Dialoghi
con Leucò
di
Cesare Pavese (1908-1950)
La
modernità del mito contro il mito della modernità
«Ciò
che è stato sarà»
C.
Pavese, Dialoghi
con Leucò,
passim
«Ogni
cosa che faccio è destino»
C.
Pavese, Id., La
strada
(parla Edipo)
«I
luoghi, gli spazi che ospitano il manifestarsi di un soggetto si
possono dividere in tre categorie: quelli che esistono fisicamente da
qualche parte della terra; quelli immaginari, che esistono nella
fantasia di chi vuole farci credere di esserci stato (Paese di
Cuccagna, Terra di mezzo ecc.); e quelli veri,
che ...1
non sono segnati su nessuna carta geografica».2
Ecco,
io credo – insieme a Pavese e a molti altri nel tempo – che i
miti siano quei luoghi, o spazi, della terza categoria; che i miti
siano veri
e operativi a vari livelli di consapevolezza (o di inconsapevolezza).
E che esplichino la loro esistenza quali luoghi
originari
del manifestarsi collettivo e individuale di un “qualcosa” o un
“qualcuno”. La frase è l'incipit
dell'introduzione di Luigi Ballerini alla sua nuova traduzione per
Mondadori dell'Antologia
di Spoon River.
E non a caso. La prima traduzione del capolavoro di Edgar Lee Masters
a cura di Fernanda Pivano fu del 1943 per Einaudi; l'opera le fu
fatta conoscere proprio da Cesare Pavese3,
di cui la Pivano fu allieva, e pesantemente rivisitata e migliorata
in sede di editing
da Pavese stesso, all'epoca già plenipotenziario editoriale della
casa editrice. Spoon
River
è un luogo
mitico
e potentemente vero
che suggestionò lo scrittore-editore, tanto quanto le “favole”
(fabulae)4
della sua memoria classica.
Del
resto, già un professore di scuola del I-II sec. d. C., il greco
Elio Teone di Alessandria aveva scritto che «Il
mito è un discorso falso, icona di verità»
(Progymnasmata,
72.28). Che poi la verità si nasconda dietro l'icona di un racconto
e di un personaggio e sia sempre, da millenni, sfuggevole, enigmatica
e bisognosa di infiniti tentativi di interpretazione è un altro paio
di maniche. È qualcosa che ci complica la vita, se solo lo vogliamo,
come volle farcela complicare (e come se la complicò sicuramente)
Pavese, rincorrendo questo vero
che sentiamo esserci e che non vediamo mai del tutto.
Pavese
va letto. O meglio, va riletto. Se lo avete letto da adolescenti, ora
va riletto. E parlo a quelli della generazione che nacque quando
Pavese si uccise, nel 1950, e a quelli che nacquero nel decennio
successivo e poco più. Ricongiungere una lettura dell'adolescenza a
una rilettura in età adulta può avere l'efficacia rivelativa di un
ritorno avventuroso, come quello di Odisseo. È forse, nella vita di
ognuno, un necessario percorso iniziatico da compiersi nel gesto
circolare e quindi rivoluzionario
di discendere
in noi (catàbasi)
e risalire
da noi (anàbasi),
se possibile rinnovati.
L'opera
di Pavese poi ha la costanza e la lentezza dei classici. Quelli,
secondo la definizione di Calvino, che continuano a parlarci a
distanza di anni, in ogni epoca della vita, con elementi sempre nuovi
di scoperta di noi e del mondo.5
Allora, mi dico, i miti sono come i classici. O meglio, il contrario.
Sono tutti quei libri che noi definiamo “classici” ad esser tali
perché attingono alla inesauribile ricchezza dei miti. Perché, se
guardiamo bene, in principio fu il mito (mythos),
il logos
venne decisamente dopo.
Fino
alle soglie del terzo millennio l'opera di Pavese e la sua tragica (e
quindi eroica) figura umana hanno goduto di molti studi critici
nazionali e internazionali, di molte edizioni e di traduzioni. Fino
al 1999/2000 la bibliografia su Pavese è vivace, o come si dice in
gergo feconda.
Ad
oggi pare che questo interesse si sia affievolito; certo, nelle
università si continuano sporadicamente a discutere tesi di laurea
sull'autore, Einaudi continua a ristampare edizioni economiche con
ottimi apparati introduttivi, stralci antologici della critica
letteraria ed esaustive annotazioni biobibliografiche, come in questa
edizione dei Dialoghi
con Leucò,
che qui si propone (ultima ristampa del 2014), veramente pregevole e
corredata addirittura di Note
al testo
dove si riportano con filologica accuratezza anche le varianti delle
minute manoscritte dell'autore, i suoi appunti, le sue annotazioni,
le incertezze sul titolo, le prove introduttive e i molteplici schemi
della travagliata gestazione contenutistica e redazionale dell'opera;
schemi variamente combinati: o per titolo, o per argomento, o secondo
i personaggi di ogni dialogo.6
Questo tipo di meritorie edizioni hanno comunque un'evidente
destinazione di tipo scolastico. E si sa, quando un autore diventa un
autore di scuola rischia di diventare antipatico, se non addirittura
di essere destinato all'oblio.
Nel
1973 Francesco De Gregori scrisse Alice,
non so se ve la ricordate, quella che “dice”:
Alice
guarda i gatti
E i gatti guardano nel sole
Mentre il mondo sta girando senza fretta...
E i gatti guardano nel sole
Mentre il mondo sta girando senza fretta...
e
a un certo punto, verso la fine:
E
Cesare perduto nella pioggia
Sta aspettando da sei ore
Il suo amore ballerina
Sta aspettando da sei ore
Il suo amore ballerina
E
rimane lì, a bagnarsi ancora un po'
E il tram di mezzanotte se ne va
Ma tutto questo Alice non lo sa...
