«Siamo
d’accordo, sono le parole che creano il mondo e io cammino su
questo
mondo.
Però mi attira ciò che si nasconde dietro ogni parola, dietro ogni
tessera del mosaico planetario. Trattengo il fiato, mi tuffo sotto
la superficie delle parole e scopro
mille mondi nuovi. Certo, mi sono lasciato un po’ d’aria
per sorridere. L’ebbrezza da
profondità
è una vertigine a portata di mano, poche righe sotto la superficie
della pagina...».
Haim
Baharier, Qabbalessico
Esistono
vari tipi
di “coscienze”, uno di questi tipi
ci dice per l'appunto che «scienza
e coscienza vanno scritti con la “i”»
e il tipo
in questione lo potremmo chiamare allora «coscienza grammaticale».
Alcuni ribatteranno subito che faccio confusione fra “conoscenza”
e “coscienza”. Per niente, “conoscenza” infatti non si scrive
con la “i”. E poi, la “coscienza” è innanzi tutto uno stato
interiore dell'essere umano, una potenzialità e una consapevolezza
insieme, che vengono prima di ogni legge, regola o descrizione. In
principio c'è la coscienza del linguaggio e della lingua, poi la
conoscenza con le sue definizioni. E la
“scienza”, che si scrive con la “i”, da che parte sta? La
scienza, probabilmente, è un grande vaso dove confluiscono coscienze
e conoscenze in maniera ordinata e congruente. Un archivio sempre
vivo da cui attingere e a cui immettere i risultati o anche solo i
conati della ricerca. E detto così, tout
se tient.
Ma le cose umane non sono mai facili, come lo è un teorema
dimostrato.
Mi
si obietterà allora che se “scienza” e “coscienza” si
scrivono con la “i”, è perché siamo nell'ambito di nozioni
quali: l'uso, la consuetudine, la convenzione e la regola, e quindi
mi si dirà: «che
ci combina scomodar la “coscienza” per questa elementare
regoletta che ci insegnano alle scuole elementari (forse ancora)?».
Ci combina, ci combina, perché il linguaggio è proprio come la
coscienza, vive di libertà e di restrizioni. E funziona come il
cuore: nell'alterno pulsare di diastole e sistole. E questo come
preambolo può bastare.
La
lingua italiana, come tutte le lingue del mondo, è dunque in
movimento. L'Accademia della Crusca (per storia e leggenda guardatevi
il sito) vigila. Vigila che il naturale sviluppo della lingua
italiana, lo sviluppo che arricchisce e non depaupera, non si
trasformi in ipertrofica babele. Una babele in cui la lingua da
strumento di comunicazione diventi arma di fraintendimento e
incomprensione. Vigila che non si trasformi, questo naturale
sviluppo, in un'asfittica consunzione, in un'impotenza espressiva,
arma di manipolazione e di ottuso conformismo. L'Accademia della
Crusca vigila e mantiene viva la coscienza della lingua italiana. In
questo caso “coscienza” è anche sinonimo di “identità”.
Ed
è proprio da questo nobile osservatorio che è partito l'allarme del
piuttosto
che...allarme che mi provo a propagandare, convinto che il
(libero) pensiero passi (anche) dalla cruna dell'ago di una
grammatica.
Su
ogni cosa sarebbe necessario riflettere. Cercare di avere più (e ci
insisto) “coscienza” possibile di ogni strumento che usiamo. Le
parole, ad esempio. Maneggiarle con cura, rispettarle, apprezzarle,
ovvero: saper attribuire loro il giusto prezzo, il
giusto valore. Parole che hanno un'origine a volte lontana
(etimologia), il cui significato nel tempo si è arricchito o
specializzato (semantica) hanno da raccontarci molto di noi e della
nostra storia. Anche le parole più piccine, le più umili, le
locuzioni gregarie che servono da collegamento al discorso, snodi
ausiliari ma fondamentali all'epifania del pensiero. Una di queste
locuzioni è il nostro piuttosto che...vediamola più da
vicino, scomponendola preliminarmente.
Più,
può avere “più” funzioni grammaticali (anche aggettivo o
pronome), ma qui ci interessa come particella avverbiale comparativa.
