sua essenza ulissiaca, al di là dei suoi interessi e delle
suggestioni poetiche attinte dalla conoscenza della musica etnica
mediterranea. Un'essenza ulissiaca sottesa, un viaggio
di ritorno,
come necessità di reindividuazione delle “radici”. Il
personaggio è quello dell'”Ebreo
errante”,
la trama è quella di una tragedia (esser costretti a vagare in
eterno anche quando si tenta di ritornare).
Dei
tre Fabio Genovesi è lo scrittore “puro”. Il giovane scrittore
“puro”. La sua Terra Promessa è là dove è nato, Forte dei
Marmi. Dov'è nato e vive e vuole continuare a vivere. Non ha bisogno
di mettersi in viaggio per cercarla, già c'è e c'insiste sopra
(«hic manebo optime!»). Non ha bisogno di “ritornare”, di lì
non si è mai mosso, nonostante che la sua mitica
Forte dei Marmi, per la russificazione e bastardificazione patinata
che ha subito, sia diventata Morte
dei marmi
(titolo del suo gustosissimo ritratto del villaggio natio, edito da
Laterza e giunto nel 2013 alla sua 6a edizione). Una Morte
dei marmi in
cui resiste e si ostina ad abitare, sentendosi eroicamente sotto
assedio, difendendo l'avamposto e sacrificando la vera nostalgia ai
soli ricordi del bel tempo che fu. Dei tre Fabio Genovesi è lo
“scrittore barbaro”, secondo l'accezione di Baricco:
calvinianamente rapido, veloce ed anche esatto, se vogliamo, ma dalle
traiettorie di superficie, accattivanti e consolatorie,
apparentemente semplici e senza eccessivo spessor di memorie. E' un
abramo fondamentalmente soddisfatto e un po' accidioso, un ulisse
curioso e divertente, ma pronto a rimettersi quanto prima in
pantofole, un viaggiatore svagato, un ironico turista
per caso,
ma anche un Giovanni Drogo alleggerito del suo deserto dei tartari,
che al più coincide col giardino di casa sua o con la pineta dei
dintorni. Ma non si pensi all'assenza totale del viaggio. Anche
questo forse è un altro modo di viaggiare, di tracciar mappa fra
l'estremo Ulisse e l'estremo Abramo. Qui, il personaggio è quello
del “Disincantato”,
la trama è quella della commedia, in cui il protagonista deve ancora
decidere se intraprendere il viaggio, e quale tipo di viaggio, e nel
frattempo fa prove generali su prove generali, cavalcando un
simpatico, divertente asinello, quello di Buridano.
Tecnicamente,
Barbarico
è un diario della contemporaneità dell'autore, senza registrazione
di giorni, scandito temporalmente e tematicamente dalla successione
delle ore canoniche e dalla suddivisione del giorno secondo la regola
benedettina. Il richiamo-modello è quello di un memoriale spirituale
e civile di un reduce
che
del viaggio vive una dimensione eremitica, monastica o da “chierico
vagante”. Con qualche richiamo alle Confessioni
di Sant'Agostino (si
parva licet...).
Tefteri
– Il libro dei conti in sospeso e
Tutti
primi sul traguardo del mio cuore (titolo
che è citazione di un verso del poeta Alfonso Gatto) sono
reportages.
Il primo si presenta come “quaderno di viaggio”, il viaggio in
Grecia di Capossela, appuntistico, che finge la scrittura di getto (a
se stesso), come serbatoio di impressioni, immagini, personaggi, non
destinato alla pubblicazione. Il richiamo-modello sono i
quaderni-reportages
di Goethe e Stendhal. Il secondo è il reportage
propriamente
detto, articoli commissionati, nel nostro caso, dal Corriere della
Sera a Genovesi, inviato speciale per seguire da Napoli a Brescia, le
21 tappe del Giro
d'Italia 2013.
La missione: non la
cronaca
dell'evento sportivo, ma, di luogo in luogo toccato, “pezzi”
giornalistici
di
costume. Un guardarsi intorno
agli accadimenti agonistici. Ritratti di personaggi e di ambienti,
l'epos
del ciclismo nella ritrattistica di alcuni suoi “eroi” (o
campioni che dir si voglia), il ritratto di un'Italia di provincia, a
momenti malinconico, a momenti da Cristo
si è fermato ad Eboli,
a momenti divertentissimo, ironicissimo e disincantato. Insomma, vizi
e virtù di un'Italia che non cambia. Il richiamo-modello è quello,
ad esempio, dei resoconti di Robert Louis Stevenson (XIX° sec.) e di
altri brillanti giornalisti anche contemporanei.
