GADDA:
QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA
Una
premessa alla versione cartacea di questa edizione di Un vino un
libro che mi ha visto coinvolto: Dopo aver consegnato a Lamberto Tosi
il mio intendimento di “recensire”, meglio sfruttare: “Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana”, mi ha preso un profondo
sentimento di inadeguatezza. Già, perché di Gadda e di quel libro
ne avevano trattato monumenti della Letteratura come Calvino, critici
di altissimo livello e di vera professione, persone che Gadda lo
avevano conosciuto e ne erano stati amici. Io cosa potevo ancora
dire? Se non farmi deridere?
Poi
il “vino” mi è venuto in aiuto! Non perchè l’abbia bevuto per
dimenticare, non solo almeno, mi è venuto in aiuto perché ho
ricordato le origini e il significato che si è voluto dare, sin
dall’inizio, a questi incontri di “Un vino un libro”: Parlare
di un libro così come si degusta un vino, in modo personale,
privato, cercare di esprimere le emozioni che ci da, a prescindere
dal valore tecnico e/o professionale del nostro apparato gustativo.
Così
son ripartito, confermando la mia partecipazione e azzardando il mio
intervento di cui cerco di dare traduzione cartacea in quel che
segue.
Dunque,
per
Calvino,
Gadda è l’autore italiano che meglio di altri ha saputo ritrarre
il «mare dell’oggettività», il «magma indifferenziato
dell’essere», e, soprattutto, «l’unica punta d’avanguardia
nella ricerca formale, che possa affiancarsi a consimili esempi
stranieri». Si pensi alle affinità con Joice, alla ricerca ritmica
del linguaggio, della sua forma e della sua struttura. Si consideri
che uno dei siti più ricchi di informazioni e di testi sull’opera
di Carlo Emilio Gadda ha sede a Ediburgo: The
Edinburgh Journal of Gadda studies.
Ma
andiamo al Pasticciaccio.
Pur
composto in date sovrapponibili alla Cognizione,
fu pubblicato prima, in un intento, tutto gaddiano, di rappresentare
in sequenza il "pasticcio" della realtà e poi, il dolore
che ne deriva.
Nelle
Lezioni
americane,
Calvino da molto spazio nel capitolo dedicato alle Molteplicità in
letteratura a Gadda e al Pasticciaccio,
anzi inizia con questa citazione:
“Nella
sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che
pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella
parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan,
nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per
enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi
degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle,
sembravano banalità. Non erano banalità. Con quei rapidi enunciati,
che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno
zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a
distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un
misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato:
«il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra
l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o
l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al
singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica
nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una
molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo
o groviglio, o garbuglio, o gnommero
1,
che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le
causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi
contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il
senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da
Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era
in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi:
che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un
mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo,
accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro
e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà
inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle
palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così,
avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già, Si me
chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche
gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano,
molisano, e italiano.
La
causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio
era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate
addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando
s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano
finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione
del mondo».
Calvino
coglie in questa citazione quella che è per Gadda la sostanza del
romanzo, ma forse ancor meglio ci può aiutare un ricordo anedottico
di Giulio
Cattaneo
(amico fraterno, collega alla RAI e biografo di Gadda):
Poi
si chiuse con altri quattro o cinque scrittori e critici in uno
studio di via Asiago leggendo le paginette che aveva messo insieme
sbuffando. «Le
mie naturali tendenze,
la mia infanzia, i miei sogni,
le mie speranze, il mio disinganno sono stati, o sono, quelli di un
romantico: di un romantico preso a calci dal destino, e dunque dalla
realtà. è ovvio ch’io abbia chiesto e chieda al romanzo,
al dramma e perfino alla cronaca, alla memoria, quel tanto di
fascinoso mistero o di appassionata pittura dei costumi e delle anime
che solo potevano aiutarmi a perseverare nella lettura…» E
concludeva: «Un lettore di Kant non può credere in una realtà
obbiettivata, isolata, sospesa nel vuoto; ma della realtà, o
piuttosto del fenomeno, ha il senso come di una parvenza
caleidoscopica dietro cui si nasconda un quid più vero, più
sottilmente operante, come dietro il quadrante dell’orologio si
nasconde il suo segreto meccanismo. Il dirmi che una scarica di mitra
è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro quei
due ettogrammi di piombo ci sia una tensione
tragica,
una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le
irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è
che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia…»
Queste
citazioni aiutano a capire ed interpretare le intenzioni di Gadda nel
progettare e scrivere il romanzo,
romanzo inteso come genere letterario, come modalità di
rappresentazione della realtà e dare, di quella realtà, la visione
intima dell’autore. Tentativo di giungere alla verità.
