“Il
dio il cui oracolo è in Delfi
non
parla e non nasconde,
accenna”.
Eraclito
ESERCIZIO DI LETTURA
DEL
Corno
inglese
ll vento che stasera suona attento -
ricorda un forte scotere di lame -
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l'orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D'alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
ll vento che stasera suona attento -
ricorda un forte scotere di lame -
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l'orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D'alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
Eugenio Montale (da
Ossi di seppia,
1925)
Struttura
e schema metrico: trattasi a prima vista di 18 vv. liberi (ma non
troppo) e sciolti (ma non troppo) in unica strofa.
Dal
punto di vista metrico abbiamo la seguente struttura: 11, 11, 11, 7,
12 (v. sdrucciolo, l'unico: “protèndono”. L'ipèrmetro
sdrucciolo ha una sua funzione che vedremo in seguito), 11, 7, 11, 5,
8, 8, 7, 5, 8, 9, 9, 6, 2. Tutti versi piani, a parte il
dodecasillabo, e tutti versi appartenenti alle nostre tradizionali
misure metriche e prosodiche, a parte il succitato dodecasillabo, il
senario poco praticato dalla nostra tradizione poetica (se non nella
c.d. “metrica barbara”) e il verso bisillabo a chiusura.
Per
cui abbiamo in ordine decrescente: 1 dodecasillabo, 5 endecasillabi,
2 novenari, 3 ottonari, 3 settenari, 1 senario, 2 quinari, 1
bisillabo. Pur essendo una strofa unica è possibile configurarci,
anche per l'andamento sintattico complessivo, 2 strofe da 9 vv. o, in
alternativa, una strofa da 9 vv. e 2 quartine con chiusa o coda
(v.18, “cuore”), tipo accenno a una canzone
antica. Ritengo che si possano ipotizzare altre segmentazioni
strofiche sulla base dello schema rimico.
Schema rimico: A B C B D E F G H I L E H L M M A L.
Schema
rimico piuttosto dilatato se si escludono i primi 3 versi e il
distico baciato dei due novenari in chiusa (vv. 15,16). La prima
sequenza di 4 vv. ABCB col settenario in rima sembrerebbe preludere
ad un andamento strofico tipo “strofe saffica” (3 vv. lunghi e 1
breve in chiusa)1,
ma il resto del testo frustra subito l'aspettativa. L'inversione
metrica (e di ritmo), quasi una cesura stichica, è infatti il v. 5,
D, quello sdrucciolo che resta isolato (senza rima). Così come
isolati da ogni rimando (anche lontano) restano i vv. 7, F, e 8, G,
rispettivamente un settenario e un endecasillabo, che però fra loro
sono assonanti (“chiari / Eldoradi”), quasi a chiudere un'ideale
ottava. Infatti, i 10 vv. successivi si caratterizzano da un numero
di sillabe inferiore, fino a ridursi al bisillabo finale. Altro verso
isolato di una seconda ideale strofa è il v. 10, I, ottonario, che
sembra recuperare dall'interno questa mancanza di rima con la
ripetizione in poliptoto onomatopeico del secondo emistichio
(“scaglia a scaglia”). Come se i versi non contrassegnati da rima
(5, 7, 8 e 10) sentissero la necessità di diversamente marcare
comunque un loro ritmo: sdrucciolo, assonante e in rima interna.2
Un'ulteriore ipotesi di suddivisione strofica ideale potrebbe quindi
anche esser quella fondantesi sui vv. sciolti come, per così dire,
“pietre d'inciampo”, cesure o pause (a parte il v. 3). Per cui
avremmo:
Numero
versi : 1
2 3
4 5
6 7
8
9 10
1112 13 14 15 16 17 18
Schema rimico: A B C B // D // E // F G // H
// I // L E H L M M A L
Schema metr. : 11 11 11 7
12
11 7 11
5 8
8 7 5 8 9 9 6 2
