La
voce del mare, ovvero io e le balene
La terra e il mare: due entità fisiche percepite in modo nettamente
diverso dalla maggior parte degli esseri umani. La prima è qualcosa
di tattile, di investigabile, di manipolabile. Ha anch’essa lati
oscuri, misteriosi, a volte terribili e a volte affascinanti, ma è
lì a portata di mano (e di piede). In altre parole, è il nostro
mondo, parla la nostra lingua (o almeno così crediamo).
Il mare no. Esso non sembra voler comunicare con noi. Sia che si
presenti con un confine distensivo e tranquillo, sia che si mostri
con la rabbia delle sue onde, esso è un “diverso”, sempre
impenetrabile e incomprensibile. Sì, possiamo anche immergerci e
vedere cosa contiene. Possiamo, anche studiarlo attraverso svariate
tecnologie, ma rimane qualcosa di estraneo, di alieno. Non
esistono parole tra di noi o -quanto meno- parliamo due linguaggi
troppo distanti tra loro. Questa è la prima impressione che mi
colpisce quando mi affaccio da un’altura verso il mare. Una gran
voglia di conoscere e di interagire, ma un senso di frustrazione nel
non esserne capace.
Almeno, queste erano le mie sensazioni fino al recente viaggio alle
Hawaii. Adesso tutto è cambiato. La voce del mare è risultata
improvvisamente udibile e comprensibile in tutte le sue sfumature. Vi
racconto com’è successo.
Isola di Maui, temperatura del mare estremamente piacevole,
profondità non troppo elevata. Un luogo perfetto perché i giganti
del mare possano mettere alla luce i loro piccoli. Vale la pena
percorrere migliaia di chilometri dall’Alaska per approdare in
una “nursery” di
livello eccezionale. Come dargli torto? Anche noi cerchiamo di fare
lo stesso per i nostri neonati.
I giganti del mare, le balene, enormi creature che potrebbero
comunque nascondersi tranquillamente al di sotto di quel confine
invalicabile di cui dicevo prima. Basta un attimo per respirare e
tornare nel mondo dell’incognito e del mistero. E invece non lo
fanno. Le balene vogliono comunicare con la terra e usano tutti i
sistemi di cui sono capaci. Per loro quel confine è superabile
e leggero. In fondo, basterebbe immergere un dispositivo acustico per
sentire il loro canto dolce e variegato, che ci racconta di
avventure, di speranze e di drammi. Ma non lo capiremmo comunque e il
loro mondo resterebbe nascosto e inviolabile. Hanno, perciò, scelto
di apparire direttamente agli abitanti della Terra e di farlo con una
costanza e una passione che noi non riusciremmo mai a possedere.
Mi sono fermato per pochi minuti su un promontorio a guardare quella
distesa liquida che sentivo ancora lontana e insuperabile. Bella,
limpida, colorata, ma invalicabile. Improvvisamente, il mare ha
parlato e si è fatto capire. Uno sbuffo altissimo, poi un altro. Una
coda che si erge dritta contro il cielo blu e che percuote le onde.
Un gesto ripetuto con accanimento. “Allora… mi stai sentendo? Io
sono il mare e cerco di parlarti!”. E’ un caso, un momento
irripetibile che non fa storia. Il confine torna alla sua anormale
normalità. No, ecco un altro sbuffo e questa volta un dorso enorme e
arcuato sembra uscire ed entrare al rallentatore. Non è solo, però.
Insieme a quello più grande ve ne è uno più piccolo che cerca di
seguire gli insegnamenti. Sì, è un cucciolo che sta imparando dalla
mamma. E continuano a volteggiare per lunghi minuti.
La coda dell’occhio, però, nota altri sbuffi a destra e poi a
sinistra. Alcuni lontani, altri vicinissimi. La testa mi sta girando.
No, non posso sbagliarmi: il mare mi sta parlando attraverso i suoi
giganti. Comincio a capire e mi accorgo che sto sorridendo. Poi
entrano in scena i maschi, un po’ prepotenti e sempre desiderosi di
mettersi in mostra anche se il tempo degli amori è ancora lontano.
