Cerca nel blog

lunedì 3 ottobre 2016

Il collezionista di Tramonti - Recensione conferenza sul libro di S. T. Kondrotas


Realtà e Magia
in
SAULIUS TOMAS KONDROTAS
di
Francesco Parasole


«Mutare d’identità non significa però rinascere, smacchiarsi la coscienza.
Mutiamo quando risaliamo nel nocciolo oscuro della nostra interiorità
e scopriamo due cose: innanzitutto che siamo diminuiti, esseri claudicanti;
e poi che questa nostra condizione è comune a tutto il genere umano,
fa parte della nostra integrità»

Haim Baharier, Qabbalessico

Recensione a: S. T. Kondrotas, Il collezionista di tramonti ed altri racconti, (Trad. e cura di Pietro U. Dini), Books & Company, Livorno 2016.

In un paese conosciuto da pochi solo sulla carta geografica, o come nudo nome della costellazione europea o per qualche campione sportivo. In un paese iperboreo, quando ormai si è persa ogni memoria mitica che ci rammenti degli iperborei, leggendari “coltivatori” d'ambra. In un paese sospeso fra marginalità e oblio, dove il sole si dice con un sostantivo femminile (saule) e la luna è maschio (menulis). In un paese dove la lingua è antica e tenacemente resistente. In un paese che ne ha visti nei secoli di tutti i colori, ma che rimane immerso in una nebbia concreta ma anche metaforica. In un paese come questo, capirete, possono succedere cose interessanti che l'ormai smemorato Occidente non verrà mai a sapere.
Una di queste cose interessanti, ad esempio, è che in Lituania nacque nel 1953 lo scrittore Saulius Tomas Kondrotas, “illustre sconosciuto”, a cui quest'etichetta ben si adatta, finalmente riempiendosi di senso. Cito, al proposito, le brevi note biografiche del curatore e traduttore della raccolta, Pietro U. Dini: «prosatore, sceneggiatore, fotografo, ha studiato filosofia e psicologia all'Università di Vilnius fino al 1976; in seguito ha lavorato nella redazione dell'Enciclopedia lituana e, dal 1978, insegnato filosofia all'Istituto di Belle Arti della stessa città. Dal 1980 poté dedicarsi esclusivamente all'attività creativa, ma nel 1986, approfitando di una visita in Germania, chiese asilo politico nella Repubblica Federale...Da allora, e fino alla nuova indipendenza della Lituania (1990), è stato ufficialmente considerato un autore proibito. Nel 2004 si spostò a Praga...e successivamente si trasferì negli Stati Uniti d'America dove ancora oggi vive e continua la sua attività creativa, nel frattempo di nuovo apprezzata anche in patria. Negli ultimi anni però affianca alla letteratura (e forse privilegia) l'arte della fotografia» (dalla Postfazione, Felicità e noia in S. T. Kondrotas, pp. 166-167). Un autore proibito dal basso profilo, autoesiliatosi senza clamore e senza quella smania di fare il personaggio, così tipica di molti intellettuali transfughi (e non). Un profilo biografico comune a tanti intellettuali, tanto comune e rarefatto da essere considerato politicamente inutilizzabile finanche dall'opposizione di quel regime da cui era fuggito.
Per questa sua totale assenza di protagonismo, la figura di Kondrotas mi sta simpatica e mi accresce a dismisura il piacere della scoperta e il piacere di offrirlo, pressoché per la prima volta, ai lettori italiani. Prevalentemente scrittore di racconti, ha al suo attivo anche 2 romanzi, Lo sguardo del serpente (1981), tradotto in italiano da una traduzione francese, per la Mondadori nel 1990 col titolo La solitudine dell'acqua (ormai introvabile), e il romanzo (saga familiare) E si rattristerà guardando dalla finestra (1985), non ancora tradotto in italiano.
L'identità di un popolo e, conseguentemente, di uno scrittore di quel popolo, sta anche (e per i lituani soprattutto) nell'uso e nella custodia della propria lingua. L'autoesiliato Kondrotas continuerà a scrivere nella propria lingua, restando così in qualche modo in Lituania, celebrandone e preservandone in qualche modo l'identità, in se stesso e nel suo lavoro. In ciò diversamente dal più famoso scrittore ceco Milan Kundera, che pare ora scriva (direttamente?) solo in francese.
Dello scrittore in Italia già si conosceva un unico racconto, grazie ad Alessandro Baricco che lo citò da una prima traduzione sempre del linguista e filologo baltico Pietro U. Dini. Il racconto era Il collezionista di tramonti, proprio quello che dà il titolo a questa nuova antologia qui presentata. La versione orale che ne dette Baricco in 7 minuti circa, in una delle ultime puntate della gloriosa trasmissione Circolo Pickwick, è tuttora reperibile e godibile su https://www.youtube.com/watch?v=D99sq7S8kmE. Peccato che Baricco si dimenticasse di citare sia il nome dell'autore che quello del suo traduttore in italiano. E che il racconto, affabulante, affascinante, avvolgente, risultasse una rielaborazione totalmente “baricchiana”, tipica delle sue performances, che poco ha a che vedere col racconto in questione, anch'esso affascinante, affabulante, avvolgente ma per altre note, altri sapori, altre obliquità di sguardo. Non sempre giova l'affinamento in barrique per certi vini... Si rischia di renderli “ruffiani”, così come se non erro ci ricorda lo stesso Baricco in un suo saggio, e disperdere la loro forte personalità, unica, inimitabile ed altra.