(gli ultimi 2 vv. fanno ritmicamente un ottonario, il che
evidenzierebbe una complessiva preminenza sia dell'endecasillabo che
dell'ottonario stesso (4 e 4), in seconda posizione allora avremmo il
settenario (3), in terza i quinari e i novenari (2) e isolata ancora
la misura più grande 12).3
Questa poesia ha un ritmo e un'armonia dissonante, non sono
rinvenibili andamenti dattilici o giambici continui e coerenti, o
comunque ritmi e cadenze omogenee e, pur rispettando correttamente
l'accentazione nelle sedi sillabiche deputate, si rasenta, come
spesso accade in Montale, la perplessità della prosa. Questo tipo di
“effetto” deriva sia dalla polimetria sostanziale e
apparentemente non strutturata del carme, sia dalla complessità
sintattica dell'unico periodo che lo compone. Lo scarto dalla prosa è
vigorosamente riaffermato però dalla trama e dalla partitura
fonetica delle parole che si richiamano e rincorrono per tutto il
testo al di là delle rime stesse. Siamo di fronte ad una vera e
propria serie di figure di suono come emesse da un unico lungo
profondo respiro. Respiro che “si protende” oltre il respirabile
come le “strisce di luce” che “si protendono” oltre
l'orizzonte nel v. 5, non a caso sdrucciolo, ipèrmetro (proteso),
come a sottolinearne la solitudine estrema sul filo di un baratro.
Il titolo e la figura: Corno inglese, titola Montale questa
poesia. Il corno inglese è uno strumento a fiato ad ancia doppia e
canna conica. Tecnicamente è un “oboe contratto” (estensione di
un quinto sotto quella dell'oboe). L'aggettivo inglese pare
derivi da un'errata traduzione del francese anglé, in realtà
«angolato»,
per l'angolo che presenta verso il centro della canna. Montale di
tutto questo era consapevole, ecco perché la sua poesia anche
graficamente assume la forma di un cono rovesciato, irregolare, come
irregolare rispetto all'oboe è la foggia del suo parente, il corno
inglese appunto. Un cono rovesciato, praticamente un cuneo che va
fino in fondo al...”cuore”. Se centralizziamo nella pagina i
versi la cosa è patente. Se altrimenti allineiamo a sinistra (come
in genere si fa nelle edizioni a stampa), siamo di fronte ad un
irregolare “flauto di Pan” - sempre di aerofono trattasi – che
ci ricorda il carmen
figuratum attribuito
a Teocrito (IV/III sec. A C.), la syrinx
(termine greco indicante “flauto di Pan”, ma anche “zampogna”).4
In pratica vorrei affermare che siamo di fronte, anche se non proprio
ad una poesia figurale o calligramma sofisticato all'Apollinaire, ad
una consapevole rappresentazione grafica dello strumento che dà il
titolo alla poesia da parte di Montale. Consapevole rappresentazione
grafica del corno inglese che trova un'ulteriore conferma nel lessico
allusivo adottato: “suona” (v. 1), “strumenti” (v. 3),
“suonasse...scordato strumento” (vv. 16-17) e “lancia … una
tromba” (v. 12) dove, oltre a richiamare il principe degli aerofoni
(“tromba”), con “lancia” (verbo) per omofonia istituisce un
sotteso, raffinato richiamo a “l'ancia” (sost.) imboccatura
dell'oboe e, se doppia, anche del nostro corno inglese.5
L'ultimo
verso, infine, il bisillabo “cuore” rappresenterebbe l'ancia del
corno inglese (anche se nella sua varietà specifica di doppia ancia
pure il vento
ed il mare
richiamati nella poesia potrebbero assolvere simbolicamente a questa
funzione). Un'ancia rovesciata (perché “scordato strumento”?) da
cui parte ogni suono, ogni musica, magari il soffio della creazione
stessa.