Forse vogliono insegnare ai piccoli qualcosa che non siano solo le
tecniche base di movimento e di sopravvivenza. Ogni tanto fanno
uscire solo una pinna, altissima come una torre. A volte solo
l’enorme testa che sembra scrutare curiosa la superficie del mare o
forse la terra lontana. Non posso sbagliarmi: sto assistendo a uno
spettacolo che il mare mi sta regalando attraverso i suoi attori più
importanti e prestigiosi.
Penso con disgusto e con
compassione agli spettacoli artefatti che si vedono negli acquari.
Com’è stupido l’uomo e come la sua ignoranza riesce facilmente a
trasformarsi in cattiveria. Scaccio quel pensiero e torno agli amici
del mare.
Comincio a riconoscere i vari ruoli e le varie scene che hanno
preparato. Mi accorgo che spesso dove penso di vedere una sola
creatura ve ne sono invece tre, quattro o anche più. Sembrano
scandire le loro parti in modo da regalarmi un colloquio continuo.
Poi un primo colpo di fortuna. Una mamma (è sicuramente lei) spinge
fuori dall’acqua il suo erede e lo lascia ricadere in modo
abbastanza rovinoso. Deve imparare anche a saltare. Qualsiasi dubbio
mi lascia. Il salto non è legato a nessun bisogno fisiologico delle
balene (dicono di sì, ma sono solo le solite invenzioni umane
costruite per sentirci superiori). E’ un gesto di gioia, di
allegria, di partecipazione e di comunicazione. Se viene insegnato ai
piccoli, vuol dire che deve far parte del repertorio degli adulti. Ne
ho sentito parlare, ne ho visto anche delle foto. Ma tutt’altra
cosa è assistervi direttamente in un colloquio diretto, a tu per tu.
Scruto il mare che ormai mi sta chiamando da molte direzioni.
Trascuro molti messaggi aspettando l’urlo liberatorio. Finalmente
arriva e sento una stretta nel petto. Incredibile! Una creatura di
venti metri di lunghezza esce completamente dall’acqua e compie un
salto arcuato e nettissimo. Sta facendo il “ponte”, l’esercizio
più entusiasmante e sicuramente “inutile” da un punto di vista
logico e fisico.
Non posso che considerarlo come un grido lanciato verso di me e mi
accorgo che ho risposto con un “Evviva” o -forse – con un
“Bravo”. Sembra che mi abbia sentito e lo ripete tre, quattro,
cinque volte in una sequenza che lascia di sasso. E ogni volta, nella
ricaduta, l’urto con l’acqua è un rumore, anzi un suono, che non
ha confini. Guardo l’orologio. E’ passata meno di mezz’ora e
sto parlando con il mare. Tra di noi tutto è cambiato, grazie alle
balene e alla loro rappresentazione sempre uguale e sempre diversa.
Potrò mai ringraziarle abbastanza?

La
ricerca dell’Uomo
L’Uomo
si era messo in cammino alla ricerca di quello che voleva, ma che non
conosceva. Non aveva fretta, perché la fretta nasconde sempre la
verità. Incontrò per primo un fiore dai mille petali e ogni
petalo aveva un colore diverso. “Guardami Uomo. Non vedi come sono
bello? In me puoi scoprire tutte le sfumature dell’eleganza,
dell’armonia, della fantasia. Come puoi sperare di trovare qualcosa
di più attraente e seducente?” L’Uomo lo guardò a lungo,
pensieroso. Pianse anche per il suo meraviglio aspetto, ma non era
abbastanza. La troppa bellezza può essere fredda e quel fiore
penetrò nel suo cuore come una lama d’acciaio. Senza una
parola si allontanò e continuò il suo cammino.