In
questo, sempre Calvino trova le basi di un parallelo con Robert
Musil: il romanzo enciclopedico. Ingegneri entrambi, credono nella
loro formazione tecnica e scientifica come strumento superiore per
arrivare a quella verità.
Così, come Musil può spendere pagine nella descrizione del
funzionamento di una leva per sfruttarne le analogie con realtà
sociali e venirne a capo, così Gadda inserisce aspetti tecnici, nel
panorama del testo, come a sottolineare l’attendibilità della
propria visione nel romanzo.
Il
Pasticciaccio,
scritto tra il 1945 e il 1948 e apparso in fascicoli sulla rivista
fiorentina Letteratura, vede la pubblicazione in romanzo solo nel
1957 e dopo lunghe insistenze dell’editore Livio Garzanti che, dopo
averne letto la versione finale, ne fu entusiasta e lo paragonò ai
Promessi
sposi. Gadda
non era facile ad essere convinto, Einaudi lo aveva inseguito per
lungo tempo, ma alla fine lo pubblicò Garzanti. Tra i capitoli
apparsi su Letteratura e la versione finale del romanzo vi sono
differenze sostanziali. Alcuni capitoli vennero fusi insieme e altri
aggiunti, ma soprattutto il romanzo vide una riscrittura delle parti
dialettali con l’aiuto dell’amico Mario dell’Arco. Nella
prefazione Citati racconta di questi ed altri fatti storici intorno
al romanzo e alla sua pubblicazione. Uno di questi dice molto della
personalità quasi bipolare di Gadda: Il Pasticciaccio
non ha un finale, e di questo aspetto, il lettore o un editore comune
potrebbero essere rimasti insoddisfatti, ma non Garzanti che ne fiutò
le basi per un sequel.
Citati racconta che, immediatamente dopo la pubblicazione, Gadda
stesso gli riferì delle proprie intenzioni a questo proposito e che
aveva già in mente un nuovo scritto sulle 130-140 pagine che avrebbe
potuto presentare, come flashback,
parti dei capitoli apparsi su Letteratura e poi eliminati. Un idea,
si direbbe, molto precisa, ma poi passò del tempo e quella
determinazione svanì. Tanto che per non farsi inseguire da Garzanti
su quella via, utilizzò una sceneggiatura scritta intorno al 1948 e
mai realizzata, Il
Palazzo degli ori,
per svelare, come fosse fatto risaputo, che l’assassina era la
procace Virginia
Troddu.
Come dire: Caro Garzanti non insista, non ci sono gli estremi!
Si
è detto del finale del romanzo, che non ci consegna un colpevole e
sembrerebbe lecito aspettarsi che, chi scrive, mettesse in ordine i
fatti, ma per riassumere la trama di un testo che ha per titolo Quer
pasticciaccio brutto...
mi caccerei in un impresa che per essere soddisfacente (per chi non
ha idea del romanzo) dovrebbe essere analitica e troppo lunga per
essere trascritta in questa sede (un riferimento utile lo si può
trovare a: Pasticciaccio.trama).
Voglio
qui considerare, invece, la caratteristica portante della stesura
formale del romanzo: l’uso del romanesco e di altri lessici
dialettali (cfr. il molisano di Ingravallo o il commentato napoletano
del Funi).
Scritto
in romanesco, si è già detto come Gadda si fece assistere da Mario
Dell’Arco per una attenta, maniacale, revisione finale del testo.
Vennero modificate parole presenti nelle versioni originali dei
capitoli della Letteratura e sostituite con altre, più rispondenti
all’uso comune del romanesco.
Nel
Pasticciaccio
Gadda vuole scrivere come i suoi personaggi avrebbero voluto parlare.
Un risultato raggiunto con un intensa ricerca, facendosi accompagnare
ai mercati popolari (come racconta Citati nella prefazione) e
assorbendo le conversazioni della strada. La sua attenzione per i
dialetti è testimoniata dal saggio scritto sul Belli in cui teorizza
il dialetto come strumento linguistico più vicino alle origini
gnoseologiche del linguaggio e della lingua. In cui scrive dello
“...schematismo
cachettico delle idee seriose”.