E il tram di mezzanotte se ne va
Ma tutto questo Alice non lo sa...
Il
Cesare che aspetta invano Alice sotto la pioggia è Pavese. E, a
parte il nome della donna (che poteva anche essere Bice,
Berenice...Euridice...), il dato è biografico.
Nei
primi anni '70 Pavese era un autore simbolo (c'era già un po' di
“riflusso nel privato”...ormai il “riflusso” è solo gastrico
e non ci si pone più il problema). Il suo rapporto con la politica
fu anomalo rispetto agli altri intellettuali di sinistra (Elio
Vittorini compreso). Il suo impegno fu tardivo, tormentato, dalla
difficile integrazione. Fu mandato al confino ma non fece la
Resistenza, scriveva sull'Unità ma agli interventi politici
preferiva quelli culturali. Il viver collettivo gli pesò e la
violenza, ogni violenza, da qualsiasi parte provenisse, lo inorridì.
Fu “impegnato”, a volte sembra suo malgrado, ma si suicidò per
amore, o comunque per una profonda stanchezza del vivere sicuramente
più interiore ed esistenziale che ideologica. Tutta la sua opera,
che vi risparmio qui di ripercorrere dettagliatamente, affronta temi
come la solitudine, la morte, l'inadeguatezza, la marginalità e
l'impotenza di aderire al reale da parte dell'intellettuale, del
saggista, del traduttore, del poeta e dello scrittore, quale egli
complessivamente fu. Tutta la sua opera, dalle poesie di Lavorare
stanca,
ai romanzi (anche quelli di impegno politico), alla scelta dei testi
da tradurre e presentare al pubblico italiano del dopoguerra, alla
saggistica sulla letteratura americana e sul mito (quest'ultimo, dal
punto di vista antropologico, etnografico e finanche psicoanalitico),
denota una profondissima modernità. Ma chi l'ha detto, poi, che
scrivere storie della civiltà contadina delle Langhe sia arcaico e
ingenuo o, al meglio, crepuscolare e decadente? Sarebbe ora di
liberarci dagli stereotipi di certa critica e di certa storia
letteraria.
Una
buona parte della, come usava dire allora, critica “militante”
infatti (almeno fino alla fine del '900), gli imputò da un lato
d'essere “datato”, per tutti quegli aspetti realistici e
naturalistici dei suoi romanzi e dei suoi racconti, dall'altro lo
tacciò di imbelle e, diciamolo, anche di vigliacco: «egli di fronte
ad una realtà storica che non accetta e nella quale non trova il
proprio ruolo, né come uomo, né come intellettuale, sceglie di
rifugiarsi nel mito» (D'Arrigo Patrizia).7
Niente di più sbagliato, a mio parere. Questa fama di fuggitivo gli
fu cucita addosso dall'ostilità di alcuni comunisti ortodossi
dell'epoca, a giudizio dei quali tutti i suoi studi sul primitivismo,
sul mito e sul selvaggio non facevano altro che spianare la strada ad
un «insano irrazionalismo». Se ci riflettiamo bene, le cose oggi
sono molto cambiate; pensate alla sterminata bibliografia sui miti,
alla diffusione delle opere di Jung e degli junghiani, agli studi
sulla permanenza del classico e dei suoi stilemi, all'opera di autori
quali, per citare i più noti e forse anche i più radical
chic,
Roberto Calasso e Pietro Citati, che indagano il mito per spiegare il
presente.8
Ma Pavese è già stato etichettato (“realista e naturalista
ingenuo”(!?)), archiviato e la sua acuta modernità rischia
l'oblio.
Egli
iniziò ad elaborare la sua teoria
del mito
in maniera ininterrotta dal 1943 al 1950. La maggior parte del suo
lavoro, in questo ambito, confluì in Feria
d'agosto
del 1946. Opera anomala, eterogenea e modernissima fatta di racconti,
interventi saggistici (vi riunisce tutte le sue riflessioni e i suoi
studi mitologici apparsi su giornali e riviste), ricordi e appunti di
poetica. In parallelo, tutti questi motivi li ritroviamo più
intimamente trattati nel suo diario Il
mestiere di vivere,
tenuto dal 1935 al 1950, il suo zibaldone
fino alla morte.
Già
in una poesia di Lavorare
stanca
aveva provato - con enigmatica rarefazione – a dirsi
e a dirci
cos'è il mito:
Mito
Verrà
il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza
pena, col morto sorriso dell’uomo
che
ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando
le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non
saprà più dov’erano le spiagge d’un tempo.
Ci
si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e
negli occhi tumultuano ancora splendori
come
ieri, e all’orecchio il fragore del sole
fatto
sangue. È
mutato il colore del mondo.
La
montagna non tocca più il cielo; le nubi
non
s’ammassano più come frutti; nell’acqua
non
traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso
si piega, dove un dio respirava.
Il
gran sole è finito, e l’odore di terra,
e
la libera strada, colorata di gente
che
ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se
qualcuno spariva, c’era il giovane dio
che
viveva per tutti e ignorava la morte.
Su
di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il
suo passo stupiva la terra.