Davanti
ai suoi occhi persi nel vuoto, apparve una farfalla. Aveva
colori altrettanto splendidi, ma una leggerezza e una grazia
stupefacenti. “Guardami Uomo. Non vedi come sono tenera, dolce,
indifesa? La mia bellezza dura un attimo, ma chi sa coglierlo non
potrà ammirare niente di più struggente. Approfitta e sarai
felice”. L’Uomo ne fu scosso nel profondo. Non era solo bella, ma
colpiva il cuore come una lama rovente. No, non bastava. Un
soffio passeggero non riusciva a saziarlo. La commozione è un
sentimento troppo breve. Continuò a vagare.
Un
filo d’erba smeraldino gli bloccò il passo. “Guardami
Uomo. Non sono bello, ma vivo di umiltà e semplicità. Non ho niente
da offrire tranne che la mia esistenza, ma cosa c’è di meglio?”
L’Uomo ne fu colpito e lo accarezzò dolcemente. Una lama di
purezza trafisse il suo cuore. Subì un lungo torpore di
tenerezza e comprensione. La genuinità gli ricordava quello che
stava cercando, ma che non conosceva. Tuttavia, voleva di più; non
gli bastava un’estasi passiva e statica. Riprese il cammino.
Incontrò
una roccia scura come la notte. “Guardami Uomo. Non
m’interessa né la potenza, né la ricchezza, né la saggezza. Sono
qui per te. Plasmami, tagliami, deformami, sono nelle tue mani.
Dentro di me ho immagazzinato tutto ciò che è accaduto. Sta solo a
te scoprirlo e farlo rivivere”. L’Uomo sentì un fremito. Una
lama di orgoglio gli ingigantì il cuore. Era libero di fare,
di agire, di creare. Ma sarebbe stato solo e questo non lo voleva. Il
suo passo lo portò lontano.
Sul
sentiero apparve un drago. Immenso e maestoso, esclamò:
“Fermati Uomo. Ti dono tutta la mia potenza. Ti accompagnerò e ti
difenderò contro tutti e tutto. Io non temo nessuno. Sono
invincibile”. L’uomo lo guardò negli occhi infuocati. Una lama
di sicurezza calmò il suo cuore. Ma lui doveva lottare,
rischiare, vincere con le sue sole forze. Si mosse e non si voltò
più indietro.
A
terra scorse un frutto magnifico, enorme e profumato.
“Assaggiami Uomo e ne sarai rapito. Riesco a trasmettere tutti i
gusti più raffinati. Devi solo cogliermi e ne sarai incantato”.
L’uomo addentò quella meraviglia. Stupendo. Tutte le sfumature del
dolce penetravano come una lama succulenta nei suoi sensi, ma
non colpivano il cuore. Riprese il cammino, pensando alle esperienze
di quel giorno, di quella vita, di quella era.
Aveva
conosciuto la bellezza, l’amore, la tenerezza,
la potenza, la delicatezza, l’orgoglio, la
sudditanza. Vivevano però isolati. No, l’Uomo cercava
altro, quello che voleva, ma non conosceva. E non l’aveva ancora
trovato.
Mentre
la sua mente vagava come il suo passo, sentì un fruscio. Alzò gli
occhi e vide quel tronco contorto, stanco e deforme. Vi era
potenza, saggezza, ma anche tenacia e umiltà. Non nascondeva i suoi
anni e le sue sofferenze. Poi vide anche le foglie. Piccole, chiare,
di una bellezza semplice e disarmante. Erano discrete e appena
accennate. Dimostravano che non vi era bisogno di dare più del
necessario. Non esibivano niente, facevano solo il loro lavoro. Poi
vide i frutti. Anch’essi erano minuti. I loro colori li
mimetizzavano tra le foglie. Non ostentavano grandezza e bellezza, ma
sapevano molto bene qual era il loro compito.
