Parlare di un classico come Moby
Dick o la balena ha i suoi vantaggi ma anche parecchi svantaggi.
Parto
dai vantaggi. Il più ovvio è che si può contare su qualche conoscenza a
riguardo: se non tutti avranno letto il libro di Herman Melville, in molti
avranno visto il film di John Huston, interpretato da uno splendido Gregory
Peck, oppure ne avranno almeno sentito parlare. Per cui non c’è necessità di
ripercorrere l’intera storia, né si corre il rischio di svelare la fine
tragica, immagino a tutti nota.

Rinfreschiamo
però qualche elemento. Il romanzo è narrato in prima persona da Ismaele, un’anima inquieta e girovaga che, per
sfuggire alla propria malinconia, decide di imbarcarsi su una nave baleniera.
Ma il «Pequod», la nave che sceglie nel porto di Nantucket (Capo Cod, nel
Massachusset) e che sceglie perché gli appare più robusta, è affidata a un
comandante molto particolare: il vecchio capitano Achab a cui Moby Dick, una
balena bianca, nell’ultimo viaggio ha strappato via una gamba. Il «Pequod» si trova quindi sotto la guida di un
capitano di grande esperienza ma accecato da un disegno monomaniacale: uccidere
la balena albina. Accanto a lui, dapprima ignari di questo progetto, un
equipaggio di trenta uomini in cui si distinguono tre ufficiali – il quacchero Starbuck,
il gioviale Stubb e il giovanissimo Flask – e tre ramponieri a cui spetta di
lanciare il primo arpione nell’attacco alla balena.
Il vantaggio maggiore tuttavia è un altro, e sta nella simpatia per la
balena: un animale portentoso, oggi non più cacciato come un tempo, per
fortuna, ma ammirato e in molti luoghi protetto. Un animale di alti natali: fu
creato il quinto giorno, secondo la Genesi, e fu strumento di Dio per
raddrizzare il riluttante Giona (Giona nella pancia della balena, assai prima
di Geppetto). Un animale da sempre associato ai tratti della sovranità [ed è
qui che vedo il trait-d’union con i
vini della Tenuta Mariani, vini che aspirano alla nobiltà, mi si dice, mentre
sul «Pequod» più che altro si beveva gin e ruhm].
L’associazione con la sovranità, d’altra parte, non è una prerogativa
dei tempi d’oro della monarchia, quando i sovrani erano consacrati (unti) con
olio di balena. Per cogliere questo aspetto dotiamoci di un elemento tassonomico:
l’ordine dei cetacei si divide in due sotto ordini, i misticeti, la balena con i fanoni, e gli odontoceti, cioè i cetacei muniti di denti, come il capodoglio, il
protagonista del nostro libro. Nei rari momenti di ozio, i marinai delle
baleniere erano soliti intarsiare i suoi denti d’avorio per poi venderli per
qualche dollaro. Nel tempo, sono divenuti oggetti preziosi e ricercati. E
poiché il presidente Kennedy li collezionava, Jacqueline gliene aveva comprato
uno per il natale del ’63, un natale che il presidente non avrebbe visto.
Ebbene, quel dente, Jacqueline lo fece deporre nel feretro, quasi a
simboleggiare un resto di regalità al tempo della sovranità popolare.
Veniamo alla parte difficile. Se contare su qualche conoscenza del libro
è già un bel punto di partenza, una partenza in discesa, resta che affrontare Moby Dick comporta molti svantaggi. A
partire dal fatto che, in quanto capolavoro indiscusso della letteratura
americana, è accompagnato da una saggistica enorme e in continua crescita.
Inoltre, nella sua indiscutibile bellezza, il testo è carico di simboli
e di metafore, il più delle volte con ampi rimandi biblici e mitologici. Non
solo. Una bella parte è un vero e proprio trattato di cetologia (ma con quale
fantasia, quale inventiva …). E non alludo solo alla descrizione del tema-balena,
cioè l’esame anatomico delle sue parti in un serrato confronto con le nozioni
dei naturalisti, o dei luoghi ad essa dedicati nei testi sacri e in
letteratura; intendo anche l’accuratissima descrizione delle fasi della caccia
e della lavorazione.