Kondrotas, che meriterebbe d'essere maggiormente conosciuto in occidente (nozione ormai vaghissima, questa d'occidente, ma prendetela per buona), ha il fascino di uno sguardo altro, la rara dote di farci percepire della realtà gli interstiziali frammenti di assurdità e magia. Assurdità e magia non prive in alcuni casi di effetti comici o tragicomici. Ha la rara dote di aprire il reale al fantastico, partendo da un'impercettibile fessura che nel farsi della narrazione progressivamente si allarga e ci immerge in un altro mondo rispetto a quello inizialmente creduto. L'alterità poi, per noi lettori d'altra latitudine e d'altro orizzonte, è duplice: quella esotica del mondo baltico a noi sconosciuto, e quella esoterica (direi quasi virginalmente iniziatica) di un mondo più esteso e nascosto di quello visibile. Quel tipo di esoterismo che solo la vera letteratura sa farci dischiudere oltre il velo di Maya. In questo scrittore è la trama che, infine, cede il passo all'ordito, più complesso e labirintico, e indubbiamente più esteso.
Kondrotas semplicemente si chiede: «cosa sia nascosto nella profondità del nostro corpo o della nostra anima». Il suo fare artistico e lo stile che lo supporta hanno ricordato ai critici Jorge Luis Borges e Italo Calvino (esattezza, rapidità, leggerezza, visibilità, molteplicità e la mai scritta consistenza). Io aggiungerei anche il Dino Buzzati dei racconti (in particolare della raccolta Sessanta racconti, Mondadori 1958). Qualcuno ha anche opportunamente parlato di Kafka (così li scomodiamo più o meno tutti, i mostri sacri). Ed in effetti molti di questi racconti sono racconti di metamorfosi ed anamorfosi, fenomeni dove meglio si annidano l'esotismo e l'esoterismo di cui sopra dicevo.
E' sulla nozione di esotismo – che il traduttore-curatore ha cercato con successo di mantenere nel suo “trasporto” dal lituano all'italiano - su cui vorrei soffermarmi. Se tralasciamo la vulgata del “pittoresco” da puzzina sotto il naso, o lo stupore ingenuo di matrice new age, esotico è, propriamente, «ciò che (ci) viene da fuori». Qualcosa che si percepisce come “extra-neo”, non edulcorato (metabolizzato), nel nostro caso non occidentalizzato, a cui da una parte ci si abbandona (un canto di sirene), dall'altra, a volte con cautela e sospetto, si sente la necessità di comprenderlo, per ciò che ci differenzia, per quel che ci accomuna. Esotico è la percezione di estraneità all'interno dell'umano. E' qualcosa di straniero, ma che sentiamo che anche ci appartiene, che, in un modo misterioso (suggestivo), fa parte di noi, è dentro di noi. Ciò che di noi non conosciamo, e che uno straniero ci fa percepire, è esotico. E' acuto sentimento di reciprocità e intuizione sentimentale della necessità dell'incontro. L'esoterico, più interiore e personalizzato, è ciò che resta in noi dopo un incontro (magari con Dio – il totalmente altro -, magari con un altro essere umano, o con noi stessi …magari con narrazioni che ci fanno riflettere, come quelle di Kondrotas).
Il mondo magico e pagano (le popolazioni baltiche furono le ultime ad essere “cristianizzate”), mescolato ad una cristianità tardiva e talvolta “eretica”, unitamente ad una lingua arcaica, ancora parente stretta delle tribù indoeuropee erranti dell'Europa orientale (i linguisti storico-comparatisti parlano, per la lingua lituana e lettone, di «dinosauri linguistici»), sono la sostanza ed il fascino di questi racconti. I meccanismi narratologici hanno qualcosa della narrazione mitica, dove, come già menzionato, nel quotidiano più banale s'insinua l'inaudito e si sfocia nel surreale. Tutto questo ha fatto parlare, con tutto sommato felice etichetta, di “realismo magico” di Kondrotas. Dove la “magia”, anche qui con uno scarto di senso, va intesa non tanto come eclatante manifestazione soprannaturale, quanto come imperscrutabile ordito che sostiene il cosmo e che, talvolta e con fugace parsimonia, si palesa nel continuum per brevi tratti, accenni e suggestioni. Con tutti questi ingredienti, Kondrotas realizza un anti-canone letterario; a un livello più semplice costruisce allegorie ed infine induce a «guardare il mondo con occhi indipendenti». Tutti aspetti che ci fanno capire come Kondrotas non potesse non essere considerato un autore proibito dagli ultimi colpi di coda del realismo socialista. Le «magnifiche sorti e progressive» di un regime totalitario, ancorché ormai prossimo a trasformarsi in altro Leviatano, non potevano permettere che «la creazione» fosse «una spinta verso la libertà. La liberazione da ceppi personali, un modo di oltrepassare i confini della mente, del potere, della società, della religione, della coscienza, del canone» (vedi Postfazione cit. e Prefazione – Fenomenologia di un autore proibito).