Struttura
metrica, titolo e forma grafica, prosodia e richiami (interni ed
esterni, allusivi) situano la poesia in un contesto simbolista
(francese), ermetico (italiano) e, per ciò che concerne la
musicalità della partitura, anche romantico (ma decisamente non
sentimentale). Il lascito della cultura francese in particolare,
oltre che ammesso dal poeta in vari contesti, è stato ben analizzato
da tal Gian-Paolo Biasin che, rifacendosi all'Intervista
immaginaria di Montale del 1946, mette in risalto le suggestioni
attive nella poetica montaliana dei Simbolisti e, soprattutto, della
musica di Debussy (1862-1918), con i suoi sperimentalismi e le sue
rotture di certi stereotipi musicali, pur all'interno di una
sofisticata rielaborazione della tradizione passata.6
Ma
dalla misurazione delle quantità e dalla schematizzazione della
struttura, potrà essere più interessante trasferirci sul piano del
godimento sonoro, evocativo, suggestionante e, per quel che si può,
significativo del testo. Insomma, un'analisi impressionista di questo
“modulato grido”.
Il
vento che stasera suona attento, già con quel “che” così
apparentemente innecessario, pone quell'attenzione sul piano di una
relazione specifica con qualcosa o qualcuno che ci sono (ancora)
ignoti. E quella che dovrebbe essere una similitudine diventa subito
e in realtà un ricordo messo fra parentesi (più propriamente fra le
due lineette, enfatizzate all'occhio in fine verso): - ri-cor-da
un forte scotere di lame -. E in quel denunciato ricordo è già
presente nascostamente il cuore-ancia del corno. In quel ricordo si
parla di duelli di spada, forse anche, come è stato detto, di
battaglie. Ma io non mi lascio distrarre da quel forte e mi
fingo lo scotere di lame come una vibrazione potente,
profonda, un'onda sonora che si propaga metallica fino ad assumere la
dimensione di un rimbombo.
Attentamente
il vento suona gli strumenti dei fitti alberi, ed è un
concertista nel momento dell'”a solo” e mi immagino dapprima una
pioppeta, poi mi correggo (i pioppi sono ben distanziati e non
“fitti”), e penso ad un intricato bosco (magari lecci, querce e
castagni), immenso diapason nelle mani del vento.
E
spazza / l'orizzonte di rame ancora questo vento, che ora oltre a
suonare pulisce anche i tramonti. D'intorno tutto è metallo fuso,
musica e colore, lame e rame (dove non solo la rima ma anche
l'opposizione fonematica minima /l/ - /r/, di consonanti che
hanno lo stesso punto di articolazione, ci richiama ad una liquidità
sinestetica).
Ma
cosa succede nel tramonto di questo cielo? Mentre il vento suona e
spazza e tenta di tutto ricondurre ad un unisono...l'orizzonte è
luogo dove strisce di luce si protendono, un lungo, forse
sottile orizzonte esteso a diventar tramonto e che si protende nel
cielo, così come questo verso, il più lungo e solitario di tutta
questa poesia. Un protendersi sdrucciolo, al limite di ogni
possibilità di ritorno. Qui il movimento subordinante di quest'unico
“intorto” periodo si palesa e sprofonda a spirale, forse un à
rebours della memoria. Il corno inglese rovesciato inizia a
disegnarsi. Le strisce di luce mi ricordano le aurore dalleditadirosa
di Omero, ma qui è sera, e c'è il vento. Le luminose aurore di
Omero erano senza vento. Qui il vento suona (e spazza), solo al
tramonto evidentemente.
A
questo punto sembra necessario dare concretezza a queste strisce
luminose perché non diventino troppo numinose e inafferabili, ed
allora ci sta bene, qui sì, la similtudine come aquiloni al cielo
che rimbomba...ed anche questo è un verso lungo e profondo come
il rimbombo che si richiama alla sua fine. Anzi, a rigore, se non
fosse per il soccorso delle 2 sinalefi che lo riducono alla giusta
misura, è questo, alla vista, il verso più lungo (e anch'esso,
guarda caso, solo). Fra la percezione visiva e quella sonora
s'instaura uno iato che il rimbombo del cielo con la sua repressa
elettricità sembra tener insieme. Questa è davvero una similitudine
omerica, mi dico, anche se Omero non scrisse di aquiloni. Anche se le
sue battaglie di bronzo davvero rimbombavano come questo cielo che si
fa tamburo, o basso continuo, alla danza di rame degli aquiloni e
alla musica di tutta la poesia.