Ora
pesa
la
stanchezza su tutte le membra dell’uomo,
senza
pena: la calma stanchezza dell’alba
che
apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non
conoscono il giovane, che un tempo bastava
le
guardasse. Né il mare dell’aria rivive
al
respiro. Si piegano le labbra dell’uomo
rassegnate,
a sorridere davanti alla terra.9
Ma
è con I
dialoghi con Leucò
(scritti dal 1945 al 1947 e pubblicati a Ottobre dello stesso anno)
che Pavese dà carne etica, estetica e filosofica alle sue
convinzioni riguardo ai miti dell'antichità greco-latina, e non
solo. È la sua teoria del mito in azione, drammatizzata secondo gli
stilemi del dialogo fra due personaggi identificati, soltanto
l'ultimo, dal titolo Gli
dèi,
sembra multivoce, ma più propriamente lo definirei “anonimo”
(perché non c'è identificazione dei personaggi e le voci che
interagiscono possono esere 2 o più). Sono 27 dialoghi brevi, più o
meno tutti della stessa misura (max. 2 paginette e qualcosa...),
preceduti da una didascalia di poche righe, apparentemente asettica,
a volte enigmatica, a volte solo ironica e allusiva. Dà molto per
scontato – a livello di conoscenza presunta dei miti da parte del
lettore – e, facendo finta di denunciare le fonti classiche, di
riassumere di cosa si parla ed esprimere un sintetico giudizio
etno-antropologico, di fatto nasconde fonti letterarie più peregrine
e meno famose e nasconde soprattutto l'intimo rovello poetico che lo
infiamma, il vero motore esistenziale di questo libello.
Traggo
un esempio dalla didascalia del dialogo Le
cavalle,
che ha come personaggi il dio Ermete (Ermes) e il centauro Chirone:
«Di
Ermete, dio ambiguo tra la vita e la morte, tra il sesso e lo
spirito, fra i Titani e gli dèi dell'Olimpo, non è il caso di
parlare. Ma che cosa significhi che il buon medico Asclepio esca da
un mondo di divine metamorfosi bestiali, vale invece la pena di
dirlo» (p.26).10
Vi
è come un procedere obliquo (quindi enigmatico), la creazione di una
aspettativa frustrata nonostante la preterizione, proprio perché
costruita su una metatesi della normale disposizione sintattica delle
parole.
Lo
stile dei dialoghi, in modica antitesi con le didascalie preliminari,
è semplice, chiaro, lineare, serrato, fondantesi su alcune
ripetizioni che si rincorrono all'interno dei vari dialoghi; tipo il
motivo-chiave: «Ciò che è stato sarà», con minime variazioni sul
tema.11
A volte il tono è cupo, a volte dalle movenze comiche di un
quadretto campestre o rupestre. A volte enigmatico e allusivo, come
un oracolo delfico; a volte di una colloquialità disarmante. A volte
tutte queste cose insieme, nello stesso dialogo. Sembra esserci una
ricerca di classicità del linguaggio, di ingenuità primigenia, ma
priva sicuramente di ogni manierismo e di ogni Arcadia,
che in specie dall'Umanesimo in poi caratterizzavano l'uso del
racconto mitologico solo in funzione esemplare, estetica e retorica
(la similitudine mitologica come stereotipo esemplare o metafora del
luogo comune), o tutt'al più allegorica con intento morale o
moraleggiante.12
Qui il mito agisce a livelli più profondi ed esistenziali e lo stile
pavesiano ci suona poetico, filosofico, esoterico, ritmico e
trascinante proprio nella sua apparente perspicuità.
Molti
hanno fatto parallelismi con le Operette
morali del
Leopardi. Io aggiungerei anche la mai citata influenza di autori di
dialoghi più antichi (ad es.: Luciano di Samosata II sec. d. C. e
Eroda o Eronda, con i suoi mimiambi
di periodo ellenistico).
Ma
perché Pavese militante riluttante, intellettuale “materialista”
dagli sconfinamenti poetici, decide di scrivere non del
o sul
mito,
ma con
il mito e dentro
di esso? Ce lo dice egli stesso nella presentazione all'operetta. Ce
lo dice in terza persona, schermandosi o alienandosi, come se fosse
l'editor
o il prefatore
di
se stesso. Si prende in giro, ironizza su di sé, ma al tempo stesso
si sdoppia e prende le distanze (come è giusto quando si tratta col
mito) – pur tuttavia resta, anche nella dissimulazione, di una
terribile serietà, di un tremendo rigore (Pavese è sempre stato
così, del resto):
«Cesare
Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore
realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi,
ci scopre in questi Dialoghi
un
nuovo aspetto del suo temperamento.
Non c'è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti
di luna,
il suo capriccio, la musa
nascosta,
che a un tratto lo inducono a farsi eremita.
Pavese
si è ricordato di quand'era a scuola e di quel che leggeva: si
è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che
legge.
Ha
smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi
selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l'assassinio rituale, la
sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha
voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano,
tutti ammirano un po' straccamente e ci sbadigliano un sorriso.
E ne sono nati questi Dialoghi».13
Alcuni
titoli: La
nube, La Chimera, I ciechi, Le cavalle, la belva, Schiuma d'onda, La
madre...L'inconsolabile, L'uomo-lupo, l'ospite, l'Isola, Le streghe,
Il toro...
Alcuni
personaggi dei dialoghi: Edipo e Tiresia (I
ciechi),
i già ricordati Ermete Ctonio e Chirone (Le
cavalle),
gli immancabili Eros e Tànatos (Il
fiore),
Saffo e la ninfa Britomarti (Schiuma
d'onda),
Orfeo e Bacca (L'inconsolabile),
e ancora Achille e Patroclo, Eracle e Prometeo, due pastori, due
cacciatori, Calipso, Odisseo, Circe, Teseo, Arianna (Ariadne), Cratos
e Bia14,
Dioniso e Demetra, la Memoria (Mnemòsine) madre delle Muse ed Esiodo
(Le
Muse),
Leucotèa. Alcuni personaggi, divini, semidivini, eroici e umani,
compaiono più volte – è il caso proprio di Leucotèa ad esempio,
che parla
con
Circe nel dialogo Le
streghe,
e con Ariadne (Arianna) nel dialogo La
vigna.