La raccolta che qui si presenta comprende tredici racconti esemplari di questo schivo scrittore. Vi invito a vederli più da vicino.

    • Il collezionista di tramonti ha la levità e la levigatezza di un sogno che a fatica si fa strada nel grigiore e nella mediocrità del protagonista. Leggero come la casualità di un incontro, lucente e liscio come il balenìo di un tramonto, una volta penetrato nella realtà attraverso un enigmatico annuncio di giornale, nella sua insensatezza dà senso alla vita di chi lo accoglie. E collezionare tramonti diventa profonda consapevolezza dell'esserci, testimonianza del passaggio, poetica redenzione.

    • Come mio bisnonno ritornò sulla retta via è un simpatico, umoristico e surreale apologo sulle manie di grandezza e il desiderio di immortalità. Un nipote ricorda, in una sorta d'epopea familiare, quando i suoi avi furono Giganti (o, meglio, avrebbero voluto esserlo). Dove il mito, oltre che tradizione, si fa incarnazione di un desiderio antico.

    • L'amore secondo Juozapas (Giuseppe) è la storia d'amore di un macellaio di Praga verso un'ingrata prostituta. Dalle nuances tragicomiche, vi si celebra una vera e propria (e alquanto originale per la verità) “metafisica della carne”. Il simpatico, sensibile macellaio, in genere modello letterario di un certo erotismo pecoreccio e sbrigativo, qui assume la sacralità di un sacerdote, ministro del sacrificio sull'altare di un amore piuttosto particolare.

