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giovedì 22 maggio 2014

I racconti presentati dal prof. Vincenzo Zappalà all'incontro del 17 maggio 2014






La voce del mare, ovvero io e le balene
La terra e il mare: due entità fisiche percepite in modo nettamente diverso dalla maggior parte degli esseri umani. La prima è qualcosa di tattile, di investigabile, di manipolabile. Ha anch’essa lati oscuri, misteriosi, a volte terribili e a volte affascinanti, ma è lì a portata di mano (e di piede). In altre parole, è il nostro mondo, parla la nostra lingua (o almeno così crediamo).
Il mare no. Esso non sembra voler comunicare con noi. Sia che si presenti con un confine distensivo e tranquillo, sia che si mostri con la rabbia delle sue onde, esso è un “diverso”, sempre impenetrabile e incomprensibile. Sì, possiamo anche immergerci e vedere cosa contiene. Possiamo, anche studiarlo attraverso svariate tecnologie, ma  rimane qualcosa di estraneo, di alieno. Non esistono parole tra di noi o -quanto meno- parliamo due linguaggi troppo distanti tra loro. Questa è la prima impressione che mi colpisce quando mi affaccio da un’altura verso il mare. Una gran voglia di conoscere e di interagire, ma un senso di frustrazione nel non esserne capace.
 
Almeno, queste erano le mie sensazioni fino al recente viaggio alle Hawaii.  Adesso tutto è cambiato. La voce del mare è risultata improvvisamente udibile e comprensibile in tutte le sue sfumature. Vi racconto com’è successo.
Isola di Maui, temperatura del mare estremamente piacevole, profondità non troppo elevata. Un luogo perfetto perché i giganti del mare possano mettere alla luce i loro piccoli. Vale la pena percorrere migliaia di chilometri dall’Alaska per approdare in una “nursery” di livello eccezionale. Come dargli torto? Anche noi cerchiamo di fare lo stesso per i nostri neonati.
I giganti del mare, le balene, enormi creature che potrebbero comunque nascondersi tranquillamente al di sotto di quel confine invalicabile di cui dicevo prima. Basta un attimo per respirare e tornare nel mondo dell’incognito e del mistero. E invece non lo fanno. Le balene vogliono comunicare con la terra e usano tutti i sistemi di cui sono capaci.  Per loro quel confine è superabile e leggero. In fondo, basterebbe immergere un dispositivo acustico per sentire il loro canto dolce e variegato, che ci racconta di avventure, di speranze e di drammi. Ma non lo capiremmo comunque e il loro mondo resterebbe nascosto e inviolabile. Hanno, perciò, scelto di apparire direttamente agli abitanti della Terra e di farlo con una costanza e una passione che noi non riusciremmo mai a possedere.
Mi sono fermato per pochi minuti su un promontorio a guardare quella distesa liquida che sentivo ancora lontana e insuperabile. Bella, limpida, colorata, ma invalicabile. Improvvisamente, il mare ha parlato e si è fatto capire. Uno sbuffo altissimo, poi un altro. Una coda che si erge dritta contro il cielo blu e che percuote le onde. Un gesto ripetuto con accanimento. “Allora… mi stai sentendo? Io sono il mare e cerco di parlarti!”. E’ un caso, un momento irripetibile che non fa storia. Il confine torna alla sua anormale normalità. No, ecco un altro sbuffo e questa volta un dorso enorme e arcuato sembra uscire ed entrare al rallentatore. Non è solo, però. Insieme a quello più grande ve ne è uno più piccolo che cerca di seguire gli insegnamenti. Sì, è un cucciolo che sta imparando dalla mamma. E continuano a volteggiare per lunghi minuti.
La coda dell’occhio, però, nota altri sbuffi a destra e poi a sinistra. Alcuni lontani, altri vicinissimi. La testa mi sta girando. No, non posso sbagliarmi: il mare mi sta parlando attraverso i suoi giganti. Comincio a capire e mi accorgo che sto sorridendo. Poi entrano in scena i maschi, un po’ prepotenti e sempre desiderosi di mettersi in mostra anche se il tempo degli amori è ancora lontano. Forse vogliono insegnare ai piccoli qualcosa che non siano solo le tecniche base di movimento e di sopravvivenza. Ogni tanto fanno uscire solo una pinna, altissima come una torre. A volte solo l’enorme testa che sembra scrutare curiosa la superficie del mare o forse la terra lontana. Non posso sbagliarmi: sto assistendo a uno spettacolo che il mare mi sta regalando attraverso i suoi attori più importanti e prestigiosi.
 