Con
Barbarico G.L. Ferretti dà compimento ad un movimento lungo e
meditato, iniziato con Reduce (ma anche prima): ricollocarsi
nel proprio centro. Evidentemente non solo un ricollocarsi spaziale,
o un semplice cambio di residenza anagrafica che lo rivede nel
proprio paesello natale. Il movimento può sembrare una manovra di
ripiego di chi sconfitto dalla vita cerca di salvare il salvabile in
una fuga di ritorno. Non è così. Non totalmente, almeno. Anche se
l'autore afferma di nutrire forti dubbi sulle sorti dell'animo umano.
C'è
quasi una sfrontata fierezza nel titolo, come una sfida del
sopravvissuto verso chi lo vuole rubricare fra i sopravvissuti.
Barbarico. Ma ancor più si disvela l'essenza di sfida nel
titolo completo del libro che scopriamo solo all'interno, in esergo
all'indice: montano italico cattolico romano – BARBARICO.
Ognuna di queste definizioni meriterebbe un paragrafo. Qui diciamo
che Ferretti si colloca nella tradizione e in un tempo ben preciso:
il Medioevo. Rivendicando una scelta identitaria, culturale e
spirituale al di fuori dello scorrer lineare di chrònos (in
ciò è Ulisse), ma dentro un'altra scansione dello stesso,
metastorica, tradizionale, se vogliamo anche un po' mitica, quella
del kairòs di Abramo, cioè di chi ormai si lascia sedurre
con fiducia solo dalla Promessa e non più dalle promesse. Questa
scansione è calibrata dalla suddivisione benedettina del giorno (e
dei giorni): Ora...Lege...et Labora...e all'interno del tempo
di preghiera, che si dispiega fra lo studio ed il lavoro in tutta la
giornata, un'ulteriore divisione: la “liturgia delle ore”: Lodi,
Vespri e Compieta. Originale suddivisione in capitoli di
un monaco che adotta un'antica regola di comunità, ma da eremita.
Così come le preghiere, lo studio (la lettura) e la meditazione
costituivano per il monaco un'alternanza fra salmodie e bibliche
narrazioni, Barbarico ci si presenta come un prosimetro:
un'alternanza fra prosa e poesia (o potenziali “canzoni”). Dove
comunque prevale la prosa. Perché i tempi lo impongono? Perché non
son tempi di poesia questi? Forse. Questo libro, mistico e lievemente
visionario, sembra essere un “itinerario della mente verso Dio”,
dove ogni tappa, che riesce ad essere viaggio di andata e ritorno,
rispetta l'antica sequenza anagogica: lectio, cogitatio, meditatio
e infine contemplatio. Ma con sguardi concreti e taglienti
sulle misere
realtà
umane. Un'apparente reazione, che si fa in Ferretti critica feroce
che tente di essere amorevole. Anche in questo barbarico.
L'autore non è “uscito dal mondo”, ma si è riposizionato nel
mondo per meglio comprenderlo e tentare di amarlo, nonostante tutto.
«Sono
vecchio, operando per lo più per reazione tendo ad essere
reazionario. Montano per discendenza e per scelta, per contingenza da
centocinquant'anni italiano ma sono italico da secoli e secoli e il
futuro non è dato; cattolico romano in lotta perenne con un
substrato barbarico, un sentire profondo che secoli di fede e
devozione hanno contenuto, limato, educato ma, inutile mentire,
affiora qua e là prepotente: occhio per occhio, dente per dente […]
Fatico nel perdono che rimane un cammino tortuoso, aspro, difficile e
vale solo se tiene lo sguardo rivolto all'Altissimo: verticale. Se
facile, gratuito, orizzontale, dimentica le vittime e sostiene i
carnefici; gronda sangue innocente».
Queste
sono le premesse. E il libro si sdipana in riflessioni acute sulla
contemporaneità, sul senso del suo lavoro quotidiano recuperato e
sviluppato nella sua piccola comunità, sul lavoro che ancora lo
porta a viaggiare, sulle sue letture per lo più invernali.
Riflessione, meditazione, preghiera, a volte come canto. Scorrendo
gli autori di cui ci racconta la lettura scopriamo tante cose anche
solo facendone una breve lista: Gòmez Dàvila, Geminello Alvi,
Edmondo Borselli, Cormac McCarthy, Simone Weil, Pietrangelo
Buttafuoco...Idee sull'Europa, sulla giustizia, sull'equità e anche
sull'economia si filtrano e si costruiscono in discorso sapienziale,
tradizionale, religioso. Discorso per niente scontato, discorso
meritevole di attenzione.