Tosto,
con “tosto” il discorso si fa interessante. Forma avverbiale per
“subito” (velocemente, repentinamente), ma anche aggettivo per
“duro” (solido, compatto); vedi il “tipo tosto”, testardo e
per lo più antipatico dei nostri modi di dire. Tosto come
duro e veloce...ma perché? In effetti pare che la parola derivi
dalla forma di participio passato, o più correttamente dal supino,
dei vb.i latini torrère (tostum > tosto) e tostare
(tostatum > tostum > tosto): «bruciato»,
talmente bruciato da essersi prosciugato e solidificato, ovvero
«indurito, tostato»; e tutto questo pare che venisse percepito dai
nostri progenitori latini come una cosa veloce, velocissima, “tosta”,
appunto. (Chissà, l'immagine del fuoco che brucia, e tosta, in men
che non si dica...)
Con
che la faccio breve: in questo caso particella avverbiale
comparativa (il quam dei latini (ancora loro!), punto di
svolta fra il primo e il secondo termine di un paragone).
Voi
mi capite che, se piuttosto che si può “tradurre” come
più duro/veloce di...qualcosaltro, il qualcosaltro
è inferiore (cioè, meno duro e meno veloce...tanto per restare sul
terreno dei comparativi) e siamo di fronte ad un confronto
(comparazione) che vede il qualcosaltro soccombere, essere
preferito dal qualcosaltro ancora, che però viene prima
(primo termine del paragone)...
Ora,
vorrei ulteriormente convincervi che mi sono preparato per questo
intervento e passo allora alla classica citazione da fonte
indiscutibile, autorevole anziché no, o piuttosto che
no (prima ho citato la Crusca, ma ora vi stupisco).
Una
completa disamina
di piuttosto,
ce la dà la Treccani, più precisamente in:
http://www.treccani.it/vocabolario/piuttosto:
Piuttosto:
avv. [composto
di più
e dell'avv. tosto]
1.
Nel
sign. proprio, etimologico, più
presto;
in tale accezione, ormai
fuori d’uso,
si scrive preferibilmente in grafia staccata: il
fuoco di sua natura più tosto nelle leggieri e morbide cose
s’apprende,
che
nelle dure e più gravanti (Boccaccio).
Da qui, nel
linguaggio corrente,
più
facilmente,
più
spesso,
più
volentieri;
serve a indicare che qualche cosa avviene o si
sceglie a
preferenza
di altra dello stesso genere:
in
questa regione piove p. d’estate che d’inverno;
non
prendo
la carne,
vorrei
p. del pesce;
voglio
p. essere infelice che piccolo,
e
soffrire
p. che
annoiarmi
(Leopardi).
Introduce spesso una comparazione tra due parti uguali del discorso
(due aggettivi, due verbi, ecc.): sono
zone in cui fa p. caldo che freddo;
lo
direi sfacciato p. che
disinvolto;
chiederebbe
l’elemosina p. che rivolgersi a lui per aiuto;
e in frasi ellittiche: non
ci
arrenderemo:
p. morire;
chiedergli
scusa? mi farei p. licenziare.
Preceduto da o
equivale
a «o meglio» e serve a introdurre un’ipotesi più probabile,
un’espressione più propria a confronto di altra già espressa:
verrà,
o
p. manderà qualcuno a rappresentarlo;
dalla
parte dalla quale io ti favello,
è
notte,
come tu vedi, o piuttosto non vedi (Leopardi).
2. Frequente, senza un secondo termine di paragone, nel sign. di «alquanto», «abbastanza»: fa p. freddo questa mattina; è un film p. interessante; una ragazza p. graziosa; spesso come espressione attenuata di giudizio spiacevole: l’esame è andato p. male; è stato p. maleducato con me.
3. Improprio l’uso di piuttosto seguito da che con il sign. di «o», «oppure», per indicare un’alternativa.
2. Frequente, senza un secondo termine di paragone, nel sign. di «alquanto», «abbastanza»: fa p. freddo questa mattina; è un film p. interessante; una ragazza p. graziosa; spesso come espressione attenuata di giudizio spiacevole: l’esame è andato p. male; è stato p. maleducato con me.
3. Improprio l’uso di piuttosto seguito da che con il sign. di «o», «oppure», per indicare un’alternativa.
Quello
che qui ci interessa è la sez. 3: “improprio l'uso...”. Bontà
sua, la Treccani adotta un'espressione “politicamente corretta”
per “decisamente sbagliato”! Altro che “improprio”... ma
forse – contrariamente ai colleghi della Crusca – il
lessicografo-treccani preferisce restare in attesa, in attesa che
magari l'improprietà diventi regola, uso costante, se non
addirittura esclusivo. E il peccato, giudicato veniale, assurga a
regola di comportamento e di bello e simpatico scrivere. Il
lessicografo-treccani, anonimo, non si vuol prendere responsabilità,
né vuole passare alla storia della patrie lettere come un Catone,
per di più codino, reazionario e (Dio ne guardi!) purista.