L’albero
non parlò, né le sue foglie, né i suoi frutti. Fu l’Uomo a
parlare. “Guardami albero. Tu non vuoi dimostrare niente, ma hai
grande saggezza. Le tue foglie sono misere, ma ti fanno sembrare un
mare increspato dalle onde. I tuoi frutti si nascondono, timidi, ma
recepiscono ogni vibrazione della Natura. Tu sai tutto, hai tutto, ma
non chiedi e non offri niente. Non hai bisogno di me, ma mi hai
attratto con violenza. Una lama di completezza mi ha trafitto
il cuore e la mente. Non posso lasciarti. Insegnami qualcosa!”
L’albero
non rispose, ma un piccolo frutto cadde nella mano dell’Uomo. Gli
venne spontaneo schiacciarlo e ne uscì l’anima dell’albero,
della Natura, dell’Universo. Il suo pianto era luminoso come la
luce delle stelle, il suo colore non aveva confini. L’Uomo lo portò
alla bocca e quella lacrima non fu una lama, ma gli cambiò il cuore
e la mente. In una goccia aveva trovato quello che voleva, ma non
conosceva. E avrebbe dovuto lavorare duro, senza sosta per
comprendere e assimilare ciò che non gli era stato offerto, ma che
non poteva più lasciare. L’Uomo si fermò e iniziò la sua
impresa.
Solo
di notte e con la Luna Piena scorse ogni tanto un sorriso in quel
tronco contorto e stanco, mentre le foglie intonavano il loro canto
senza inizio e senza fine.
Una
foglia nel vento
Uli
e Iva erano due simpatiche e giovani olive nate in Marocco. Sapevano
già benissimo quale sarebbe stata la loro fine: schiacciate insieme
a tante sorelle fino a diventare olio. L’olio è sempre e comunque
una grande meraviglia, ma nel loro paese la grande qualità rimaneva
una chimera. Era sempre stato così, eppure Uli e Iva non volevano
accettare la realtà dei fatti. Desideravano ardentemente provare
qualcosa di nuovo, conoscere amici lontani, sapere tutto dei compagni
di altre razze e paesi. Il loro colore non lasciava dubbi, ma avevano
sentito dire che non esistevano problemi razziali nelle altre nazioni
del mondo. Un po’ ovunque c’erano olive di tinte diverse, che
convivevano senza nessun pregiudizio di sorta.
Come
avrebbero voluto essere nate da alberi dai nomi celebri e importanti,
la cui fama era giunta fino a loro per il nettare sopraffino che
sapevano produrre. Molte volte, nel riposo notturno, avevano entrambe
la stessa visione, ma si svegliano tristi e deluse quando la brezza
del mattino le faceva vibrare. Era stato solo un sogno, e la varietà
del loro albero, benché benevolo e gentile, era pur sempre una
Picholine Marocaine, Zit per gli amici, la stessa che
si trovava ovunque in Marocco. In mezzo a quel turbinio di emozioni,
speranze e delusioni, le due amiche stavano pian piano “maturando”:
se volevano fare qualcosa, dovevano farlo subito! Non sarebbero
passati molti mesi prima del fatidico momento della raccolta.
La
fortuna venne loro incontro. Quel giorno si era sollevato un vento
fortissimo che faceva inchinare perfino il vecchio e contorto
genitore. Uli e Iva danzavano e dondolavano, dandosi colpi e
faticando perfino a mantenere l’orientamento. Proprio allora ebbero
l’idea: invece di cercare di stare ancorate al ramo che le
proteggeva, iniziarono ad assecondare il turbinio del vento. Dettero
esse stesse strattoni nella direzione in cui soffiava, fino a sentir
cedere la presa. L’albero le ammoniva e le sgridava, ma Uli e Iva
non lo sentivano più, perse nel loro folle sogno. Alla fine furono
libere e caddero al suolo, rotolando giù per la piccola collina e
fermandosi vicino a dei grossi cespi di datteri accumulati sotto le
alte palme. Ormai quello che era fatto era fatto e non potevano più
tornare indietro. Non c’era tempo per pentirsi della pazzia che
avevano compiuto e che le aveva trascinate verso il mistero e
probabilmente verso una fine miserabile. Calpestate e schiacciate
prima che potessero regalare il loro prezioso succo.