«C'è
un'infinitesimale parte di ogni essere che anela ad altro, ad una
compiutezza che non possiede ma di cui percepisce mancanza […]
L'ostentazione di buoni sentimenti e rettitudine morale non basta a
penetrare un mistero che contempla il male, il dolore, la caducità
dell'umano operare […] La scoperta, materiale carnale, del senso
del dovere ha ribaltato ogni mio pensiero cresciuto sempre più
insoddisfatto nel regno dei diritti». Ed ecco che in mezzo a queste
riflessioni, apparentemente disparate, in realtà ampie, c'è il
racconto dell'assistenza alla madre malata fino agli ultimi suoi
giorni. Esperienza individuale, concreta, che si fa metafora cosmica
in un canto, dova anche la rima, espediente poetico arcaico, si fa
ritmo dell'esistenza (lett. p. 44).
Potremmo
poi procedere per “parole-chiave”. Tramandare e Tradizione
(possibilmente senza tradimento): p. 48 e p. 81-82. Enucleando
un po' di sarcasmo iperbolico, ascoltare il suo senso del cammino
e del viaggio: «Le ideologie ambientali e animaliste vanno ad
occupare il posto che già fu delle ideologie politiche come a dire:
fallito il progetto uomo nuovo avanti con il nuovo animale […]
meglio assecondare il ritmo del cammino, assaporare ciò
che
nel mondo permane a discapito del brusio costante con scoppi di
fragore a cui siamo assuefatti […] e il viaggio diventa
processione, acquista dimensione sacrale». Per concludere infine,
come suggestione ed invito alla lettura, con la sua Verità
abramitica, che pur lascia intatta la necessità del viaggio
ulissiaco:
«Più
si affievolisce il rapporto con Dio più aumentano gli dèi sulla
scena. Essere ateo è facoltà dell'uomo, può presupporre una qual
certa grandezza, l'idolatria è servile comunque».
Bellissimo
viaggio pagano a risalir sorgenti verso un'altra delle nostre radici
è Tefteri – il libro dei conti in sospeso. Il sottotitolo è
la traduzione del titolo, tefteri parola neogreca che
significa appunto «quaderno dove si registrano i conti della spesa
fatta a credito», quello che ricordo usava anche mia madre quando al
negozio di alimentari comprava «a chiodo» (come si dice in
Versilia), “segnando” giornalmente la spesa e poi pagando a fine
mese. Il bottegaio aveva il suo quadernetto e lo riscontrava con
quello di mia madre. Dalla rapida collazione i conti tornavano sempre
e i debiti venivano prontamente saldati. Anche la copertina del libro
mi ricorda il tefteri di mia madre. La partita doppia
di cui si tratta in questo libro è quella del secolare debito di
civiltà che la nostra cultura ha con la Grecia e del “debito
pubblico” che attualmente ha la Grecia nei confronti dell'Europa.
Entrate e uscite, debiti e crediti. Sensibilità, cultura e visione
del mondo contro economia “globale”, la più triviale e
depredatrice, quella del capitalismo finanziario più sfrenato e
selvaggio. Sui debiti si calcolano e si pagano gli interessi, il più
delle volte usurai. Più il debito mai pagato è di lunga data, più
gli interessi si dovrebbero accrescere, con tutto quel che ne
consegue. Nel caso della Grecia, evidentemente, la regola non è
tale, non funziona. Forse, si dirà, perché categorialmente non
omogenea è la natura del debito/credito: da una parte l'immateriale,
dall'altra il materiale...come se non si sapesse che ora l'economia e
i suoi meccanismi sono fra le nozioni più esizialmente immateriali
che la metafisica del virtuale ci impone! La Grecia depredata è
dunque a debito, ma sarebbe lungo parlarne e rischieremmo un
antieconomico romanticismo.
E
comunque non vorrei essere frainteso, il libro non parla di tutto
questo come se fosse un trattato di ragioneria o un j'accuse
ideologico del cantautore politicizzato di turno. Tutto questo è
sotteso, alluso e si propone come una delle molteplici chiavi di
lettura del viaggio in Grecia di Vinicio Capossela.
