Il Pinot Nero è per gli enoappassionati croce e delizia. Molti sono convinti che non esista altro vitigno e vino così nobile e sublime, per altri invece è stato a volte motivo di delusione o disincanto. Se questo è vero per tutti i vitigni (date le molteplici “versioni” che si trovano in commercio) lo è ancor di più per il pinot nero, data la fama e il costo che raggiungono alcune bottiglie prodotte con questa uva.
Non
ultima poi, in questa costruzione del mito, risulta l’influenza della
sua zona di origine e sicuramente della più accreditata area di
produzione: la Borgogna. Il binomio pinot nero –
Borgogna è uno di quei dogmi che non si possono scalfire e che fanno
parte del credo degli enofili, badate bene con molti argomenti a suo
favore, ma anche con cocenti delusioni da mettere nel conto, se non si
sceglie la bottiglia giusta. Così, avventurarsi fra i Pinot Nero dell’Appennino è un modo intelligente per approfondire la conoscenza di questo vitigno nelle sua verità e nel suo mito.
La
sua origine, seppure ancora incerta, lo fa risalire all’età preromana
nella zona della Borgogna, dato che gli stessi Plinio il vecchio e
Columella lo hanno annoverato tra le varietà di vite conosciute.
Geneticamente è considerato una varietà instabile e nel tempo sembra aver dato origine a mutazioni poi stabilizzatesi in varietà (pinot bianco, pinot grigio, pinot meunier). Il nome sembra derivare dalla forma del grappolo che assomiglia ad una pigna, sia per le piccole dimensioni che per la compattezza, ipotesi quest’ultima accreditata dal fatto che anche lo chenin blanc, vitigno principe della Loira, è chiamato localmente Pineau de la Loire proprio a causa della forma del grappolo.
Geneticamente è considerato una varietà instabile e nel tempo sembra aver dato origine a mutazioni poi stabilizzatesi in varietà (pinot bianco, pinot grigio, pinot meunier). Il nome sembra derivare dalla forma del grappolo che assomiglia ad una pigna, sia per le piccole dimensioni che per la compattezza, ipotesi quest’ultima accreditata dal fatto che anche lo chenin blanc, vitigno principe della Loira, è chiamato localmente Pineau de la Loire proprio a causa della forma del grappolo.
Le
caratteristiche agronomiche che hanno decretato il successo della
varietà, anche al di fuori della zona di tradizionale coltivazione, sono
presto dette: produzione costante, vigoria, facilità nel raggiungimento di un grado zuccherino elevato, ciclo produttivo precoce.
D’altro canto se questi appaiono punti di forza per la produzione di
vini semplici e dal basso profilo qualitativo, tutt’altro aspetto
assumono i punti deboli per la produzione di vini di elevata qualità.
I “difetti” del pinot nero risiedono essenzialmente nella materia
colorante molto instabile e ossidabile, nell’assenza quasi totale di
forme acilate degli antociani, nella notevole difficoltà nel
raggiungimento della maturità dei vinaccioli in sincronia con le bucce ( ciò che provoca problemi di forte astringenza in fase di macerazione), nei pH molte volte elevati che espongono i vini a rapido invecchiamento o a rischi biologici, nella bassa resistenza alle malattie fungine, in primis alla Botrite, che facilmente colpisce i grappoli se si hanno periodi umidi in prossimità della maturazione.
Come
si vede, quando si punta alla qualità, il pinot nero pone dei problemi
agronomici ed enologici non banali a cui l’agronomo e l’enologo sono
chiamati a rispondere con competenza e attenzione. Da qui forse si è
ulteriormente alimentata la fama di vitigno eclettico e problematico per
l’enologo, quando se ne voglia trarre prodotti rispettosi della
tipicità e del profilo aromatico.
E
parlando di tipicità non vi è forse vino-vitigno più legato ad uno stile
iconico. Se si propone un pinot nero vinificato in rosso ci si deve per
forza confrontare con i vini borgognoni e con il loro stile. Che sia
coltivato in Cile o in Nuova Zelanda, in Oregon o in Ontario il
confronto rimane con i vini della Côte d’Or e con il loro stile etereo e
austero al tempo stesso dove l’acidità, il tannino e l’evoluzione sono i
tre pilastri su cui posa lo stereotipo del “vero” Pinot Noir. Tanto che
quando si studiano i terreni dove sorgono i vigneti non borgognoni se
ne compara sempre la composizione con quelli della riva destra della
Saône cercando quel che manca o quel che vi è in più per giustificare
diversità di qualità o di profondità nei vini. Quindi un grande modello a
cui non possiamo esimerci dal confrontarsi.
Detto questo, l’evento Eccopinò svoltosi a Borgo a Mozzano (provincia di Lucca) il 3 dicembre scorso, che ha presentato i produttori dell’Appennino Toscano uniti dalla produzione di Pinot nero (Mugello, Lunigiana, Casentino, Garfagnana le terre “implicate”) e che ha potuto contare sulla presentazione di Armando Castagno,
fra i massimi esperti di Borgogna in Italia, non ha fatto che
confermare quello che si è detto sopra: il pinot nero non è ancora
riuscito, nel mondo, ad esprimere modelli interpretativi diversi da
quella imposta dalla Borgogna. Eppure ci sono riusciti molti altri
vitigni e altri territori ad affrancarsi dalla primigenia zona di
origine: si pensi solamente ai merlot, ai cabernet e alla schiera di
vitigni a bacca bianca mitteleuropei che hanno trovato in altre aree del
pianeta terroir di elezione e conseguente valorizzazione. E
dunque cosa dire dei Pinot Nero dell’Appennino? Direi per un attimo di
liberarci da questo enorme fardello e consentire alla nostra
intelligenza e al nostro animo di esprimersi per le sensazioni e le
volontà riscontrate, senza confrontare niente con niente ma valutando
soltanto la realtà e la dimensione specifica dei vini degustati.
Così
possiamo dire che nel complesso i vini presentati a Eccopinò 2019 ci
son piaciuti, e nel tempo (abbiamo partecipato già in passato a questo
evento) si sono affinati e migliorati sia stilisticamente che
tecnicamente. Le otto cantine presenti hanno con coraggio accettato la
sfida di esplorare territori diversi con un vitigno che è senz’altro uno
strumento sensibile e delicato per leggerli, e lo hanno fatto
consentendo di evidenziarne i pregi e i limiti oggettivi, e già questo è
un grande merito e un motivo di plauso.
Poi,
incontrare vini di bella fattura e di forte caratterizzazione non fa
che convincerci ancor di più che la strada intrapresa otto anni fa sia
valida e ricca di possibilità. Vini come quelli del Podere della Civettaja, Il Rio, Casteldelpiano, Fattoria il Lago,
permettono di apprezzare l’interpretazione del vitigno di un
determinato territorio con una onestà pregevole, che non interviene con
artifici nelle eventuali sfocature.
Quindi una bella manifestazione insomma, ottimamente ideata dal presidente dell’associazione Cipriano Barsanti (che con i suoi vini di Macea
fa parte della schiera dei validi produttori), che auspichiamo di veder
crescere come già lo hanno fatto i Pinot Nero dell’Appennino in tutti
questi anni.
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