Vi
è poi un ulteriore movimento, che a ben vedere è in realtà una
sospensione del tragitto sonoro del vento e un più acuto
sprofondamento nell'altrove. Le incidentali scavano, amplificano,
allontanano, e paradossalmente sospendono (è il rimbombo che si fa
più umile ed evanescente eco?). Se nei primi 2 versi lo spaesamento
era affidato a lineette liminari, ora, forse per amor di variatio
diacritica, ci si affida alle più domestiche parentesi (Nuvole in
viaggio, chiari / reami di lassù! D'alti Eldoradi / malchiuse
porte!). Lo sprofondamento si rivela vertiginosa altezza e acuta
nostalgia sottolineata dalle 2 esclamazioni, quasi in un unico
sospiro che prima s'ingrossa (settenario, endecasillabo, in
enjambement), per poi esalare (quinario). Così le 2 apostrofi
suonano come rimpianto e rimprovero. E secche si fanno cesura nel
verso (lassù!...porte!). La distanza, quella dell'ora e del
qui, da un Eden che fu, sognato o vissuto, ma comunque perduto e
sfuggente (nuvole in viaggio), s'incarna in un grido
trattenuto, circondato dalle parentesi che non lo attenuano nella sua
potenza, semplicemente, come in un bassorilievo, lo stagliano meglio
nella trama centrale del carme. E le malchiuse porte mi
sembrano quelle delle promesse non mantenute, dei miraggi spettrali,
di chi ci adesca e seduce sottraendosi e lasciandoci sempre
nell'arsura del desiderio. Malchiuse porte dei nostri
inattingibili reami, dei nostri Eldoradi. E' in questo centro (messo
fra parentesi) che la visione fa più male. E' questo centro, dove
come nell'occhio di un ciclone dovrebbe permanere quiete di vento, è
questo centro che invece ci “scote” ancor più delle lame, aperta
ferita nelle nostre illusioni.
So
bene che altri potrebbero interpretare questa lunga interiezione come
un grido di speranza, un'esaltazione e un gioioso auspicio.
L'auspicio che da quelle malchiuse porte ci si possa prima o
poi intrufolare (come clandestini, magari) e godere dei reami e degli
Eldoradi. Che non a caso sono al plurale, perché ognuno ha i suoi.
Ma io in tutto questo incanto m'impessimisco e leggo dolore.
La
poesia potrebbe finir qui. Siamo precipitati in un grido fra
parentesi. Basta così. Ma no, il poeta ci stupisce ancora e crea con
una coordinazione un compagno al vento, frustrando ogni nostra
aspettativa sintattica e ogni anelito a sopire l'affanno. E' come in
una sinfonia, quando uno strumento si raddoppia, 2 flauti che suonano
la stessa parte, 2 corni inglesi in questo caso … e il raddoppio
per breve tratto, il secondo corno inglese, il deuteragonista in
questione, è il mare.
E
il mare che scaglia a scaglia, / livido, muta colore / lancia a terra
una tromba / di schiume intorte; ...il mare si fa compagno del
vento e questa liaison si svela nella congiunzione d'inizio
verso, così lontana da ciò che congiunge che a tutta prima ci
lascia straniti, come ogni richiamo che ci giunga da lontano. Un
aiuto a questa “e” è dato da rime anch'esse lontane, ma
che comunque in qualche modo legano la partitura dell'inizio alla
fine che si sta approssimando con la ripresa del tema iniziale e la
chiusura circolare. Le rime rimbomba / tromba, porte /
intorte...in ciò recuperando anche il cielo (un terzo
esecutore/strumento) e donandoci un trittico classico: vento, cielo,
mare. Come a dire che c'è proprio tutto in questo canto. Tutto
quello che conta per fare poesia, e non solo canzoni napoletane. E
quindi anche il mare compie il suo lavoro, esegue il suo spartito. La
parte è breve, come lo schianto di un'onda sugli scogli: 8, 8, 7,
5...si gonfia cresce s'abbatte muore. Un mare scaglioso, ogni scaglia
un colore (penso ad arlecchino, poi no, la cosa è più
mincacciosa!), un mare metamorfico, multicolore, un mare che penso
allegoria del tempo e dell'inevitabile morte. Non per caso (niente è
per caso in Montale) il v. 14 che ritorna al vento finisce con muore.