Ancora, come ricorda Citati, Gadda dice in una lettera a Gianfranco
Contini: “Se
avessi fiato (cioè gioventù e denaro) vorrei viaggiare tutt’Italia,
impadronirmi dei dialetti: fare un pasticcione con interlocutori nei
vari dialetti: un settetto di voci con veneto, bolognese, bresciano,
romano, fiorentino, napoletano ecc. ecc. come in certi numeri di
“variètè”.
Fin
qui, ciò che è consacrato del linguaggio del Pasticciaccio,
ma l’invenzione gaddiana non si ferma certo al dialetto, o non è
solo nell’uso del dialetto; anzi, a me pare che se Gadda fosse un
tennista (e mi scuso con chi legge per la metafora) verrebbe da dire
che usa di gran lunga il diritto (il romanesco) per tenere su il
gioco, ma i punti, le grandi invenzioni, le fa con il rovescio
(l’italiano). Come se il dialetto non lo potesse modificare,
profanare con sue invenzioni; mentre, questa attività, se la potesse
concedere con l’italiano di cui ha totale controllo. Quella
“pubertà facinorosa”, con cui fa dipingere a Don Lorenzo Corpi
la Virginia Troddu, oppure quel “Dekirkegaardizzava farabuttelli di
provincia” con cui definisce una delle attività della Zamira, sono
pure creazioni linguistiche, tipiche di Gadda e solo di Gadda.
Si
è detto in precedenza del romanzo enciclopedico e Gadda, ora, che
siamo entrati nel Pasticciaccio,
lasciatemi ricordare la descrizione della locomotiva che arriva alla
stazione di Cerveteri, di come sbuffi e di come lavorino gli
stantuffi: “...l’aspettazione
d’uno straordinario fenomeno: e cioè il travenire nero del
convoglio, il sottosoffiare e soprasoffiare del vapore, fluido
meraviglioso, che conferisce virtù ed attitudine locomotoria al
merci, anche in salita, nonchè al misto 181: il quale difatti, già
in ansimo, annunciava il lùbrico gioco de’ manovellismi su su su
fu fu fu...”,
e come superi grazie a quelli la livelletta dell’Ing. Negroni:
“Intanto
sopravveniva davvero il feffe-feffe, a tutta faffa:.. nella tragica
ascesa della livelletta dell’ingegner Negroni.”
Una
menzione particolare agli “alluci”: “Con
particolare vigore enunciativo, in un mirabile adeguamento al
magistero dei secoli, erano effigiati gli alluci”,
e come questi siano colti in un affresco di un tabernacolo in localià
Due Santi e siano presi a pretesto/simbolo della pittura religiosa
rinascimentale: “La
storia gloriosa della pittura nostra, di una parte di sua gloria è
tributata agli alluci. La luce, e gli alluci, sono ingredienti primi
e ineffabili d’ogni pittura che aspiri a vivere...”,
e ancora: “Il
metatarso medesimo protubera pollice pedagno rivale del
michelangiolano e palatino (a significare il miracolo, o meglio
l’audicolo, della castità virile) nei Sacri Sponsali
dell’Urbinate, oggi a Brera”.
Stessa
enciclopedica dedizione la si ritrova, e a Gadda viene spontanea, lui
ex-ingegnere minerario, nella descrizione della recuperata refurtiva
in gioielli: “...anche,
un anello, del suggerimento cristallografico di Dio: memoria, ogni
gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la
fatica di Dio: verace sesquiossido Al2O3
veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua
classe...”.
Desidero
aggiungere in questo intervento alcune considerazioni personali che
annoterei sotto la definizione di relazioni
e eredità di Gadda.
Prendiamo
il Montalbano di Camilleri; come per Gadda, il linguaggio di
Montalbano non sempre è di facile comprensione, molti termini
vengono mutuati dal siciliano, il commissario di Camilleri non
“guarda”, ma “talia”. Il romanesco o il molisano di
Ingravallo sono sostituiti dal siciliano di Montalbano, ma il
risultato (ricercato) è il medesimo: sia Ingravallo che Montalbano
sono parte del magma
della realtà, ci vivono dentro come parte integrante e si muovono al
suo interno. Sono miscibili con la realtà di cui si occupano. L’uso
del linguaggio dialettale li rende indistinguibili (coresponsabili)
della tragedia in cui si muovono le vittime e i loro carnefici. Il
Maigret di Simenon, per fare un esempio, no: Maigret indaga, agisce
nella realtà di un crimine, ma poi ha la sua bolla domestica in cui
tornare, in cui separarsi dal magma;
la moglie, la sua pipa, la sua poltrona sono separate e lo separano
dal mondo là fuori.