Compare solo in due dialoghi, è vero, ma in anfibolica allusività
è così presente in tutta l'opera tanto da prenderne possesso
nascostamente, come vedremo, anche nel titolo.
E'
fondamentale notare che le entità divine che interagiscono (chi
parla)
sono tutte entità primordiali (ctonie o inferne), ovvero la prima
generazione oscura, abissale, sotterranea o terrestre di dèi; le
forze primigenie che agiscono dentro di noi, le personificazioni di
potenze cosmiche che poi, nel linguaggio astratto, quello del logos
e
non del mythos,
assumeranno statuto ideale (astratto appunto) e disincarnato (il
potere, la forza, l'odio, l'amore), o quello di personaggi di
fantasia (le ninfe, i titani, i centauri, la Chimera). Non ci sono
divinità olimpiche, celesti e superne, del pantheon
mitologico classico e tradizionale (Zeus, Apollo, etc.). Ma di esse
si parla (di
chi si parla).15
Di come si staccarono da Caos e presero il potere, imponendo il
logos,
il numero e la legge (nomos),
la misura e il limite sul cosmo, sugli uomini e le deità della
generazione precedente, quelle vicine all'umano e con esso
profondamente impastate, nel sangue, nel sesso, nel vino, nella forza
irrazionale di sentimenti ineluttabili e misteriosi.
Questa
incestuosa prossimità al Caos primigenio, questa commistione di
divino e … divino, divino-bestiale e divino-umano, questo
indifferenziato
nello
stadio pre-liminare alla sua differenziazione
(animato
e inanimato, immortale e mortale), hanno nella resa stilistica
pavesiana una loro figura retorica assai ricorrente: l'enàllage (o
sillèpsi/sillèssi), in una delle sue forme particolari: quella
dello scarto sintattico fra singolare e plurale nelle concordanze
grammaticali. Ecco qui di seguito i passi di queste scombinate
“concordanze sulla base del senso” (constructio
ad sensum):
-
L'ospite:
«Non
c'è
dèi sopra
il campo» (p.89).
-
Il
toro:
«Ci fu un tempo che l'Ida non conobbe che dee. Che una dea. Era il
sole, era
i tronchi,
era il mare» (p.122).16
-
In
famiglia:
«E' una
famiglia che
in passato si
mangiavano tra loro»
(Castore e Polluce parlano della famiglia di Elena; p.127).
-
Gli
uomini:
«Prima, l'uomo, la belva e anche il sasso era
dio»
(p.146).
Ma
chi è questo Leucò del titolo? Me lo chiesi quando da adolscente
comprai il libro. D'acchito pensai a un contadino calabro, o al più
della Basilicata. Poi scoprii l'arcano. Leucò non era l'Antò, il
Giovà, o il Giusè della nostra vocazione toscana a troncare le
parole, nomi propri compresi. Leucò è il colloquiale, amicale e
diminutivo (ipocoristico, dicono gli eruditi) di Leucotèa, uno dei
personaggi dei dialoghi.17
La Dea Bianca.18
La Grande Madre. La divinità femminile primigenia, forse autoctona,
regnante prima che giungessero da chi sa dove gli indoeuropei
patriarcali a scompigliare tutto.
Leukòs
in greco è qualcosa di molto simile al “bianco” (almeno in quasi
tutte le traduzioni), Leucotèa è, appunto, la “dea bianca”,
divinità marina, benevola ai naviganti (Om., Od.
5,
333 ss.; Ovid., Metam.
4, 539 ss.). Ma più propriamente è la dea “splendente”, nella
radice del cui nome *luk vi è la luce, il lucore (latino lux,
lucis),
il dilùcolo ambiguo, il bianco certo e lo splendore soprattutto; ma
anche il “lupo”, che in greco si dice lykos
ed enigmaticamente partecipa della stessa area semantica. Del resto,
è da tempo risaputo che le donne corrono
coi lupi,
come ci racconta la psicoanalista junghiana Clarissa Pinkola Estès,
non casualmente, credo, di origini ispano-messicane, in un libro
ormai classico.19
Ma la lucentezza di Leucotèa non è la lucentezza, lo splendore
olimpico e solare, che acceca, devasta e annichilisce, bensì quello
lunare, portatore di uno splendore che aiuta a vedere meglio, perché
compromesso con l'oscurità, perché partecipe del suo contrario.
Leucotèa è il divino splendore del mito che conduce a più chiare
distinzioni o, quando necessario, a più armoniose fusioni e alla
vera conoscenza, contro lo splendore del sole, violento, che può
anche distruggere e annullare ogni naturale metamorfosi.
In
Pavese l'identificazione della “conoscenza” con l'elemento
femminile (la Sophìa
gnostica?) e al contempo i suoi infelici rapporti con le donne, ci
possono raccontare molto della sua storia interiore, senza con questo
addentrarci in psicologismi di raccatto. Anzi, volendo espressamente
sublimare e schematizzare: la vera
conoscenza
e l'eterno
femminino
sicuramente costituirono per lui un problema.20
E,
a proposito di metamorfosi, agli inizi della storia degli uomini,
quando la stessa si confondeva ancora col mito, Leucotèa non era
Leucotèa, bensì si chiamava Ino, figlia di Cadmo (eroe
civilizzatore, forse “il brillante”, “il dotato”) e Armonia,
e sorella della madre di Dioniso, Semele (“la terra” - termine
forse frigio, la cui radice sarebbe analoga al nostro latino humilis
da
humus).