Si
guardarono intorno e chiesero aiuto al cespo più vicino. Furono
nuovamente fortunate. Era buono e gentile e con gran fatica riuscì a
rotolare coprendole con la sua famiglia di frutti, fino a nasconderle
nel suo interno. Appena in tempo. Pochi secondi dopo i datteri, ed
esse con loro, furono gettati in una cassa. Poi caricati su un camion
e infine su una nave in partenza per la Sicilia. La Sicilia,
l’Italia, la patria del grande olio! Sembrava un sogno, ma questa
volta era realtà. E proprio dall’isola del grande vulcano
sbuffante iniziò il loro viaggio. Furono
scaricate nel porto di Trapani e rotolarono fuori dall’amico cespo,
dopo averlo ringraziato a lungo, augurandogli una buona fortuna. Ora
dovevano agire da sole.
Si,
ma come? Uli e Iva erano sveglie e intelligenti e, guardandosi
attorno, pensarono a tutte le possibili soluzioni. Alla fine la loro
attenzione venne catturata da un albero gigantesco e dalle sue grandi
foglie che cadevano a terra veleggiando, trasportate da un debole
venticello. Erano così grandi e ampie che bastava un soffio d’aria
per farle sollevare e portarle anche molto lontano. Valeva la pena
tentare. Riuscirono a raggiungerne una che sembrava particolarmente
vivace e capiente e la interrogarono: “Vuoi portarci con te in giro
per l’Italia? Ti faremo conoscere posti meravigliosi e boschi e
pianure e tanti alberi grandi e contorti … sarà magnifico.” La
foglia pensò a lungo, guardò l’albero da cui era caduta
prematuramente e infine rispose: “Perché no! Ormai sono stata
abbandonata e finirei schiacciata o nelle pagine di qualche quaderno.
Sono con voi. Salite e partiamo!”. Dovettero aspettare solo pochi
minuti e poi un soffio più impetuoso sollevò le tre amiche a
parecchi metri d’altezza. Il viaggio era cominciato e le due olive
si misero al posto di comando per dirigere il simpatico mezzo di
trasporto verso la direzione voluta.
La
prima tappa fu molto vicina. Toccarono terra nei pressi di una
bellissima montagna che dominava il mare e che era incoronata da una
splendida antica città: Erice.
Erano circondate
da ulivi, e si sentivano timorose e imbarazzate al cospetto di alberi
tanto famosi. Alla loro destra riconobbero una coltivazione di
Cerasuola,
a sinistra di Nocellara
e poco più in là di Biancolilla.
Che meraviglia! Si sentivano molto importanti anche loro tra tante
celebrità. Trovarono il coraggio e chiesero informazioni alle nobili
compagne che pendevano dai rami. Queste dimostrarono grande
cordialità e non si fecero pregare. Impararono così che uno dei
grandi pregi delle olive, di qualsiasi albero esse siano, è quello
di essere estroverse, amichevoli, pronte a unirsi con sorelle di
razza diversa.
Seppero
anche che l’olio di quelle parti era forte, austero, maschio come
il gigantesco vulcano che dominava l’isola. Il sapore era intenso,
piccante e duraturo. L’amica foglia cominciava a scalpitare per
l’impazienza e le due olive decisero che era tempo di ripartire.
Salutarono con enfasi le nuove compagne e si sistemarono sul loro
velivolo. Che bell’incontro avevano avuto e che simpatiche le nuove
amiche! Ma non era il posto per fermarsi. Dovevano imparare ancora
troppe cose e vedere molte altre zone. Il vento, proveniente dal
mare, le sollevò in fretta ed esse sorvolarono tutta l’isola, con
i suoi tesori di arte, storia e cultura. Non avevano tempo di
visitare altri uliveti, ma li videro chiaramente dall’alto.
Giunsero
in terraferma e scesero nei pressi dell’antica città di Lamezia.