Più
che un eredità, quella con Camilleri la definirei così, quella che
sento con la seguente annotazione è una pura relazione a distanza:
con il Maestro e Margherita di Bulkacov. Se chiudo gli occhi, di
quel romanzo ricordo bene un gatto, forse nero, ma a cui certamente
si attribuiscono caratteri magici e diabolici. Gadda trasforma una
gallina in diavolo, siamo quasi all’epilogo e il brigadiere
motociclista Pestalozzi, ispirato da una soffiata della Mattonari
Lavinia, trova nella casa della cugina, Mattonari Camilla, i gioielli
sottratti alla contessa Menegazzi. Nel lasciare la casa per essere
condotta in commissariato a Marino la ragazza (Mattonari Camilla),
attraversando l’aia, osserva ed incrimina una gallina di essere il
diavolo che l’ha tradita: “Il
diavolo, per la ragazza, s’era tramutato in gallina: quella che
nell’orticino fa lo gnorri, e leva peritosa la zampa, e posa: a
beccuzzare, scaccozzare. Una delle tre: ma quale? E così, presso
casa, tra una stoppia e l’altra, egli tentava con un ovo al giorno
(che non si poteva mai sapere quale era, delle tre, quella che
l’aveva fatto quel giorno), nella povertà e nella solitudine della
campagna senza grangia egli tentava le anime: poi le denunciava al
maresciallo, agli informatori del Signore: facendo, lui diavolo, o
lei, gallina, facendo tuttodì le viste d’esser solo intento a
razzolare, a cercar bachi. ...Diavolo, nun c’era dubbio, e spia,
immaginò la ragazza con una mano bicornuta verso i polli: spia,
spia: insinuatosi per ispoglie mentite nell’ambito del domicilio,
di quel rurale, ferroviale domicilio, eccola, eccolo: se la
spasseggiava com’un pollo, col fare, propriamente d’un pollo:
come un signore co li guanti gialli a via Veneto, cor vetro
all’occhio, cor fiore bianco a l’occhiello: se spidocchiava una
spalla, cor becco, tutto superbioso, e poi l’altra: cacarellava,
così, come gnente fosse, ma approfittava tratanto de la
facilitazione d’esse un pollo, guardava de fianco, proprio come
fanno li polli, s’incaricava d’allumà dentro la cucina, si la
porta era aperta. ...Registrava di pupilla matta e riteneva di
rètina: con quell’occhio laterale che cianno i polli che pare una
trovata di Picasso, un oblò del cesso, d’un cesso vuoto di ogni
intendimento e d’ogni attitudine a spiare, babordo o tribordo. E
invece te guardeno. Si, era il diavolo...”.
Gadda
si definiva o avrebbe voluto essere definito un neorealista, Calvino
considera il Pasticciaccio
il romanzo di e su Roma scritto da un non romano. Le relazioni con il
Pasolini di Ragazzi
di vita
e Una
vita violenta sarebbero
lineari se non fosse che Pasolini rifiutò sempre ogni parentela con
il
gran Lombardo.
Di fatto, la periferia romana di Gadda anticipa le visioni borgatare
di Pasolini. Visioni, che di Roma e dell’Italia, il cinema
neorealista ci ha regalato e di quel cinema, Gadda avrebbe voluto
far parte, se non altro come compagno di strada parallelo. Con il
cinema ebbe però solo una concreta relazione: Un
maledetto imbroglio
di Pietro Germi. In un certo senso, un avanguardia del cinema preso
dai fatti di cronaca che Pietro Germi poi fece, ma Germi e Gadda non
si prendevano, o meglio, Germi non si prendeva con Gadda. Le poche
volte che Gadda visitò il set non lo voleva e pregava lo
sceneggiatore, Alfredo Giannetti, di cacciarlo. Non aveva (Germi)
neanche letto il libro e chiedeva al produttore: “«Senti,
ma chi è l'assassino? Io non sono riuscito a capire, sono arrivato a
metà. Pieno di parole complicate…». Di
quel film Gadda concesse la realizzazione, ma non ne fu lo
sceneggiatore. Lui aveva scritto una sceneggiatura con Il
Palazzo degli ori,
ma non ne fece mai nulla. Un
maledetto imbroglio
fu l’unico film che autorizzò. In quello, la trama e i personaggi
sono rivoluzionati: La Liliana Balducci, diviene Banducci, il
commendator Angeloni, funzionario pubblico, diviene il commendator
Anzaloni, collezionista d’arte, e lo stesso funge da derubato al
posto della contessa veneziana Teresa Menegazzi. L’assassino poi
si scopre ed è Diomede, fidanzato di Assuntina a servizio nel
palazzo. Germi impersonò Ingravallo, ma la fisionomia del Don Ciccio
di Gadda era piuttosto quella di un Franco Franchi. In qualcosa però
Germi riuscì; a dare un volto reale alle giovani ragazze del
Torraccio di Gadda: La domestica Assuntina Crocchiapani di Claudia
Cardinale.