Ino, fu sposa di Atamante e protagonista di vicende di gelosia e
infanticidio, si suicidò gettandosi in mare, come la tradizione ci
racconta anche della poetessa Saffo. Ma, per quei meccanismi tipici
che nei miti presiedono alla dialettica fra vita e morte, si
trasformò in divinità delle acque e prese il nome di Leucotèa. Il
suo nome originario, considerato di etimo incerto, forse si collega a
un significato che indica lo “scorrere” (elemento fluviale),
forse a un termine che indica una “candida fanciulla”, o forse
ancora al termine greco ìs,
inòs,
un altro nome per indicare
la
“forza”, intesa con connotazione vitalistica e orgiastica.21
Ma
siamo noi che consideriamo incerto,
e quindi non vero, ciò che ci sfugge; siamo noi che pretendiamo
parole univoche, con un solo significato possibile, che sappiano
organizzare e spiegarci la realtà una volta per tutte. È la nostra
povertà di senso
che informa il nostro linguaggio. Ma gli antichi sapevano, e lo
sapeva Pavese, che la realtà è più complessa delle nostre parole
unidirezionali (logoi),
che la realtà è esprimibile solo con le parole del mito (mythoi),
secondo cui un nome
misteriosamente
può essere, nello stesso momento, acqua che scorre, candore di
fanciulla e oscura, violenta pulsione amorosa.
Questo
è un libro di meditazioni, e da
meditazione,
come certi vini. È portatore di una potente densità simbolica e
mediatore (“interprete”) di un immenso deposito sapienziale, che
però va attivato secondo le modalità intellettive e intuitive di
cui ognuno di noi è capace. È un virus dormiente che aspetta il
risveglio che solo il lettore può innescare.
Del
resto, originariamente, i miti erano intesi come “discorsi
autorevoli” e portatori di verità, mentre le semplici parole,
definite logoi,
potevano anche ingannare. Solo successivamente il logos,
da Eraclito, ma soprattutto da Platone in poi, inizia ad essere la
regola/parola razionale, diciamo “scientifica”, il principio
regolatore della conoscenza (anche nel suo poter essere vera
e
falsa).
E i miti, di conseguenza, piano piano diventano favolette carine ma a
cui non dar credito. Da Vico, ma soprattutto dal romanticismo, dalla
critica storica razionalizzante, dalla psicoanalisi simbolizzante,
dall'antropologia culturale e dagli studi mitologici comparatistici
('800-'900) in poi, il mito riacquista interesse. Ancora se ne
discute, ancora si sente la necessità di capirne i nascosti,
possibili significati. Valenti studiosi sono attivi sulla mitologia
sia negli studi accademici, che in quelli di alta divulgazione:
traduzioni, interpretazioni e variazioni sul mito vengono pubblicate
anche come allegati ai quotidiani.22
Ma, in evidente paradosso a queste “eroiche” sollecitazioni,
tanto dotte quanto affascinanti, la nostra “civiltà”, la civiltà
di massa, li sta riperdendo, i miti. E anzi chiama “miti”
sostituzioni ibride e superficiali, semplici (a volte squallide)
“tendenze” effimere di gusti, di costumi e delle novità del
momento. Gli eroi
civilizzatori del
mythos,
vengono sostituiti da personaggi triviali, disgustosi e,
fortunatamente, di breve orbita dal successo all'oblio. Traiettorie
veloci, impersistenti, degradate e degradanti.
(fine
della tirata moralistica, o quasi...)
Ma
perché Teseo (“il forte”) abbandonò Arianna (“la sacra/pura”)
nell'isola di Nasso nessuno se lo chiede più, meglio giustificando
così lo squallore dei propri abbandoni (Il
toro, Lelego
e Teseo).
Perché
Orfeo (“l'orfano” - lat. Orbus
-, o “l'oscuro”), dopo aver vinto la battaglia/gara con Ade e
riconquistata Euridice (“dall'ampia giustizia”), risalendo al
mondo dei vivi si voltò volontariamente
per riperderla, a nessuno interessa più, per meglio rimuovere ogni
consapevolezza interiore, soffocare anche gli ultimi frammenti del
discorso amoroso, perdere il senso del limite ed esorcizzare il
pensiero di morte (L'inconsolabile,
Orfeo
e Bacca).23
Perché
il re frigio Litierse (“pioggia di rugiada”24)
e il pelorosso straniero Eracle (“gloria di Era”) si affrontano
in una mietitura di sangue nei campi presso il Menandro, nessuno più
se lo chiede, o lo ha dimenticato o non lo ha mai saputo. Così è
più facile evitare di riflettere sulle tragedie degli esodi umani e
su quelle virtù, già per gli antichi ambigue e scivolose, di
accoglienza, ospitalità e rispetto (L'ospite,
Litierse e Eracle).
Perché
infine Saffo si uccise per amore e come fu mai possibile che anche
una ninfa immortale potesse suicidarsi, non ci riguarda, ormai siamo
adulti e queste sono favole per bambini, o al più inutili esercizi
di erudite elucubrazioni mentali. Perché un dio si suicida? ...che
assurda domanda! Eppure Pavese che, meditando sui miti, forse
meditava già da tempo alla sua definitiva catàbasi, sapeva che
queste domande erano le domande giuste
da
farsi nell'arco dell'esistenza di quel sogno
di un'ombra che è l'uomo (Pindaro)
(Schiuma
d'onda, Saffo
e Britomarti – l'Artemide cretese – poi, ninfa del corteo di
Artemide).
Nessuno
si fa più le domande che i miti da millenni ci pongono, e a cui
forse i miti potrebbero ancora dare faticose risposte. Essi ci
ricordano che i nostri sentimenti vivono di trasformazioni, come di
trasformazioni vive l'intero universo. Ci ricordano che la linearità
è un'illusione prospettica e che ogni trasformazione è cambiare
ma
anche tornare.