Difatti, per darne un’idea sintetica, potrei dire che Moby Dick è il prodotto dell’incrocio di
più linee spazio-temporali.
La principale è la linea romanzata, cioè la storia del «Pequod» e del
suo equipaggio. E non è certo una linea retta, casomai una linea curviforme
come lo è la rotta di una nave attrezzata per un viaggio di quattro anni in
giro per il mondo: partita da Capo Cod, un «ricciolo di terra» che si proietta
nell’oceano Atlantico, doppia il Capo di Buona Speranza, naviga lungo l’oceano
Indiano, s’inoltra nello Stretto della Sonda, tra Sumatra e Giava, fino a
raggiungere le acque equatoriali dell’oceano Pacifico: proprio là dove tutto si
compie. E sempre sulla linea romanzata s’infilano, come perle di una collana,
le storie che toccano ora i componenti dell’equipaggio, ora gli incontri con
altre navi baleniere: ed ogni nave ha una sua vicenda, il suo fardello di
tragicità, un nome evocativo: la «Gioia», «Bocciol di Rosa», lo «Scapolo»,
«Rachele»...
Su questa linea principale si va a innestare la trattazione colta,
erudita, o meglio le molte trattazioni. Le quali, come una sorta di segmenti
spazio-temporali, intersecano e interrompono in più punti la storia del «Pequod».
Si tratta di una serie di incisi che producono un continuo andirivieni nella
religione, nella storia, nella cultura e
nella tecnica occidentale – soprattutto occidentale, ma non solo – formando un
secondo tragitto che va a pescare nelle esperienze umane più diverse, spesso
attraverso il dispositivo della riflessione attribuita a singoli personaggi. Il
tutto condito con allegorie a non finire e meditazioni davvero profonde, anche proto
ecologiste: come nel capitolo in cui il narratore, avendo presente la coeva
strage dei bufali, si chiede se il capodoglio non possa fare una fine
altrettanto ingloriosa. (p. 483) [cito dall’edizione Adelphi 1987, la
traduzione è di Cesare Pavese].
Insomma, per queste e molte altre ragioni ho scelto di seguire una rotta
prudenziale, appuntandomi, in prima battuta, sui nomi. Il che non è poco poiché
permette di sollevare qualche velo.
«Chiamatemi
Ismaele»: l’incipit, la frase più
celebre della letteratura americana, suona
subito ambiguo, se non misterioso. Ismaele era figlio di Abramo e della schiava
Agar, ma quando Sara dà alla luce Isacco per gelosia chiede che vengano
scacciati. Errano così nel deserto e sarebbero senz’altro periti se non fossero
stati salvati da un angelo. Senso di abbandono? Nostalgia? Queste ipotesi sono
state avanzate. Non solo. L’Islam, riprendendo il racconto biblico, vede in Ismaele
il progenitore del popolo arabo.
La scelta di questo nome per
l’importantissima figura del narratore può quindi leggersi come un’apertura al
mondo dei pagani. E difatti la storia narra anche di un’amicizia fraterna tra
il selvaggio Quiqueg, il primo ramponiere, e Ismaele.
Anche Achab, il nome del capitano, è un nome biblico (Primo Libro dei Re) ma questa volta s’iscrive nella maledizione. In Moby Dick vi è solo un accenno al passo
vetero testamentario, ma la pennellata è davvero calzante: e non solo perché
questo re malvagio era un valente guerriero, soprattutto perché dispiacque al
Dio di Israele: l’Achab biblico aveva tentato di introdurre il culto di Baal,
dio fenicio – guarda caso – della Tempesta.
Il nome della barca, il «Pequod», è invece tratto
da un altro orizzonte. Qui Melville vuole rendere omaggio alla tribù degli
indiani Pequod, un tempo dominatori dell’attuale New England e primi grandi
cacciatori di balene.