    • Nella nebbia è la mia anima, nell'immersione progressiva in una nebbia che invade un aeroporto di notte (una nebbia come solo uno scrittore del nord sa descrivere), si dipana fantasmatica un'originale riflessione sulla morte e sul suo mistero. La morte di un amico, sempre inaspettata, sempre acerba, si trasforma, mentre Kondrotas ce la narra, nel racconto che l'amico stesso avrebbe dovuto scrivere sull'enigma della morte. Di ogni morte. «Ora Lukas non fischiettava più le vecchie melodie e non pensava più alla sua infanzia. Si sforzava soltanto di non distogliere l'attenzione dalla strada e dalla nebbia, e qualche tempo dopo cominciò a pensare all'Ättestupa. Nel suo racconto La Torre di Babilonia un medico avrebbe dovuto riflettere proprio su questo» (p. 51).
      Sì, l'Ättestupa, termine svedese per «precipizio», «dirupo», o più propriamente, in questo caso ripreso dall'antica tradizione nordica, «mitico luogo dove avveniva il suicidio delle persone anziane (senicidio)», l'abisso dove si consumava il suicidio rituale di chi aveva troppa vita sulle spalle.1 In questo racconto è proprio la nebbia dell'aeroporto di Odessa che «allarga gli occhi» del protagonista (da Babilonia alle plaghe iperboree), che così tenta – forse invano – di dare risposta all'epigrafe in soglia del racconto: «Ogni morto è una sfinge, un enigma irrisolto» (H. K. Andersen).
    • Caolino ci conduce nuovamente in una storia d'amore. Una donna che celebra la vita come fatica e lutto costante. Una donna la cui forza affonda nel fango di un bosco d'autunno, la cui resistenza è fatta di solitudine e oblio. E infine un uomo irrimediabilmente votato all'adorazione di questa imperturbabile ninfa dei boschi...ma terribilmente brutta! Disarmante poetica di un “eroe” che continuava a vedere le cose così come gli erano apparse per la prima volta. Odori, giochi di ombra e luce, in un tempo che sfuma le sue categorie senza che noi ce ne accorgiamo...dal medium di un'antica fotografia color seppia, un fantasma s'incarna evocato da un essere umano che a sua volta evanesce.
    • Si fa giorno. E' la beffa di un folletto immortale, ma vecchio. Spiriti, folletti e serpenti sono numerosi ed attivi anche nella mitologia baltica (lituana e lettone). Addirittura, il serpente è un dàimon benevolo, contrariamente alla nostra tradizione giudico-cristiana. In questo racconto (come un po' in tutti del resto) s'insinua in chi legge una sottile inquietudine, un benefico disagio, che però rimane inespresso, sospeso e senza scioglimento. Qui l'autore ci costringe ad identificarci non con il protagonista, ma con i personaggi secondari, gli anonimi sciatori in pausa in un bar di montagna. La descrizione di una nevicata che copre a manto una stazione sciistica ci rende consapevoli del fare magico di Kondrotas. La sua magia (forse quella vera?) ha la funzione di sostenere, tenere insieme una realtà, la nostra, che altrimenti inaspettatamente potrebbe scollarsi, disgregarsi e dissolversi.
    • La nascita di un popolo. Un titolo questo che, a leggere il divertente racconto, a tutta prima sembra pretenzioso. Vi si narra di montanari che per la prima volta scendono al mare, a conoscere dal vivo la gente di città. Questa la trama scontata. Ma da una piccola fenditura di questa gita tutto sommato godereccia (quanto alle riposte speranze dei rozzi partecipanti), fluisce e si amplifica un respiro mitologico, fino a farsi epos e metafora della nascita di un éthnos; la nascita, appunto, di un popolo che s'individua nell'incontro-scontro con l'altro e inventa così una propria tradizione identitaria e una propria nobiltà.