Questo,
come si è detto, è un taccuino di viaggio. Un viaggio di andata
che si rivela in realtà un ritorno. Partito come Abramo,
verso una Terra Promessa, pur con fede incerta, il bardo Capossela si
trova a ripercorrere la via di Ulisse, il ritorno alle origini, al
proprio posto nel mondo. Un ritorno che trova la “casa”
saccheggiata e preda dei Proci – Pretendenti di non si sa più che
cosa, ormai. Già lo sapeva l'autore che questo viaggio sarebbe stato
un ritorno,
ma
nella finzione letteraria tutto si perdona e si assolve per poter
vivere un sogno. Egli, forse alla ricerca di nutrimento alla propria
musica e alla propria più ampia ispirazione, va alle sorgenti che
non vorrei chiamare come gli esperti «musica etnica», perché
esperto non sono ed è riduttivo. Egli di fatto evoca nel viaggio
atmosfere magiche e mitologiche a sostegno della propria erranza, e
scopre che la Tradizione è, certo, “radice” che complessamente
s'indelta, ma soprattutto “fiume” dai mille affluenti. Feconda
ramificazione impura e impuro specchio d'acque correnti e innocenti.
Vinicio Capossela, in questo libro, scopre nella grecità che
ci informa e ci appartiene, la nostra reale natura, quella del
meticcio. La Grecia come nodo di popoli, dove tutto fu
possibile perché l'indigeno si fuse con l'indoeuropeo che a sua
volta si fuse col semita che a sua volta si fuse con l'”orientale”;
e di meticcia fusione in meticcia fusione in una Galilea delle
genti dove tutto sarebbe stato possibile.
Il
viaggio si compie nel periodo di Pasqua del 2012. E se non è
altamente simbolico tutto questo...ma non mi ci soffermo. Dico solo
che anche qui il tempo ha una scansione “altra”, il tempo del
viaggio si declina e compone diversamente. E il diario realizza la
sua liturgia con scansioni che hanno qualcosa a che vedere col sacro:
la magia di incontri con personaggi fatali, che parlano della krisis,
ma anche di poesia, e di incontri con musiche d'amore e protesta. Nel
rebetiko (termine semigreco e semiturco), la musica “popolare”
di amore e ribellione, e nella figura di mitici rebètes (i
cantanti/cantori di rebetiko) si riepiloga potentemente e
visceralmente tutta la cultura greca dalle origini, la nostra cultura
(che è nostro debito): l'epica omerica, la tragedia, la commedia, il
dionisiaco e l'apollineo, l'affilata razionalità e la passione
d'amore che consuma – e in questa ricapitolazione itinerante
Capossela riesce a scrivere pagine stupende. Dove ben presto si
scopre: che il rebetiko veicola nostalgia in ogni sua
accezione, che è intriso di quello che gli spagnoli chiamano duende,
ma che in portogallo potrebbe essere anche saudade e che il
mangas, protagonista maschile delle canzoni dei rebétes,
è lo splenetico “maledetto” baudelairiano, ma anche il gaucho
che ci ha ben fatto conoscere Borges. E tutto l'universo allora
si tiene nel viaggio, se non fosse che l'uomo vi ha rinunciato in
preda all'assedio che si è imposto. (lett. 2a p. prima di
frontespizio e se c'incastra p. 21 sui popoli di malinconia)
Viaggio
epico con disincanto e con intelligente ironia, quello di Fabio
Genovesi. L'epos del ciclismo e dei suoi eroi è perfettamente
tratteggiato, con quel misto di nostalgia, malinconia e senso delle
buone cose di pessimo gusto, che non ci fa tagliare le vene,
ma anzi intelligentemente ci consola e distrae. Il suo è un viaggio
rapido, leggero, fatto di lievi sguardi obliqui che suscitano buon
umore, e con la certezza del ritorno a casetta propria. Abbiamo
bisogno anche di questi viaggi. Viaggi fuori porta, viaggi di più
corto respiro, dove
magari
Abramo ed Ulisse restano sullo sfondo (e in agguato), ma che ci fanno
tornare a casa “felici e contenti”, un po' più riposati e pronti
per la tenzone con la quotidianità.
Viaggi
in famiglia e di famiglia, dove il sentimento più profondo che si
prova è l'affetto. E non è comunque poco. Riflessioni laiche e
disimpegnate: ben venga lo stile barbaro della pronta battuta e della
satira (che sia di costume o meno). Scansioni in brevi capitoletti
(uno per tappa del “Giro”), dove ogni percorso fatto da questi
guerrieri aligeri è pretesto per sguardi su storie e ambienti della
località raggiunta o da raggiungere. In alcuni ciclisti
intervistati, in alcune storie raccontate di ciclisti del passato,
potremmo anche riconoscere gli Achille, gli Aiace e gli Ulisse di una
moderna epica, tragicomica, malinconica, nostalgica o acutamente,
benevolmente critica.
L'itinerario
di conoscenza qui si fa senza compromettersi, distanziando
nell'ironia un possibile coinvolgimento più profondo, che possa
andare al di là di una semplice, umana simpatia. Neutralizzando in
tal modo i pericoli che ogni viaggio si porta con sé, nel suo
divenire e in ogni storia nel mentre che si racconta.