Esattamente come l'Arte, il Rito e le Religioni, i miti ci dicono che
il mistero c'è e che a volte al mistero si può tentare di dare
risposta solo con un altro mistero, e che questo non è eludere più
o meno elegantemente la ragione con una ridondanza prestigiatoria.
Perché il mistero ci richiama il “tacere”25,
come atto volontario che crea
il
silenzio e non lo subisce. Un “tacere” che non è quello di
coloro che, illusi, presumono di nascondere un segreto ad altri
inferiori, bensì è il riconoscimento dell'ineffabile che forse solo
fuori dalle parole si può, a tratti, ancora com-prendere.
I
miti non vanno mai da soli. Essi viaggiano nel tempo non solo col
loro corpus
di
varianti e variazioni, ma anche con tutti gli altri miti con cui
s'intrecciano, si contaminano, si espandono in un reticolo di
corrispondenze, contraddizioni e ricomposizioni. Tutti i miti, se ci
facciamo caso, sono miti di metamorfosi, e quindi variamente
s'incarnano e s'accoppiano per incesto o polarità, come le divinità
dopo il Caos. E, come le divinità dopo il Caos, sono prolifici.
Quando la differenziazione
primordiale
era gioia, tripudio, sesso, violenza e sangue, naturale
orchestrazione fra disordine e ordine.
E
di volta in volta un mito incarnato è una storia, una storia da
raccontare. Le ambiguità del mito sono le ambiguità della nostra
esistenza che, come un oracolo delfico, necessitano sempre
d'incessante interpretazione; di ermeneutica
(la scienza di Ermes, dio dei ladri e dei crocicchi e guida delle
anime nell'Ade), non di critica,
superficiale esercizio di razionalità, consolatorio e presupponente.
Pavese di questo ebbe contezza e non si rifugiò nel mito,
semplicemente perché al mito nessuno sfugge, al mito non si sfugge
comunque.
Semmai
è il mito che ci sfugge, ci ricorda ancora Pavese, quando cerchiamo
di razionalizzarlo, quando lo fissiamo in rappresentazioni artistiche
(poetiche, figurative...) il mito muore (quel
mito muore), subito disponibile per altre esistenze; perché sempre
«il corpo di un uomo / pensieroso si piega, dove un dio respirava».
Maurizio
Bettini, attualmente uno dei migliori filologi classici in
circolazione, fondatore presso l'Università di Siena del Centro di
Antropologia del Mondo Antico (AMA), espertissimo nell'ermeneutica
dei miti, ci ricorda che la migliore definizione di “mito” ce
l'ha data il mitologo e filologo classico Walter Burkert (1931-2015)
che lo intende come «un racconto tradizionale fornito di
significatività».
La distinzione fra “significato” (Bedeutung)
e “significatività” (Bedeutsamkeit),
ci racconta ancora Bettini, è fondamentale nella terminologia
ermeneutica tedesca. La “significatività” è “l'efficacia di
quel
significato”,
ovvero come dire che non solo “il racconto del mito ha
un
senso, un significato, ma questo senso è significativo,
in quanto influisce sui comportamenti, sulle scelte, sulla pragmatica
di una comunità”.26
E qui Bettini fa l'esempio del mito di fondazione di Roma (Romolo &
Remo) e di come tale mito abbia efficacemente
agito nella civiltà romana e sia stato funzionale alla costruzione
non solo di un'identità, ma soprattutto di un impero.27
Sulla
nozione di Bedeutsamkeit
mi sentirei tuttavia di andare oltre, proprio in relazione al tema
del mito. E aggiungerei che questa “significatività” è anche
una capacità che ha il mito (un corpus
mitologico)
di generare molteplici se non infiniti significati.
Come un codice genetico dalle indefinite e indefinibili combinazioni.
Pur
tuttavia, nell'agire mitico (che è agire simbolico) c'è tutta una
gerarchia che carica di significati alcuni frammenti di reale. Nella
realtà naturale nessun gesto e nessun luogo vale più di un altro.
Perché il mito si attivi e diventi ciò che di assoluto è
rinvenibile nel reale, c'è bisogno almeno di un dio e di un uomo,
c'è bisogno che si riflettano l'uno nell'altro, magari si guardino
in cagnesco, lottino, si scambino di ruolo. C'è la necesità di un
respiro reciproco e che i loro indistinguibili passi stupiscano la
terra.
E
se i miti, e le loro variazioni, contengono l'impronta
originaria
di tutte le possibili storie, il deposito imperscrutabile e
primigenio di pulsioni trasformative e sapienza, ancora variamente
operanti sul piano personale e collettivo, non possiamo non pensare
alla nozione di archetipo28ma
forse, anche in questo caso, con una variazione rispetto alle già
molteplici e più o meno fluide definizioni. E provo a dirlo con una
similitudine: gli archetipi, da cui scorrono i miti millenari della
Tradizione, sono come stampi di gesso che accolgono il nostro metallo
fuso, dandogli forma e consistenza nel tempo, una foma e una
consistenza sempre sensibile alle metamorfosi. Non sono semplici
“modelli”, irraggiungibili come le idee di Platone, lontani,
solari e olimpici, sono stampi che ci stanno vicino, addosso, intorno
a noi e, in apparente paradosso, dentro di noi. Dobbiamo morire e
risorgere ogni volta (scendere
e
risalire)
per cambiarci e tentar di cambiare, o più semplicemente, e sarebbe
già sufficiente per noi perenni apprendisti, per assecondare la
natura senza violarla, in noi e fuori di noi.
Questo
il modernissimo, fragilissimo, esoterico e sapiente Pavese lo sa, e
resta ancora sotto la pioggia ... ma Alice, evidentemente, no...
tutto questo Alice non lo sa...