Delle balene a noi interessa una in particolare,
la balena bianca, ovvero Moby Dick. Su questo nome si è scritto molto, mi pare
senza risolvere gran che. Invece di lanciarsi in congetture, guardiamo alle
notizie del tempo, le stesse cui Melville poteva attingere. Sappiamo che i
capodogli stavano reagendo a decenni di caccia intensa diventando più
aggressivi, attaccando lance e addirittura navi. Sappiamo che l’idea del
racconto viene anche dalla notizia dell’abbattimento di un’enorme balena che
aveva terrorizzato i marinai. Sappiamo altresì che uno dei capodogli più
minacciosi era albino e aveva un nomignolo, Mocha Dick: «un vecchio maschio, di
mole e forza prodigiose» (J. Reynolds, articolo del 1839) avvistato più volte
di fronte all’isola cilena di Mocha, che si diceva avesse ucciso più di trenta
uomini. Quindi, per quanto attiene al nome, conviene prenderlo per quel che è:
un nome leggermente modificato, e nulla più.
Da notare invece c’è un’altra cosa. Melville, nel
riferirsi alle balene, spesso usa il termine «leviatano». Non è il primo a
farlo, né l’ultimo (Philip Hoare, nel 2009, ha titolato Leviatano, ovvero la balena un saggio di grande successo). Ma il
punto è un altro. A partire dal 1651 – esattamente duecento anni prima la
pubblicazione di Moby Dick – il
termine Leviatano indica anche lo
Stato hobbesiano. Thomas Hobbes e Melville prendono spunto da libro di Giobbe dove Dio, parlando dalla
procella, ricorda di aver creato due mostri, Behemoth e Leviathan. E sebbene
non sia per nulla pacifico di quali animali si tratterebbe – alcuni individuano
il leviatano nel coccodrillo, altri nella balena – ciò che interessa è che di
esso si dice: «fu fatto per non temer nessuno», «è re su tutti i figli di
fierezza».
Ora, in Hobbes, la grandezza del Leviatano sta nel
fatto di essere una costruzione artificiale, un prodotto degli uomini. Non così
per Melville. Il suo utilizzo è un ritorno al passato, alla radice etimologica
del termine cetaceo, la quale deriva dal greco kétos: mostro marino, o balena. E la differenza non è di poco
conto: se Melville, come Hobbes, insiste sugli attributi di potenza e di superiorità,
resta che per lui il leviatano è una creatura di Dio, non degli uomini. Per
questo la caccia di Achab appare blasfema – un agire che è un oltraggio a Dio –
come nota in più luoghi il primo ufficiale Starbuck.
Eccoci giunti all’equipaggio del «Pequod», alla
sua articolazione piramidale.
Sopra tutti, nella gerarchia navale, stanno Achab
e i tre ufficiali. Sono tutti americani, perché provengono, se non da
Nantucket, quantomeno da Capo Cod.
Tra loro e la ciurma ci sono i ramponieri che, in
una baleniera americana, sono considerati alla stregua di sotto ufficiali:
dormono infatti a poppa, vicino alla cabina del capitano. Chi sono costoro? Quiqueg,
il polinesiano tutto tatuato con cui Ismaele, si è detto, ha stretto amicizia; Tashtego,
un indiano di razza, «dalla capigliatura lunga e sottile», erede dei guerrieri
«cacciatori della grande Alce»; Deggu, «un gigantesco negro selvaggio, nero
come il carbone, con un passo leonino» (p. 151).
Tutti pagani e, in quanto pagani, strumenti eletti
per lo scellerato disegno di Achab. Difatti è a loro che si rivolge quando il
fabbro finisce di forgiare la lama arroventata con cui il capitano si illude di
abbattere Moby Dick. Per terminare il lavoro, il fabbro chiede una botte
d’acqua. Ma Achab ha in mente ben altro. Chiede il loro sangue, un sangue
pagano. E il senso di sfida, di oltraggio, risuona ancor più terribile nella
formula che suggella lo strano rito:
«Ego
non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli!»