Io
non ho di questi problemi.
E
se allora dei milanesi qualsiasi (con rispetto parlando) mi
trasformano la locuzione avverbiale “piuttosto
che” da
locuzione comparativa – come è sempre stata – in locuzione
disgiuntiva, blandamente disgiuntiva, praticamente quasi congiuntiva,
per me c'è di che turbarsi non poco.
E
se poi, dai milanesi qualsiasi di cui sopra, questo uso si
trasferisce velocemente (tosto)
al mondo giornalistico, televisivo e tipografico, la cosa diventa
inquietante. L'incoscienza linguistica si propaga come un incendio,
un'esondazione, una metastasi. E il vezzo
antipatico di pochi incoscienti snobbini
si palesa qual è: un vizio,
come l'etimologia ci rivela. Ma figuriamoci se qualcuno si mette
ancora in ascolto dell'etimologia, per avere un minimo di coscienza
(giustappunto) di quel che dice!
E
non ne stiamo facendo una questione di purità,
purezza, purismo, puritanesimo...'sti
cazzi (direbbe il Grande Carver – in esoterico acronimo anche: I.
G. C., per i suoi fedeli seguaci)! Ne facciamo bensì una questione
di comunicazione o, per gli aziendalisti, di utilitaristica economia
linguistica, se vogliamo buttarla sul malthusiano brutale.
Da
tempo nella nostra lingua alcuni vezzi/vizii si vanno imponendo.
All'inizio
simpatiche primizie e originali “modi di dire”, finché
circoscritti, nel loro successivo diffondersi diventano antipatici
abusi, inutili ridondanze, segnali di povertà di spirito, di
schematica formularità del pensiero, di pigrizia dell'espressione.
Magari, alcuni anche grammaticalmente corretti (o al limite), ma
drammaticamente scontati. E con questo stiamo andando a
definire in realtà il “luogo comune” (vedi Flaubert che ci
scrisse un famoso dizionario...), il citazionismo ormai inconscio di
derivazione pubblicitaria o giornalistica, piuttosto che l'errore
grammaticale in senso stretto. I luoghi comuni ci son sempre stati e
le “frasi fatte”, pure. Certo, ma ora decisamente, il troppo
stroppia! O no?
“Esatto!”
per
“sì!”
(rivelatoci già in antico da U. Eco nel suo Diario
minimo,
Fenomenologia
di Mike Bongiorno);
“anche
no”
e “anche
sì”;
“assolutamente
sì”
e “assolutamente
no”,
poi, per far prima (?), solo “assolutamente”,
affidando il senso del “sì” e quello del “no” all'enfasi
interpretativa più o meno alta o bassa, gonfia o sgonfia, della voce
dell'enunciante.
E
ancora: «C'ho
e
c'ha,
per “ho” e “ha”, quando a
monte o a valle
non si giustifichi né un luogo (un “qui”), né un vantaggio (un
“per noi”)...oppure, anzi no!, piuttosto
che
espressioni del tipo, savasandire,
faccio cose, vedo gente...lavoro, guadagno, pago, preténdo
(mi raccomando “e” tonica meneghina, particolarmente chiusa e
strascicata)...mentre vanno in giro tipe,
sbandierando il lato B
(perché “culo” è volgare da scrivere, ma da mostrare anche
no!),
ben sapendo tutti che il
problema è ben altro...ma
che
questa è un'altra storia...o
quant'altro,
perché c'è una bella differenza se ci mettiamo un
minutino piuttosto che un nanosecondo...quando
poi in
ultima analisi
è solo un problema di degrado piuttosto
che
di parentado...infine, ho
visto cose che potrei stupirvi con effetti speciali:
la scomparsa dei congiuntivi, con la collusione dei condizionali e la
smaccata complicità delle subordinate, ormai vieppiù resesi da
tempo irreperibili...ma qui m'ammuto, per non tediare questo nobile
conseNso, piuttosto che questa
platessa
illustre, qui riunitasi in questo prestidigitoso
ascoltatorio...piuttosto che andare
a vedere la partita (ma chi ve l'ha fatto fare?)».