Livorno,
14 Aprile 2018
Francesco
Parasole
1Così
«scrive
Melville in Moby
Dick
a proposito di KOKOVOCO («un'isola lontana dei mari del Sud e
dell'Ovest» e patria del selvaggio fiocinatore Queequeg)», Luigi
Ballerini in Monologhi
e polifonie d'oltretomaba,
Introduzione alla Antologia
di Spoon River
di Edgar Lee Masters, Introduzione, Traduzione e Note a cura di
Luigi Ballerini, Mondadori, Milano 2016, p. v.
3Così
pare che disse: «Ero
una ragazza quando ho letto per la prima volta Spoon
River:
me l'aveva portata Cesare
Pavese,
una mattina che gli avevo chiesto che differenza c'è tra la
letteratura americana e quella inglese».
Da wikipedia, senza fonte.
4Il
termine fabula
in latino è l'equivalente semantico del greco mythos.
Nella cultura classica latina, e poi medievale, le opere di
mitografia erano organizzate per fabulae
o
per genealogiae,
vedasi ad es. la Genealogia
deorum gentilium libri,
scritta da Giovanni Boccaccio dal 1360 al 1374, da considerarsi a
buon diritto il primo manuale di mitlogia della cultura medievale
occidentale.
5Italo
Calvino, Perché
leggere i classici,
Mondadori, Milano, ristampa 2017
("Il
leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un
piacere straordinario: diverso rispetto a quello d'averlo letto in
gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra
esperienza un particolare sapore e una particolare importanza;
mentre in maturità si apprezzano molti dettagli e livelli e
significati in più. Ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta
dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se
i libri sono rimasti gli stessi noi siamo certamente cambiati, e
l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.").
6Cesare
Pavese, Dialoghi con
Leucò,
Introduzione di Sergio Givone (1999), con Note
al testo,
Appendice:
Cronologia della vita e delle opere, Bibliografia ragionata,
Antologia della critica, Einaudi, Torino (1947, 1964, 1973,1999 e
2014).
7Patrizia
D'Arrigo, Mito e Modernità nei Dialoghi
con Leucò,
in
http://www.italianisti.it/upload/userfiles/files/D%27Arrigo%20Patrizia.pdf
– a cui devo anche il riferimento alla canzone Alice
di
Francesco De Gregori.
8Di
R. Calasso basta dare uno sguardo al catalogo di Adelphi per
renderci conto dell'impressionante continuità della sua opera
riguardo ai miti (Da La
rovina di Kasch (1983),
Le nozze di Cadmo e
Armonia (1988)
a Il cacciatore
celeste (2016)
e, tutto sommato, anche a L'innominabile
attuale (2017)
– un vero e proprio work in progress, com'è stato definito). Del
più defilato, e solo di poco meno prolifico in materia, Pietro
Citati, ricordiamo: La
luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo,
Mondadori, Milano 1996 (ora Adelphi, 2009); il forse ormai un po'
datato L'armonia
del mondo. Miti d'oggi,
Rizzoli, Milano 1998 (ora Adelphi 2015, non so se aggiornato
dall'autore); il seducente
La mente colorata. Ulisse
e l'Odissea,
Mondadori, Milano 2002 (ora Adelphi 2018); Sogni
antichi e moderni,
Mondadori, Milano 2016.
10Con
queste “didascalie” Pavese sembra alludere agli Argumenta
posti all'inizio delle edizioni dei testi teatrali latini (prima o
dopo l'elenco delle Personae
“personaggi”).
Anche in questo caso un'attualizzazione del “classico”
raffinata, sottile, fatta per così dire di tocchi e di spostamenti
minimi ma d'indubbia efficacia.
11I
due
(Achille e Patroclo) p.60: «Solamente
per loro [gli
dèi]
quel che è stato sarà». La
rupe (Eracle
e Prometeo) p. 73:«Non
ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà».
L'inconsolabile
(Orfeo
e Bacca) p. 77: «...pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci
[nell'Ade], che ciò che è stato sarà...alla vita con lei
[Euridice], com'era prima; che un'altra volta sarebbe finita. Ciò
che è stato sarà...
».
Gli
dèi (anonimia
mitica primordiale) p. 170: «Non c'è vuoto né attesa. Quel che è
stato è per sempre».
12Quel
fenomeno estetico che gli studiosi tedeschi definiscono klassische
Dämpfung,
«attenuazione
del classico». Quando cioè il riferimento alla classicità, ai
miti della classicità, diventa o vuoto e formulare, o lo si eleva a
modello insuperabile, irragiungibile, ottenendo così lo stesso
effetto di discontinuità, allontanamento e impoverimento di senso.
13Ho
evidenziato in grassetto quelli che, a mio vedere, sono
passaggi-chiave, o termini-chiave allusivi a più profonde
connotazioni significative, pur nell'apparente colloquialità degli
stessi (lo stile è quello del c.d. Sermo
humilis ma
estremamente dissimulante nella sua chiarità).
14In
greco kràtos e
bìa (qui
personificati alla maniera di Esiodo (Theogonia,
VIII a.C.) e dei miti primigenii) sono due apparenti sinonimi
indicanti la «forza».
Il primo, non a caso di genere maschile, indica la “forza come
potere”, derivante cioè da un'autorità istituzionale e
normativa, razionale. Il secondo termine, di genere femminile,
indica la “forza naturale”, la forza come violenza irrazionale,
quella degli elementi, quella orgiastica (bacchica), bruta e oscura.
Kràtos
e
Bìa
compaiono
insieme nel Prologo del Prometeo
incatenato di
Eschilo (Tragedia rappresentata intorno al 470 a.C.), dove
significativamente è soltanto Kràtos
a
parlare.