Si
è parlato dell’invenzione, della rivalutazione gaddiana della
gallina come oggetto di descrizione letteraria e non posso pensare
come questa non sia stata colta da Dino Risi per il suo film Vedo
nudo del 1969. Strutturato in episodi, ha come unico interprete
protagonista Nino Manfredi che, nell’indimenticabile “Udienza a
porte chiuse”, interpreta un contadino che si deve difendere
dall’accusa
di aver abusato di una gallina. Interrogato dal giudice, spiega e
interpreta le movenze del bipede come e quali esse sono: vere e
proprie avances
erotiche. In quella recitazione sembra rivivere la gallina-diavolo
della Camilla Mattonari, uguali nell’intento traditore e tentatore,
quella di Gadda e quella di Risi-Manfredi.
Venendo
ai giorni nostri cosa ci rimane di Gadda? L’eleganza di un
linguaggio irriverente come linea sommersa, ma presente, di
intelligenza.
Alla
fine degli anni 60’, non in una rete secondaria, non in una fascia
poco seguita, ma su RAI 1 e la domenica pomeriggio, compaiono tre
strani personaggi. Uno che prende a male parole il pubblico (lo
stesso pubblico normalmente blandito e abbindolato), gli altri due
che, in un atmosfera canora dominata dai Claudio Villa e dalle
movenze coreografiche di un Don Lurio, cantano e danzano in modo
apparentemente improvvisato e sguaiato. Sono il Prof. Kranz (Paolo
Villaggio) e Cochi e Renato (Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto), il
“variètè”
di Gadda con linguaggio reinventato. Il germe
che, inoculato e incubato per anni, viene alla luce all’improvviso.
Il successo è enorme, ma mi chiedo chi abbia avuto il coraggio e
l’intelligenza di scritturare in RAI certi personaggi. Forse la
lobby milanese del Derby. Gadda parlava dello schematismo
cachettico delle idee seriose e
queste avevano i loro portatori e non è escluso che qualche
resistenza ci sia stata all’apparire di un nuovo linguaggio. La
risposta, ancora più irriverente ed elegante, venne data con alcune
canzoni di Enzo Jannacci. Altro personaggio che mi piace vedere come
ulteriore inoculo gaddiano nella cultura musicale italiana. Nella
Canzone
intelligente
(interpretata da Cochi e Renato), Jannacci scrivendo idee
seriose,
cerca di dimostrare quanto siano ridicole allo sciocco
in blu
(il committente serioso in abito blu):
“mi
piacerebbe cantar
una
canzone intelligente
che
segna un filo logico.....importante
e
che sia piena di bei ragionamenti
insomma
una canzone....intelligente
che
farà cantar, che farà ballar,
che
farà ballar......lo sciocco in blu..
Un
intento tutto gaddiano, come il linguaggio incomprensibile, ma
allusivo, visionario e musicale di Silvano:
“amami
amami graffiami sgonfiami
e
amami sdentami stracciami applicami
e
dopo stringimi
dammi
l'ebressa dei tendini oh jeah
prendimi
con le tue labbra caressami
rino
non riconosco gli aneddoti
e
sfondami spostami tutte le efelidi
aprimi
picchiami
solo negli angoli oh jeah
brivido
no
non distinguo piu' i datteri
jeah
jeah jeah
silvano
non volevo dei ciccioli
silvano
mi hai lasciato sporcandomi
e
la gira la gira la roda la gira
e
la gira la gira la roda la gira
e
la storia del
nostro
impossibile amore continua
anche
senza di te
FINE
1
Nel testo, in caratteri blu sono inseriti i collegamenti al The
Edinburgh Journal of Gadda studies
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