Le
parole di una lingua, di tutte le lingue, si affievoliscono e si
perdono, a volte. A volte si risignificano, cambiano di segno, si
rimodellano. A volte esplodono in frammenti di altre parole, o si
nascondono quasi implodendo in altre parole ancora. Vengono
sostituite, per moda, da parole di lingue diverse e così si
abbandonano. Dimenticando la loro storia, il loro carattere. Le
parole si stancano, si usurano, invecchiano e muoiono. Parole un
tempo usate, magari abusate, ma fiere ed orgogliose d'essere
ricettacoli di idee ed emozioni, si obliterano nelle voci di chi
parla, nella babele dell'etere e della carta stampata,
nella
memoria, sempre più siliconica.
Alcune
poi si nascondono (per timidezza o paura) e non si riesce più ad
usarle. Non le troviamo più. Spariscono dalla circolazione. Pochi
valorosi nostalgici allora ne vanno in cerca, intervistando i vecchi,
prima che se ne vadano anche loro per sempre coi loro segreti di
parole e storie. E quando va bene, queste parole perdute, fragili e
dimenticate, vanno a riposare nei ricoveri dell'erudizione: i
registri dei lessicografi, gli inventarii degli storici della lingua.
E vivono in un'eterna animazione sospesa.
A
volte le lingue muoiono. E si perde così un patrimonio immenso di
rappresentazioni del mondo e di rappresentazioni dell'animo umano nel
mondo.
Consumiamo
le parole come i merendini (quelli che i moderni chiamano snaks,
metonimicamente confondendo la tipologia del consumo, secondo
l'espressione anglosassone, da ciò che si consuma e sostituendo a
spuntino un cacofonico
monosillabo, onomatopea di uno schianto, breve e definitivo).
Consumiamo le parole come si consuma la memoria d'ogni esperienza.
Consumiamo le parole con la stessa crudele leggerezza con cui
cambiamo modello di smart-phone.
In
questa deriva, convinti di navigare su rotte più esotiche e
complesse, sguazziamo nella tinozza del giardino, sognando sconfinati
oceani in quindici centimetri d'acqua. Fascinazione del virtuale,
che già che ci siamo potremmo più pertinentemente chiamare
illusione!
In
questa deriva, in cui la ripetizione
non è efficace espediente stilistico di minimalisti in erba, ma
semplice mancanza di parole...,
in questa deriva, anche il pensiero si affievolisce, semplifica il
proprio nobile affanno e si bea di una sintassi breve come i suoi
sogni, disarticolata come i suoi desideri. E il non detto, nasconde
il vuoto, piuttosto che l'ineffabile,
per sua natura solo accennabile e sospeso su un abisso, su una
vertigine di senso; concetto o sentimento che sia. E il non detto, è
solo indigenza di parole. La sconnessione sintattica, ignoranza di
grammatica, piuttosto che
irriducibile profluvio di pensieri che non ammette sponde al suo
spandersi.
La
concezione della purezza di una lingua è una sciocchezza, frutto di
ideologica cattiva coscienza (e sempre qui si torna). Che una lingua
resti immobile così come descritta dai manuali è altra coglioneria
dei grammatici prescrittivi, insipida schiatta di reazionari utopici,
ormai in estinzione. Ma fra il modello ideale di purezza e la
degenerazione in atto ce ne corre. Noi che con tutti omai siamo
connessi, pur tuttavia
superficializziamo le nostre potenzialità comunicative, che sono
potenzialità di relazione con gli altri e al contempo capacità di
costruzione identitaria. Insomma, temo che, in ogni barbarismo
linguistico, in ogni sconnessione sintattica, oggi come non mai si
nasconda una perdita della capacità di pensare, una perdita di
consapevolezza di sé e dell'altro, una povertà dell'Essere. O,
nella migliore delle ipotesi, una povertà di
manifestazione dell'Essere. Dal
flusso di coscienza al flusso d'incoscienza il passo può esser
breve. La faccio troppo tragica? Non saprei.
Comunque,
per non sembrare il solito “apocalittico” e retorico laudator
temporis acti e per tenermi in
buona compagnia, la citazione di un saggio contemporaneo ebreo a
conclusione, qui ci sta bene.
Haim Baharier si riferisce alla
lingua tedesca e alla Germania ai tempi del Nazismo, ma ditemi se non
si potrebbe perfettamente adattare, qui ed ora, alla lingua italiana
e all'Italia. Ecco la citazione:
«Sintomatico
che il linguaggio pervertito abbia messo radici in principio proprio
in Germania, culla in quel momento degli studi filologici e
filosofici: come dire che partoriti da una lingua esemplare siano
nati simultaneamente figli puri e figli mostruosi. E i secondi
abbiano ammazzato i primi in nome della purezza della mostruosità»
(Haim
Baharier, Qabbalessico).
Livorno, 23 Gennaio 2015
Francesco
Parasole
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