(lett.
“Intermezzo poetico – posti splendidi nel cuore della Calabria
dove non tornerò mai più”, p. 52 e ss.)
Pellegrini
assoluti, ognuno di noi interpreta il proprio viaggio e la propria
nostalgia che del viaggio è ferita aperta. Nella vita, come nella
letteratura, ci si difende come possiamo dai pericoli, in varia
misura consapevoli che comunque ci sono e sono ineludibili. E in
questa difesa che a volte è confessione di resa al Divino, a volte
ricerca disperata, a volte semplice e sicura navigazione da diporto,
incarniamo un po' Abramo e un po' Ulisse, Figure universali del
viaggio. In questa difesa sappiamo che dobbiamo andare, assediare,
ritornare (o ripiegare)...a seconda delle avventure che ci
capitano. Sono i modelli della nostra strategia, modelli di noi
figure in viaggio che ci ostiniamo a voler dare un senso, ci
ostiniamo a voler trasformare il tempo in un personale, ma
significativo kairòs.
Seravezza,
15 marzo 2014
Francesco
Parasole
mercoledì 12 marzo 2014
Un articolo su Giovanni Lindo Ferretti di cui si parlerà sabato prossimo
Vi proponiamo come informazione su Giovanni Lindo Ferretti un articolo pubblicato su Slowmusic.
per leggerlo seguite il link qui
Lamberto Toisi
per leggerlo seguite il link qui
Lamberto Toisi
martedì 11 marzo 2014
Primo incontro - Terza edizione
Il primo incontro della terza edizione si terrà sabato prossimo 15 marzo alle 17,45 .
I libri scelti dal relatore Francesco Parasole sono :
I libri scelti dal relatore Francesco Parasole sono :
Giovanni Lindo
Ferretti, Barbarico, Mondadori 2013.
Vinicio Capossela, Tefteri
- Il libro dei conti in sospeso, Il Saggiatore 2013.
Fabio Genovesi, Tutti
primi sul traguardo del mio cuore, Mondadori 2013 
Ci aspetta dunque una triade di opere recenti sulle quali Parasole ha individuato profondi collegamenti.
L'azienda presente sarà Giardini Ripadiversilia reduce dal successo del Merano Wine Festival e che presenterà il Nuovo Colli e Mare 2013 e il Vis Vitae 2011 che oltre che in degustazione accompagneranno la cena che seguirà.
Vi attendiamo numerosi.
Lamberto Tosi
venerdì 7 marzo 2014
Eccoci Pronti con il Programma della Terza Edizione di Un Vino Un Libro
Ringraziando tutti per la partecipazione degli anni scorsi vi attendiamo anche quest'anno all' Antico Uliveto di Pozzi Di Seravezza
Di seguito il Programma:
Ringraziando tutti per la partecipazione degli anni scorsi vi attendiamo anche quest'anno all' Antico Uliveto di Pozzi Di Seravezza
Di seguito il Programma:
Un
Vino Un Libro
Terza
Edizione
§
Gli
incontri si terranno di Sabato alle ore 17,45 presso il
Ristorante Antico Uliveto di Pozzi di Seravezza (G.C.) .
Primo
incontro
Dott. Francesco
Parasole
15 Marzo -
Giovanni
Lindo Ferretti, Barbarico,
Mondadori 2013.
Vinicio Capossela, Tefteri - Il libro dei conti in sospeso, Il Saggiatore 2013.
Fabio Genovesi, Tutti primi sul traguardo del mio cuore, Mondadori 2013
Vinicio Capossela, Tefteri - Il libro dei conti in sospeso, Il Saggiatore 2013.
Fabio Genovesi, Tutti primi sul traguardo del mio cuore, Mondadori 2013
Az. Giardini
Ripadiversilia – Seravezza (LU)
Secondo
Incontro
29 Marzo – Breviario.
Per apprendisti filosofi
Presentato
dagli Autori- Caputo Gianluca; Cortese S.; Mannucci Marco
Az. agr. Macea –
Borgo a Mozzano (LU)
Terzo
Incontro
Prof. Paolo
Neyroz
5 Aprile – Il
desiderio di essere come tutti
di Francesco Piccolo
Az. La Torre Antica
Grambassi (FI)
Quarto
Incontro
Prof. ssa
Cristina Cassina
10 Maggio – Moby
Dick di H. Melville
Tenuta Mariani -
Bozzano – Massarosa ( LU)
Quinto
Incontro
Prof. Vincenzo
Zappala
17 Maggio – Il
Signore delle Mosche di William Golding
G.D Vajra - Barolo
(CN)
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