15Chi
parla e
di chi/cosa si
parla
sono due delle molteplici suddivisioni, trovate nei manoscritti e
negli appunti di Pavese sull'opera, con cui egli elaborò la
faticosa redazione dell'ordine dei dialoghi, dei titoli da assegnare
e degli argomenti e miti da trattare.
16Qui,
in aggiunta, abbiamo una delle figure più enfatiche della
ripetizione, l'epanalessi: era...era...era.
17E
anche, sicuramente, come riportano tutti i manuali, il nome
grecizzato di Bianca Garufi (1918-2006), poetessa e psicoanalista,
amore non corrsiposto di Pavese, che lavorò all'Einaudi nel periodo
della composizione dei dialoghi e alla quale Pavese dedicò l'opera.
18
Robert Graves, La Dea
Bianca - Grammatica storica del mito poetico,
Adelphi, Milano 2009 (6a ed.). Vale la pena qui ricordare che Graves
è maggiormente noto per I
Miti Greci,
Longanesi 1992 (1983), un vero e proprio long seller in questo
ambito.
20L'espressione
eterno femminino ci
deriva da Goethe attraverso, ebbene sì, il Carducci che la mutuò
da una traduzione francese (l'éternel
féminin).
Alla fine del V atto del Faust, Goethe dice: Das
Ewig-Weibliche zieht uns hinan, cioè "L'eterno femminino ci
trae in alto". Ad indicare «un
femminile profondo, fisso, saldo, che richiama quei connotati sacri
e bestiali di amore totale e di spinta all'elevazione che sono
inscritti nella figura della donna».
Per tutto quanto in questa nota, vedi:
https://unaparolaalgiorno.it/significato/F/femminino.
21AA.VV.,
Dizionario Etimologico
della Mitologia Greca,
www.demgol.units.it
– aggiornamento al 14.05.2017. Tutte le ricostruzioni etimologiche
e/o paretimologiche dei nomi mitologici qui riportate sono tratte da
questo dizionario fondamentale ad opera di studiosi dell'Università
di Trieste.
22Nel
momento in cui scrivo, ad esempio, il Corriere
della sera
settimanalmente offre a prezzo modico un volumetto (siamo a 15/30)
su un personaggio o una divinità del mito greco, a cura di un
gruppo di classicisti, filologi e antropologi del mondo antico. La
casa editrice Marsilio da alcuni anni (e ora siamo già in fase di
riedizioni) sta pubblicando una collana, Variazioni
sul mito,
in cui con saggi introduttivi e interpretativi si antologizzano
passi dalla letteratura antica alle letterature moderne da cui poter
toccare con mano l'evoluzione estetico-letterararia (e non solo) dei
più famosi personaggi mitici e delle fabulae
che
li vedono protagonisti.
23L'originale
interpretazione del mito di Orfeo ed Euridice che dà Pavese –
Orfeo che si gira volontariamente
per perdere definitivamente l'amata – è una delle tante
“variazioni sul mito” del primo cantore-musico-poeta, e
sull'atto del respicere,
della letteratura occidentale. Vedi Rilke, Cocteau, Bufalino, in:
Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero (a cura di), Virgilio,
Ovidio, Poliziano, Rilke, Cocteau, Pavese, Bufalino – ORFEO –
Variazioni sul mito,
Marsilio, Venezia 2004.
24Termine
frigio il cui primo elemento richiamerebbe per alcuni una parola che
si trova anche in lituano, lytùs
«pioggia»,
per cui: lytùs
+
greco èrse
«rugiada».
Per altri un composto pelasgico indicante il “riunire, comprimere”
(i covoni?); per altri infine solo dal greco litè
«preghiera»
+ èrse
«rugiada».
www.demgol.units.it
25Dicesi
che “mistero” derivi dal vb. greco myo,
«serrare,
chiudere (le labbra, la bocca)» e quindi «tacere»; dalla forma al
futuro my-s-o,
il lat. mysterium,
«mistero».
26Per
“comunità” non s'intende tanto un èthnos
identificato geneticamente, quanto un gruppo identificato
culturalmente, che affida a un complesso di miti, simboli, riti,
“usi e costumi”, cioè a una Tradizione
antropologicamente intesa, la sua riconoscibilità nei confronti di
altri gruppi.
27Cfr.
l'interessantissima lezione-videoconferenza: Maurizio
Bettini, “Il mito tra autorità e discredito” - 30.09.2016 in
https://vimeo.com/205063629.
28Propriamente
il termine greco archètypos
ha i seguenti significati: tipo o modello primitivo; immagine
originale; esemplare di una cosa. Attestato originariamente in
Filone, storico ebreo del I sec. d.C., in Sorano, medico del II sec.
d.C. - sembra un termine d'uso un po' tardo nella tradizione. In
forma neutra, tò
archètypon
sta a indicare la forma originale di un'opera (generalmente
letteraria) rispetto alla sua copia (apògrafon)
o alle sue copie (apògrafa).
È
termine composto da archè
(principio,
origine, anche in senso gerarchico) + typos
(dal
vb. Typto
(anche
typòo)
–
colpisco, imprimo, configuro, foggio, scolpisco, formo). Così come
archè
non indica solo il principio cronologico (“all'inizio”) ma anche
un principio operante, attuale e fondativo, typos,
a seconda del contesto, ha una miriade di possibili esiti: colpo,
segno, impronta, sigillo, marchio, punto, conio, carattere,
simulacro e addirittura scultura, statua, modello, abbozzo e
schizzo. Per cui, una definizione generale di archetipo,
che conservi il rigore dell'etimologia e – in qualche modo –
cerchi di compendiare le possibilità di senso di quest'ampia area
semantica, potrebbe essere proprio: «impronta
originaria e persistente».
Nessun commento:
Posta un commento