Nel vento, nel cielo e nel mare di Corno inglese vedo lo
spazio, il sogno e il tempo in cui è immerso l'uomo. Non
propriamente dimensioni clementi, forse (lame, scaglie, malchiuse
porte), ma che sanno suonare strumenti (il corno inglese,
ad esempio, o il cuore)... E questo mare camaleontico e
frammentario è detto pertinentemente livido, e in questo
aggettivo c'è tutto Omero, o meglio, c'è da parte di Montale,
consapevolmente, la scelta lessicale che in italiano è data dai
traduttori dell'epoca a uno degli aggettivi più tradizionali ed
enigmatici che Omero attribuisce nei suoi poemi al mare.7
Allora,
mentre il vento suona attento (c'è cura ed affezione in questo
“attento”), mentre il cielo rimbomba le sue illusioni, il mare
infine lancia a terra una tromba di schiume intorte. Come dire
che nel suo andirivieni di risacca, il mare consuma tutta la sua
musica, portando alla morte ogni esecuzione. La tromba di schiume
intorte “suona” immagine strana, quasi mi sembrerebbe
barocca, qui è il mare stesso che è sia strumento che musica, una
musica di spume che si spiralizzano per protendersi fino a morire
lungo i lidi o nella violenza di scontro con gli scogli.
Quell'intorte, nella funzione intensiva e frequentativa di
quell'in-, crea una tensione tale che può trovar quiete solo
nello scaricarsi definitivo dell'onda sulla terra. E la pausa dopo il
lancio della tromba è un semplice, umile punto e virgola; perché il
movimento sinfonico (il periodo) è unico e nel richiamarsi dei temi
a distanza le pause devono essere brevi.
Infatti,
si ritorna al vento, il vento che nasce e muore / nell'ora che
lenta s'annera, un vento che fra nascita e morte si alterna e
ri-corre come le onde. E' la ciclicità di ogni esistenza che viene
rappresentata, collocata in un crepuscolo permanente (verrebbe da
dire purgatoriale...nell'ora che lenta s'annera), è la musica
degli eterni ritorni che pur s'inventa ogni volta in accordanze e
discordanze nuove. Il corno inglese rovesciato sta finendo la sua
sinfonia in un unico gesto (l'unico movimento di cui è costituita la
partitura della poesia), l'ancia doppia – il cuore – è
cuneo sprofondato, spalancata voragine dentro il poeta, ed è origine
e al contempo fine della musica. Questa duplicità che è misteriosa
coincidenza d'opposti (alto-basso, miniera e cava a cielo aperto)
porta a far sì che lo strumento-ancia (sineddoche) cuore si
scordi. E l'apostrofe finale è “modulato grido” del poeta,
perché la musica non finisca, perché il miracolo si ripeta, perché
lo strumento possa nuovamente ac-cord-arsi con l'universo. E
questo compito di riaccordo è dato, con una preghiera
obliqua, con un'invocazione “ottativa” indiretta (ci si rivolge
al cuore parlando di fatto al vento), al Grande Solista, il vento
appunto, a cui si affida la rinascita di uno strumento s-cord-ato.
Rinascita sul duplice piano della musica dell'esistenza e della
memoria che custodisce e perpetua.
Il
vento che nasce e muore / nell'ora che lenta s'annera / suonasse te
pure stasera / scordato strumento, / cuore. La ciclicità del
finale (la “composizione ad anello” dei tecnici del verso) non
chiude né risolve la musica. E' coscienza sapienziale (penso a
quella pitagorica) di apertura verso l'infinito. La perfezione del
cerchio qui riproduce solo una sospensione (un'altra pausa) della
musica del cuore (cuore a volte s-cord-ato a volte ri-ac-cord-ato)
che è musica ininterrotta ed eterna dell'universo.