    • Facezia è la descrizione di un incubo tecnologico che efficacemente e originalmente allegorizza la condizione esistenziale di chi vive sotto un regime totalitario. Uno “scherzo” onirico tragicamente connotato, un “motto” di spirito in cinque tempi: metamorfosi, aspirazione, compressione, lavoro, espulsione. Questa scansione è paradigma della meccanica esistenziale del protagonista che si ritrova “magicamente” miniaturizzato e scaraventato dentro il motore della sua motocicletta. Qui, questa volta, la magia è impiegata da Kondrotas per rappresentare una realtà di oppressione ed alienazione; quasi uno specchio che riflette immagini rovesciate.
    • Il giuramento. Racconto breve dove una profonda erudizione sottesa è filtrata da una poetica leggerezza di stile. Testo enigmatico ed evocativo, nell'incerto supplizio di un possibile eretico (da cosa? Da chi?), si riflette umilmente su verità, rivelazione, memoria e oblio. La necessità o meno delle illusioni, di una fede, dell'abbandonarsi alla “Parola” (ma quale?), la necessità di un'infinita interpretazione (tuttavia sempre provvisoria), fino alla maturazione di una vera e propria ermeneutica del suicidio, come unica possibilità di liberazione. Anche qui come altrove in Kondrotas «il modello di mondo della sua creazione si fonda su un principio di mentalità primitiva e mitologica, in esso si fondono insieme mito e realtà, leggende bibliche e presente» (vedi Postfazione cit.). La tematica mistagogica del racconto pur non distoglie il protagonista dal formulare una considerazione di livello apparentemente più basso (politico) ma esistenzialmente altrettanto affliggente: «E allora avverto di non essere ormai l'unico murato vivo nel mio paese, Lui è già qui...» (p. 86).
    • La volpe rossa è un altro racconto di metamorfosi (ben tre metamorfosi che s'intrecciano), di trasmigrazioni e dissolvenze. E' la storia dell'ultima caccia del più vecchio cacciatore di Sniegovija. Siamo nel 1943, ce lo dice espressamente l'autore, ma tutta la narrazione affonda in un tempo arcaico, nell'ucronia sospesa del mito. Storia dalle profonde radici antropologiche, di tracce, odori, amori e sorrisi di volpe, di spiriti della danza (hoprat) e afrori animali, dove «Kondrotas introduce il lettore in un mondo “pericoloso” alla maniera di Kafka...dove gli eventi della quotidianità più comune vengono presentati in una dimensione segreta, terrificante, senza alcuna spiegazione» (vedi Postfazione cit.). Dove cacciatore e preda si scambiano le parti per poi confondersi, dove il “Pie(t)rino” di Sniegovija (come di ogni paese) accoglierà infine in sé lo spirito della volpe e del cacciatore insieme.
    • La casa sospesa. Una casa solitaria, da tempo messa in vendita, da nessuno da tempo acquistata. Non si tratta di una magia semplice, questa, né di un film dell'orrore. Potremmo dargli un sottotitolo, a mo' di guida per i naviganti: l'odore maschile della solitudine. Uno gnomo custode ben consapevole del mistero, pur tuttavia genuinamente ospitale. «Uno spesso strato di polvere copriva tutto...e il silenzio era soffice e poroso» (p. 110). Una sinfonia di odori che si riposano sotto la polvere. Ogni cosa, se ci pensate, quando è sotto la polvere si dice che si riposi. Come ci si riposa sotto coperte, calde e rassicuranti. Ma d'improvviso rimossa, la polvere disvela odori insopportabili, odori in agguato pronti ad assalirvi. Questi odori amari che hanno colori e sanno anche urlare, odori che non si riposano, che sanno aggredirvi e mettervi in fuga. Altro che Proust!
    • La campagna d'inverno. Distopia allegorica degna del migliore Philip K. Dick. Titolo ambiguo, ma niente a che vedere – lo scopriamo subito – con paesaggistiche divagazioni stagionali, melanconici bucolicismi nordici o più caserecci, per noi, accoramenti sentimental-canzonettari del tipo Il mare d'inverno. In un'atipica guerra fra Stati (ricordate Zamjatin di Noi e l'Orwell di 1984?), in un tempo che ha tutte le caratteristiche arcaiche di un futuro da incubo, gli strumenti musicali sono armi potenti la cui musica uccide, e gli orchestrali falangi di soldati condannati a morire ad ogni esecuzione.