urlò
Achab smaniando, mentre il maligno ferro divorava sfrigolando il sangue
battesimale. (p. 509)
Quanto al resto dell’equipaggio, la ciurma, è
variegatissimo. C’è un punto del racconto in cui i marinari intonano un coro e,
come in una sequenza cinematografica, sfilano uno ad uno di fronte al lettore. L’autore
non ne dice il nome, ma da dove provengono: da Nantucket, certo, e poi dalla
Francia, dall’Islanda, dalla Sicilia, da Malta e dalle Azzorre, dalla Cina e da
Tahiti, dal Portogallo, dalla Danimarca, dall’Inghilterra, da San Jago e da
Belfast… La ciurma, insomma, è un guazzabuglio di pagani e cristiani,
un’accozzaglia di «rinnegati e reietti» – sono termini di Melville – molti dei
quali portano a bordo del «Pequod» storie di dolore, di abbrutimento fisico e
morale.
Ma non importa. Ciò che è certo è che le simpatie
di Melville vanno proprio a tutti loro, come manifesta Starbuck, mentre medita
sulla grandezza dell’Uomo, sulla sua meravigliosa dignità:
Ma
questa augusta dignità di cui parlo non è la dignità dei re e degli
abbigliamenti … [è] quella democratica dignità che, su tutti, irradia senza
fine da Dio, da Lui! Il grande Dio assoluto!
Il centro e la circonferenza di ogni democrazia! (p. 147)
Una tale celebrazione della democrazia – americana, ovviamente – ci
porta dritto alle idee politiche dell’autore e, ancor prima, alla domanda che
finora volutamente ho eluso. Perché Melville ha racchiuso la storia del
«Pequod» in un trattato a tutto tondo sulla balena? Quale progetto vi è dietro?
E ancor prima, chi era Melville?
Nasce a Manhattan, Herman Melville, nel 1819. Ed è figlio di un ricco
commerciante e di un’austera calvinista. I nonni avevano combattuto per
l’indipendenza del suo paese: uno, come generale, l’altro prendendo parte al Tea Boston Party. Il padre gli parlava
dei lunghi viaggi in mare, delle tempeste, delle balene. Questo per dire che
patriottismo, spirito di ribellione, amore per il mare scorrono da subito nelle
sue vene. La morte del padre e i problemi economici lo costringono a cercarsi
un lavoro. Prova senza successo a impiegarsi, poi s’imbarca; prima su un
mercantile, poi su navi baleniere, con tanto di una parentesi sulle isole
Marchesi in mezzo al Pacifico, tra popolazioni cannibali.
La storia di Ismaele, per molti aspetti, ricalca perfettamente la
biografia dell’autore. Per cultura e posizione sociale Melville avrebbe potuto
aspirare a un posto da sottoufficiale. Invece sceglie di imbarcarsi come
marinaio semplice: «per via del sano esercizio e dell’aria pura che si gode sul
ponte di prora» spiega Ismaele, mentre «il commodoro sul cassero», che crede di
essere più importante, «riceve di seconda mano l’aria dai marinai del
castello». (p. 41).
Dopo anni di navigazione rientra nel New England per dedicarsi alla scrittura.
Lo può fare perché sposa una ragazza di buona famiglia, non certo grazie al suo
lavoro: mentre i primi racconti conoscono un qualche successo, Moby Dick sarà un grande fiasco. E se
oggi quest’opera è considerata uno dei capolavori dell’Ottocento lo si deve a
una riscoperta tardiva, non prima degli anni Venti del Novecento.
Ribelle, patriota, viaggiatore, Melville è anche un autore ambizioso e
allo stesso tempo pratico. Moby Dick è senz’altro la trasposizione letteraria di un’esperienza personale, ma è
anche frutto del progetto di scrivere un libro commerciale, un libro che si
potesse vendere bene. E non è un caso che l’idea gli sia venuta durante un
triste soggiorno londinese, alla disperata ricerca di un editore. Pare che
tutt’a un tratto abbia avuto l’ispirazione: dopo tanti «no, grazie», il suo
prossimo lavoro avrebbe spiazzato il mercato celebrando lo spirito americano,
l’avventura, il piglio eroico dei suoi connazionali. E quale miglior soggetto
della lotta contro i titani del mare che proprio gli abitanti di Capo Cod
avevano perfezionato?