Come
ci ricorda G. P. Biasin, Debussy amava il corno inglese e Montale
amava la musica di Debussy, per cui potremmo concludere che, anche
nella fattispecie, tout se tient. Sempre Biasin ci informa che
di questa poesia (compatta e tetragona) la frase principale
corrisponderebbe alla linea melodica e quelle secondarie
(incidentali, parentetiche, digressive) sarebbero i materiali
armonici, distribuiti però in maniera più massiccia rispetto al
tema melodico principale, sì da creare una sproporzione (un
rovesciamento) “nuova”, ritmicamente e musicalmente. Questa
novità è all'origine di quel senso di stupore che ci procura la
tradizione rinnovata, trasgredita e omaggiata al tempo stesso. E' una
musicalità diversa con gli stessi materiali, l'originalità di un
suono che ci procura epifanie mai viste ed inaudite. In fondo
trattasi di vento, cielo, mare e cuore (e magari pure di un
inespresso amore) ma tutto “suona” nuovo, ancor più che
rinnovato. Tutto ci dice qualcosa di ulteriore che affascina e
rapisce.
Ancora
Biasin s'intrattiene ad analizzarci il tessuto sonoro della poesia,
sia sotto l'aspetto della trama che dell'ordito (un'analisi fonetica
e fonologica – semantica – dei sememi), e lo spartito musicale
che ne viene fuori nella sua potenza evocativa e parenetica è
estremamente convincente. I rimandi lessicali ad altre poesie (del
poeta o di altri poeti) evidenziano, poi, una memoria poetica attiva
e coerente di Montale, condizione fondamentale della grande e bella
poesia (e qui mi rammento dell'aureo libello di G. B. Conte, Memoria
dei poeti e sistema letterario).
L'inesauribilità
della lettura, tipica solo della grande arte (musica, letteratura,
pittura), è tutta presente nel Corno inglese. Quella
inesauribilità che ci dà la sensazione che ci manchi sempre
qualcosa a una piena coscienza della perfezione (che sentiamo ma che,
oltre ogni dettagliata analisi, sappiamo di non poter totalmente
comprendere). Le mani ci prudono, ci formicola la mente, sospettosi
gorgoglii s'esalano dallo stomaco e un'impennata della pressione ci
fa arrossire la faccia. Ci sfugge qualcosa, sappiamo solo di non aver
detto tutto, di non poter di tutto. Fisicamente sperimentiamo
l'Ineffabile.
Di
una cosa forse siamo un po' coscienti e allora, nani su spalle di
giganti, ripetiamo fra noi che non ci si chieda più... la parola...
o altre parole ancora...e che solo questo oggi possiamo dire...che
poesia è contemplazione di una Rivelazione, che non sappiamo ma che
vogliamo.
Livorno,
19 Giugno 2015
Francesco
Parasole
1O
anche, ma solo per la lunghezza dei primi 3 versi, una “strofe
alcaica”. Resta il fatto che Montale usa con molta consapevolezza
anche quella metrica barbara
cara al Carducci e al Pascoli.
2A
onor del vero anche il v. 3 in C (quello della strofa iniziale più
“chiusa”) è un verso isolato e si marca quindi con l'inarcatura
allitterante del verso successivo: “spàzza/l'orizzònte”
(geminata labiodentale sibilante sorda /ts/+
geminata labiodentale sibilante sonora /ds/
in ritmo dattilico). Per cui non si può fare a meno di notare che
la sequenza dei versi sciolti, 3, 5, 7, 8, 10, ha la seguente
proporzionalità di posizione a base 3: 3+5 e 3+7 (8 e 10).