Altri ulivi, altre amiche, altri oli. I loro sapori erano molto
fruttati, il colore verde intenso, il sapore delicato. Quasi tutti
gli alberi appartenevano alla varietà Cariolea, di origine
vetusta. Proseguirono verso nord, ben sapendo che avrebbero perso
qualcosa, ma in quella terra così ricca non si poteva conoscere
tutto. Dovunque guardassero, vedevano uliveti e sentivano le loro
compagne che scuotendo le foglie le salutavano con un intenso fruscio
portato dal vento. Dall’alto videro la Puglia, e scorsero decine e
decine di chilometri di vecchissimi ulivi contorti con le braccia
scheletriche protese verso il cielo. Enormi distese di alberi i cui
nomi gli giungevano da lontano: Cellina, Ogliarola,
Coratina, Peranzana, Garganica, e altri ancora.
Impossibile ricordarli tutti. Benché in preda ad una smania
indicibile di conoscenza, non potevano fermarsi a loro piacimento,
vincolate com’erano alla direzione e alla forza del vento. Furono
trascinate verso una regione ricca di vulcani antichi e recenti: la
Campania.
La
foglia doveva riposarsi un poco e loro stesse avevano voglia di
scambiare nuove impressioni e conoscere nuove varietà. Videro una
piccola isola che sembrava una gemma incastonata nel turchese.
Manovrando con destrezza, riuscirono a raggiungerla. Che meraviglia
le rocce che cadevano in mare e gli ulivi che si aggrappavano un po’
ovunque. Pensarono alla fortuna di quelle compagne che ogni tanto
potevano tuffarsi direttamente in quelle acque così trasparenti.
Conobbero la Minucciola e la Rotondella. Il loro olio
variava dal verde al giallo paglierino, il fruttato del profumo si
trasformava in un sapore leggermente piccante e amarognolo. L’origine
vulcanica di quella terra si rispecchiava nel carattere delle olive.
Erano estroverse, allegre, infuocate nei discorsi. Sembravano esse
stesse sprizzare ancora fuoco e fiamme.
Uli
e Iva si accorsero con sorpresa e con grande piacere che il loro
viaggio era ormai noto alle nuove amiche. La voce si era sparsa,
andando di fronda in fronda, di albero in albero, di uliveto in
uliveto. E il vento trasportava velocemente l’informazione.
Dovunque fossero andate, d’ora in poi, le avrebbero aspettate con
gioia e allegria. Lasciarono con tristezza quell’isola fantastica e
quei colori da favola. Malgrado fossero giunte in una specie di
paradiso terrestre, sentivano che non dovevano e non potevano
fermarsi. La strada era ancora lunga.
Il
vento non mancava e in breve lasciarono la Campania e passarono sopra
una città meravigliosa, la capitale di quella nazione così ricca di
ulivi celebri e antichi. Roma si estendeva sotto di loro, con
i suoi monumenti e il suo placido fiume che la tagliava in due senza
recarle alcun dolore. Anche in quella nuova terra gli ulivi non
mancavano e le due amiche non poterono non fermarsi vicino alle
antiche tombe degli Etruschi. Sembrava di respirare un’aria
arcaica. La natura stessa pareva stanca di anni, secoli e millenni di
cultura, storia e civiltà. I colori erano quelli di un continuo
tramonto e la pace regnava sovrana. Le piccole città sorgevano su
baluardi di roccia tufacea e le case facevano un tutt’uno con le
pareti verticali modellate dalla paziente opera della Natura.
Fu
una pianta in particolare che le colpì: era enorme e antica, ma
ancora vigorosa e bellissima. Quando furono vicine apparve ancora più
gigantesca: un vero capolavoro. Le sue olive dal portamento austero e
solenne, parlavano con saggezza e dignità. C’era chi diceva che il
grande vecchio avesse forse visto da fanciullo gli antichi re romani.