Ma i piani spesso vanno rifatti da
capo se il destino s’intromette. Quando il libro è quasi terminato, ecco
l’incontro con Nathaniel Hawthorne, divenuto celebre grazie al successo di La lettera scarlatta (1850). L’effetto è
esplosivo: quella che avrebbe dovuto essere una «descrizione romantica,
immaginaria, piana e di facile lettura della caccia alla balena», secondo le
parole dell’autore, si trasforma in Moby
Dick: opera terribile e maledetta.
Melville si ributta dunque a
capofitto nel lavoro, divora libri su libri: ai più recenti trattati di
cetologia affianca la rilettura delle opere di Shakespeare, cioè la morale e la
politica, i saggi di Ralph W. Emerson sulla natura come luogo di rivelazione
del soprannaturale, Frankestein di Mary
Schelly, come dire l’orrore, i racconti di Thomas Carlyle imbevuti di sogni e
possessioni demoniache … e molti altri ancora.
Mostri, angosce, demoni, morale e
politica finiscono nello stesso
calderone: interrompono, allargano, in ogni modo stravolgono il progetto
originale. E tutti quanti precipitano nella redazione finale. Che così
diventa il contenitore di molte cose, dove ciascuno può appuntare lo sguardo
dove meglio crede. Anche per questo le interpretazioni fioccano.
Per
alcuni la dissennata caccia del capitano Achab assume i tratti di un dramma in
cui l’uomo, nel folle tentativo di trascendere i propri limiti, ingaggia una
lotta contro il soprannaturale e condanna se stesso e i suoi seguaci alla
morte.
Per
altri è l’epopea di un popolo multienico, dilaniato dal problema dello
schiavismo (quanti passi su questo tema nell’opera …) e proiettato nella
seconda rivoluzione industriale. Quando Moby
Dick esce, nel 1851, la lucrosissima industria baleniera è ai suoi massimi
splendori (tra breve arriverà il declino, ma nessuno può saperlo), ma con la
scoperta dei giacimenti californiani è già scoppiata la febbre dell’oro: il
paese, lo si sente, naviga verso nuove espansioni economiche e demografiche
Per
altri, al contrario, l’estenuante
lavoro sul «Pequod» – una baleniera è una fucina che non si ferma mai – altro
non sarebbe che l’anticipazione della fabbbrica fordista, delle sue molteplici
alienazioni.
E
ancora: secondo alcuni il cuore del romanzo sarebbe lo scontro tra Achab e la
balena (Dio o diavolo? L’orrore o il sublime?), per altri tra Achab e Starbuck (la
follia contro la ragione), per altri ancora tra Achab e la ciurma. Ma qui
fermo, perché è alla questione politica che mi preme tornare.
C’è anche chi, nel «Pequod», ha visto la metafora dello Stato. Gli
antecedenti di certo non mancano; la metafora nave Stato è presente fin da
Platone, se non addirittura da prima, ed è stata ripresa infinite volte. Se non
che, solitamente, essa simboleggia il valore del capitano, serve cioè per
mettere in risalto la figura di colui che governa la nave.
Il movimento di Melville è diverso (per lo meno in questo lavoro, perché
altra cosa sono Benito Cereno e Billy Budd, due racconti tardivi). Moby Dick mostra i pericoli che si
corrono quando alla guida c’è un cattivo capitano. Cattivo non perché gli
manchino le competenze … Anzi! il vecchio Achab è un grande capitano, «è fuori
del comune» ed «è abituato a cose meravigliose più profonde del mare» (p. 114).
Ma è ossessionato dalla balena bianca e questo gli ha fatto perdere di vista
l’obiettivo originario dell’impresa – obiettivo tipicamente americano,
aggiungo: arricchirsi tutti, anche se in proporzioni diverse.
Sul piano politico, c’è dunque che Achab – il capitano dispotico – affascina.