3Questi
metri, lo schema rimico e il numero dei versi potrebbero essere
ulteriormente elaborati nei loro reciproci rapporti matematici e
proporzionali, ma me ne mancano gli strumenti. Chissà che non ne
possa venir fuori una qualche combinazione particolare ai fini della
partitura poetica, se non addirittura una proporzione aurea
regolante l'intera struttura della poesia. O altri nascosti
richiami, o altre nascoste simmetrie. Ai posteri. Io qui mi fermo e
sospendo ogni ulteriore qabbalah numerologica.
4
Per l’antichità si ricordano, oltre alla syrinx
teocritea in forma appunto di “flauto di Pan” e datata intorno
al 300 a. C.
3
poesie di Simia di Rodi (IV/ III sec. a. C.): Uovo,
Scure, Ali; e una
dello stesso periodo di tal Dosiade di Rodi, a
forma
di Altare.
In epoca alto medievale le attestazioni sono maggiori, carmina
figurata (a volte
veri e propri ritratti
di personaggi importanti)
si trovano nella produzione poetica in latino di Optaziano Porfirio
(IV sec. d. C.), Venanzio
Fortunato (VI sec. d. C.)
e Rabano Mauro (VIII sec. d. C.).
5Altre
possibili allusioni, di matrice simbolista ed ermetica, potrebbe
forse essere rinvenute. Come sarei propenso a credere che, in questo
gioco di rimandi sottesi, anche Salvatore Quasimodo in Oboe
sommerso, raccolta poetica del
1932, abbia pensato a Corno inglese di
Montale. Di passata è da notare il rapporto fra “scordato” di
v. 17, il cui significato etimologico è “tolto dal cuore”
(s-cor(d)-) e “cuore” (v. 18, ultimo, definitivo verso, in
apostrofe).
6Cfr.
http://www.rivistadistudiitaliani.it/articolo.php?id=1136
(accesso 17.06.2015), Biasin G. P., Il vento di Debussy: poesia e
musica in Montale, in “Rivista
di studi italiani”, University of California, Berkeley, Anno I, n°
2, Dicembre 1983, pp. 50-74. L'articolo oltre a creare interessanti
correlazioni con le musiche “ventose” di Debussy e la poetica
montaliana (Le vent sur la plaine, Ce qu'a vu le vent de
l'Ouest, Le dialogue du vent et de la mer),
affronta un'analisi stilistica (tessuto sonoro) e sintattica di
Corno inglese e, per
l'analisi sintattica, disegna un grafico illustrante la
periodizzazione della poesia.
7L'espressione
formulare omerica è òinops pòntos
nelle sue varie combinazioni declinative. Letteralmente “mare dal
colore di vino”. Tradurre òinops
“color del vino” ha sempre costituito per i traduttori in
italiano un problema … la maggior parte (almeno fino all'epoca di
Montale) ha ripiegato su “livido”, alcuni su “viola”
(“amaranto” suonava poco poetico o troppo filolivornese), altri
su “nero” (anche perché Omero in altri passi parla decisamente
di un “mare nero”), pochi (e nelle traduzioni più recenti)
hanno scelto la traduzione etimologica, trasportando in italiano
l'alterità della percezione greca arcaica. Livido
avrebbe il vantaggio di mantenere un'ambiguità semantica forse
effettivamente presente anche nel termine greco e indicante una
variegatezza cangiante di colori. Se vediamo le definizioni di
livido nei dizionari,
infatti, sembra che ci siano, più o meno, tutti i colori: partendo
da una base “giallo-pallido”, troviamo “violaceo”
(maggiormente indefinito rispetto a “viola”), “blu-verdastro”,
“giallo plumbeo”, quindi anche “grigio”, “grigio
scuro”...decisamente “nero” (verrebbe di pensare alle
screziature del “tumefatto”). E' evidente dunque che Montale,
parlandoci di un mare che scaglia a scaglia …muta
colore, scelga l'aggettivo
livido, al contempo
indirettamente, ma consapevolmente, evocando/interpretando
un'immagine omerica, epica, arcaica.
Giunta casualmente alla ricerca di Corno inglese (partendo, con volo pindarico, dal corno suonato nel quartultimo verso del Cigno di Baudelaire), ho apprezzato grandemente quest'analisi. Claudia
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