Probabilmente era solo una leggenda, ma di sicuro la sua età
superava i mille anni. Era veramente enorme. Nove metri di
circonferenza, eppure produceva ancora dodici quintali di frutti
all’anno. Lo chiamavano l’Ulivone nel pittoresco villaggio
di Canneto Sabino. Uli e Iva ebbero perfino paura di parlare
al più grande e vetusto ulivo dell’intero continente. Anche se
solo per quella visione il loro viaggio avventuroso aveva avuto uno
scopo. Ne era sicuramente valsa la pena.
Pensarono
per un attimo di fermarsi in quella terra così aspra e tranquilla,
ma era ancora presto e salutarono con deferenza il gigante verde.
L’Italia con i suoi ulivi scorreva sotto di loro. Videro bellissimi
laghi circolari e poi una montagna quasi perfetta nella sua forma a
cono. Sicuramente anche lì il fuoco sotterraneo aveva modellato e
sagomato la superficie. Planarono lentamente alle falde del vecchio
vulcano, ora addormentato e protetto da una coperta di fitte foreste.
Sebbene molto in alto, perfino in quel luogo sorgevano uliveti. Uli e
Iva ne furono sorprese e si fermarono. La loro curiosità fu presto
soddisfatta. Appartenevano alla varietà Seggianese ed erano
in grado di resistere con vigore ai freddi inverni del Monte
Amiata. Le olive erano un po’ rudi e di poche parole, ma
schiette e sincere. Sapevano di essere una piccola comunità rispetto
alle altre compagne toscane, ma non avevano sensi d’inferiorità.
Anzi, erano convinte di produrre uno dei migliori oli in assoluto,
dai tratti decisi e piccanti, senza mezze misure.
Uli
e Iva, abituate ai caldi africani, cominciarono ad avere freddo:
l’estate era già terminata. Chiedendo scusa, ripresero il volo.
Solo allora si accorsero che la loro amica foglia, così gentile e
disponibile, stava ingiallendo. Aveva cercato di nasconderlo alle due
olive, ma si vedeva che cominciava a soffrire. Volava a bassa quota e
ogni tanto eseguiva manovre non del tutto controllate. A Uli e Iva
spiacque molto e si sentirono in colpa: forse l’avevano stancata
troppo senza curarsi di lei, prese com’erano dai nuovi incontri che
le emozionavano a non finire. Ma la foglia, oltre che gentile, era
molto saggia e comunicò con serenità che quello era il suo destino.
Ancora pochi giorni e poi si sarebbe lentamente sgretolata. Aveva
comunque vissuto alla grande, visitando luoghi che mai da sola
avrebbe osato sfidare.
Uli
e Iva, profondamente commosse, consigliarono alla loro amica di
cercare di assecondare il vento il più possibile per risparmiare le
forze. Anzi, se voleva, erano disposte a fermarsi in qualsiasi punto
lei avesse desiderato: in fondo avevano scoperto il mondo grazie a
lei. Il rifiuto della foglia fu deciso e irrevocabile. Voleva andare
fino in fondo e consegnare le due amiche al territorio più idoneo.
Con malcelata fatica si rimise in volo e sorvolò il Chianti
con le sue vigne e i suoi ulivi radiosi. Improvvisamente, di fronte a
loro, si parò minacciosa una catena montuosa cupa ed altissima.
Erano gli Appennini tosco-emiliani che sfidavano, incuranti di tutto
e di tutti, i duemila metri. Niente da fare: per proseguire bisognava
valicarli, ma la battaglia era veramente senza speranza.
Piegarono
verso sinistra, in vista del mare, con manovre sempre più titubanti
e rischiose. Fu una dura lotta contro un vento impetuoso che faceva
scricchiolare la struttura della foglia, ormai di un colore tendente
al bruno. Uli e Iva non pensarono mai alla loro vita, ma solo a
quella della loro fedele compagna. La rincuorarono e la spronarono
nei momenti più difficili; la osannarono e l’acclamarono nei pochi
istanti di quiete. Alla fine, però, Il mare fu sotto di loro,
bloccato improvvisamente da cime acuminate come coltelli e bianche
come la neve. Sembrava che volessero trafiggere la foglia quasi con
rabbia. Ma era solo un’impressione, quelle montagne avevano
sofferto per secoli, subendo l’opera impietosa dell’uomo.