Mentre scorrono fiumi di grog, stringe l’intero equipaggio al giuramento:
tutti, nessuno escluso, daranno la caccia alla balena maledetta. E se neppure il giusto, il retto Starbuck
è capace di sottrarsi al voto blasfemo, né poi di fermare il suo capitano, è
perché anche lui in fin dei conti non sa resistere alle seduzioni del potere.
C’è un monologo lancinante, a questo proposito, che si compendia nell’ossimoro:
«ubbidire ribellandomi» (p. 200). Così la tragedia finale non potrà essere
evitata, nonostante una serie inequivocabile di profezie e di presagi.
Con l’immagine del cattivo capitano, insomma, Melville sembra voler
mettere in guardia la giovane e impetuosa democrazia americana additandole il
pericolo, sempre in agguato, del tiranno. Ma i tratti di questi diversi modelli
politici il lettore deve andare a cercarli là dove meno se li aspetta: … a
tavola!
Quale contrasto tra il pranzo degli ufficiali e il pranzo dei
ramponieri! Il primo si svolge
all’insegna di un terrore reverenziale ed è scandito da regole non dette, ma
non per questo meno rigorose. L’altro, che si tiene a ruota nello stesso luogo,
la cabina, è tutta un’altra storia.
Con l’intollerabile imbarazzo e con le invisibili
tirannie senza nome della tavola del capitano facevano bizzarro contrasto
l’assoluta, spensierata licenza e facilità e la democrazia quasi folle di
questi tipi inferiori che erano i ramponieri. Mentre i loro padroni, gli
ufficiali, parevano temere il rumore dei cardini delle proprie mascelle, i
ramponieri masticavano il cibo con tanto gusto che se ne sentiva l’eco. (pp.
181-2)
È una pagina, tra le tante, che andrebbe gustata nella sua interezza. Ma
questo schizzo sulla democrazia gaudente, sulla «assoluta, spensierata licenza» (che non sfugga la parola: è
proprio questa la democrazia che Platone stigmatizzava) basta già per
pungolarci con un interrogativo: come se soltanto ai pagani sarà dato di godere
di quel frutto che Rousseau, ricordiamolo, considerava riservato agli dei. Ma
la domanda ci porterebbe lontano, mentre è tempo di chiudere.
Lo farò riallacciandomi a due tipologie di viaggio proposte, in un precedente
incontro, da Francesco Parasole.
Quello di Achab mi sembra un
viaggio abramitico, senza ritorno, non perché Achab se ne infischi del ritorno,
anche lui ha una moglie e un figlio ad aspettarlo … Ma il suo, prima di tutto,
è un viaggio-assedio, un viaggio-vendetta. E Starbuck glielo grida in faccia:
«Iddio, Iddio è contro di te, vecchio; lascia! È un viaggio del male!» (p.
525).
Quello del «Pequod» mi suona
come un viaggio ulisseo: anche in considerazione della tecnica, del saper fare
di ogni nave baleniera, e non solo per il desiderio di tornare alla cara
Nantucket, proprio «là dove crescono» le ciliegie (p. 585). Tuttavia, proprio
perché incapace di ribellarsi – tradotto sul piano politico, perché incapace di
difendere la democrazia – l’equipaggio sarà inghiottito dall’oceano, ad
eccezione del solo Ismaele.
Quello di Moby Dick, invece, non è un viaggio, per lo meno non è un
viaggio con o senza ritorno. Lo studio del comportamento dei cetacei è
piuttosto recente: solo da pochi anni sappiamo che il capodoglio percorrere
decine di migliaia di chilometri ogni anno e non per ragioni riproduttive o
nutritive. Viaggiare è nella sua essenza, è la sua stessa natura.
Così, quale incanto la chiusa del libro … E non alludo a Ismaele, raccolto dopo un
giorno e una notte dalla pietosa «Rachele».
Voglio piuttosto pensare che Moby Dick, benché arpionata e ferita, sia
tornata a viaggiare: a inabissarsi per poi riemergere, a soffiare e a saltare,
a muovere l’enorme coda esibendo su tutti gli oceani la sua leviatanica
potenza.