    • La stirpe dallo stemma del centauro è l'ultimo racconto di questo esemplare florilegio del nostro autore. Forse quello più smaccatamente baltico (e lituano), ma non per questo meno “universale” e inquietante per la sensibilità dell'Occidente. Uno dei miti di fondazione di un popolo, che si sente sempre al contempo nel cuore e ai margini di un paese amato e sconosciuto, si trasfigura nell'indefinibile intreccio di epica e leggenda, fiaba di metamorfosi e crudele magia, destino tragico; dove occorrono personaggi che siano al tempo stesso persone, eroi, maghi (Merlino?) ed aedi (Omero?). Un racconto in cui s'indaga l'essenza e la fenomenologia della paura, in cui le colpe contaminano il destino delle generazioni, gli uomini per essere veramente tali devo diventare Centauri e la saggezza diventa menzogna se declinata nel tempo sbagliato («Però avvertii che quelle parole erano troppo sapienti per quell'ora, e perciò false» p. 139).
C'è tutto Kondrotas in questi tredici racconti che qui ho voluto solo tratteggiare come schizzi su un foglio, per fermare contorni di idee ancora embrionali e sfuggenti, per suggestionare e suggestionarmi in una sorta d'abbandono critico. La “critica”, per definizione e statuto, scompone e intorno ad ogni pezzo scomposto traccia un confine, cataloga. Ecco, io credo che lo stile di Kondrotas, il suo fare letterario (comporre), trascenda le sue componenti ancorché individuabili (scomporre). E che l'unico modo di comprendere sia l'abbandono nel godimento del tutto. Una magia chimica dentro una realtà che, invece, si vuole e si anela meccanica, per meglio controllarla ed esserne consolati. Kondrotas accetta la fluidità del reale, la sua alchemica sostanza metamorfica, disvelando l'illusorietà del meccanismo visibile. Godere della realtà (quella vera, inconoscibile se non per enigmi e riflessioni di specchio), godere dei racconti di questo autore, non significa approdare a certezze, poggiare su terreno sicuro, consolarci e restare sereni; godere (il vero godimento della letteratura) è avvicinarsi con timore e tremore al magma del mistero, subirne l'abissale orrore e la fascinazione della vertigine.
Oscenamente la bassa marea denuda il mare (La nascita di un popolo). Così Kondrotas nella sua dialettica lunare oscenamente denuda della realtà il magico segreto che essa nasconde. E non ci importa più che questa acuta alterità dell'essere gli derivi dalla sua balticità, dal parlare una lingua antica e gelosa custode di un ethnos, dall'aver vissuto sotto un regime che voleva la realtà uniforme e indistinta, dall'esserne fuggito. Tutto questo più non ci importa.
C'era un segreto da imparare. Un segreto nomade che ci è stato rivelato fra le tonalità dei grigi, fra candori di neve e le ambrate cromie boschive di questi racconti: siamo tutti esseri instabili ed erranti come le tribù degli Sciti descritteci per la prima volta da Erodoto; siamo tutti pellegrini e forestieri, anzi dei “sopraggiunti”, ed è solo se ci accomuna un senso di estraneità che diventiamo un popolo. Su questa estraneità fondiamo la nostra identità, anch'essa instabile e nomade, che è relazione di lontananza e vicinanza, insoluto mistero di marginalità nel cuore.

Livorno, 30 Settembre 2016


Francesco Parasole
1Già nell'antichità troviamo attestazioni di questa pratica presso popolazioni dell'estremo nord (gli Iperborei), ad es. in Procopio di Cesarea (VI d. C.); Pomponio Mela (I d. C.) e Solino (III d. C.) ne parlano a proposito della popolazione degli Heruli, considerati da alcuni studiosi etnia protobaltica.

Nessun commento:

Posta un commento