Profonde spaccature, profili levigati come specchi avevano scavato
ferite profonde che ne mettevano a nudo il loro cuore bianco e
lucente. Erano tristi nel loro splendore e sprigionavano un senso di
forza arcaica e mai sopita. La foglia era alla fine, dovevano
fermarsi assolutamente. Pazienza, non erano riuscite a completare la
loro splendida avventura, ma era comunque stata una magnifica
conquista.
Tra
la bruma del mattino, videro che una timida e popolata striscia di
pianura separava la calma del mare dalla rabbia dei monti.
Case, cemento, urla e frastuono. Peccato, non poteva esistere posto
peggiore per finire il viaggio. A mano a mano che scendevano in preda
alla disperazione e alla tristezza, li videro
ai bordi della grande macchia grigia di cemento che ricordava
un’ameba gigantesca che tutto ingoiava. Sembravano giganti
sconfitti e imprigionati. Titani in balia della sfrenata corsa senza
ragione dell’uomo. Ma ancora impavidi e vitali: non volevano e non
dovevano essere sconfitti.
La
foglia, ormai allo stremo, cominciò a cadere verso terra: non ce la
faceva più. Logora, stanca e scheletrita ebbe un mancamento e piombò
senza più forze, verso un quadratino verde. Un miraggio? Uno scherzo
dell’immaginazione? O Forse l’ultimo, disperato, regalo della
foglia? L’impatto non fu violento: Uli ed Iva ne uscirono sane e
salve. La loro amica, però, stava morendo.
Ridotta
a uno scheletro ramificato si stava disintegrando sotto la brezza che
soffiava soltanto in quel quadratino di paradiso. Il suo ultimo
sussurro fu un “grazie” diretto alle due olive. Poi si spense e
la sua polvere si perse nel vento. Uli ed Iva stettero molti minuti
in silenzio, piangendo lacrime di olio. Questo fenomeno inatteso le
fece tornare alla realtà. Erano ormai mature: anche per loro si
avvicinava la fine. Si guardarono intorno in preda a sgomento e
paura, ma si videro circondate da alti fusti commossi che stavano in
silenzio per non disturbare. Le due olive li salutarono con rispetto
e rinnovata fiducia. Furono accolte con gioia ed entusiasmo. Era una
piantagione di Quercetana e le compagne che pendevano cariche
di succo dai rami le accolsero con spontanea amicizia, felici di
averle tra loro. Stava cominciando la raccolta e poi la pigiatura.
Senza bisogno di inutili parole, Uli e Iva furono abbracciate dalle
nuove amiche e tutte insieme riempirono le ceste, chiacchierando e
ridendo.
Era
la fine, ma una fine allegra e spensierata. Le due olive, nate così
lontano, dettero il loro piccolo contributo per produrre un olio
magnifico, che aveva mille fragranze ma che profumava soprattutto di
storia e cultura. Anche lui rischiava di morire, a causa della
stupidità umana. Ma non tutti quegli esseri a due gambe erano così
e i vecchi ulivi speravano ancora.
L’ultimo
sguardo di Uli e Iva fu per i giganti di roccia feriti che
proteggevano i pochi gruppi di ulivi che si difendevano stringendosi
tra loro, mutilati severamente per opera dell’uomo, sempre egoista
e mai rispettoso del suolo che lo aveva nutrito per secoli e secoli.
Mentre calava sul mare, Il Sole mandò un saluto particolare, un
bagliore improvviso e inaspettato. Le pareti di marmo sembrarono
diventare d’argento: un immenso lago argenteo che si alzava in
verticale verso le nuvole violette che si spostarono per accoglierlo.
Anche
Uli e Iva si fusero in un lago, splendente e dorato, condividendo una
gioia immensa.
GRAZIE E VINCENZO ZAPPALA' E A ALDO VAJRA PER LA PARTECIPAZIONE.
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