Penso con disgusto e con compassione agli spettacoli artefatti che si vedono negli acquari. Com’è stupido l’uomo e come la sua ignoranza riesce facilmente a trasformarsi in cattiveria. Scaccio quel pensiero e torno agli amici del mare.
Comincio a riconoscere i vari ruoli e le varie scene che hanno preparato. Mi accorgo che spesso dove penso di vedere una sola creatura ve ne sono invece tre, quattro o anche più. Sembrano scandire le loro parti in modo da regalarmi un colloquio continuo. Poi un primo colpo di fortuna. Una mamma (è sicuramente lei) spinge fuori dall’acqua il suo erede e lo lascia ricadere in modo abbastanza rovinoso. Deve imparare anche a saltare. Qualsiasi dubbio mi lascia. Il salto non è legato a nessun bisogno fisiologico delle balene (dicono di sì, ma sono solo le solite invenzioni umane costruite per sentirci superiori). E’ un gesto di gioia, di allegria, di partecipazione e di comunicazione. Se viene insegnato ai piccoli, vuol dire che deve far parte del repertorio degli adulti. Ne ho sentito parlare, ne ho visto anche delle foto. Ma tutt’altra cosa è assistervi direttamente in un colloquio diretto, a tu per tu. Scruto il mare che ormai mi sta chiamando da molte direzioni. Trascuro molti messaggi aspettando l’urlo liberatorio. Finalmente arriva e sento una stretta nel petto. Incredibile! Una creatura di venti metri di lunghezza esce completamente dall’acqua e compie un salto arcuato e nettissimo. Sta facendo il “ponte”, l’esercizio più entusiasmante e sicuramente “inutile” da un punto di vista logico e fisico.
Non posso che considerarlo come un grido lanciato verso di me e mi accorgo che ho risposto con un “Evviva” o -forse – con un “Bravo”. Sembra che mi abbia sentito e lo ripete tre, quattro, cinque volte in una sequenza che lascia di sasso. E ogni volta, nella ricaduta, l’urto con l’acqua è un rumore, anzi un suono, che non ha confini. Guardo l’orologio. E’ passata meno di mezz’ora e sto parlando con il mare. Tra di noi tutto è cambiato, grazie alle balene e alla loro rappresentazione sempre uguale e sempre diversa. Potrò mai ringraziarle abbastanza?


 


 
La ricerca dell’Uomo

L’Uomo si era messo in cammino alla ricerca di quello che voleva, ma che non conosceva. Non aveva fretta, perché la fretta nasconde sempre la verità. Incontrò per primo un fiore dai mille petali e ogni petalo aveva un colore diverso. “Guardami Uomo. Non vedi come sono bello? In me puoi scoprire tutte le sfumature dell’eleganza, dell’armonia, della fantasia. Come puoi sperare di trovare qualcosa di più attraente e seducente?” L’Uomo lo guardò a lungo, pensieroso. Pianse anche per il suo meraviglio aspetto, ma non era abbastanza. La troppa bellezza può essere fredda e quel fiore penetrò nel suo cuore come una lama d’acciaio. Senza una parola si allontanò e continuò il suo cammino.

Davanti ai suoi occhi persi nel vuoto, apparve una farfalla. Aveva colori altrettanto splendidi, ma una leggerezza e una grazia stupefacenti. “Guardami Uomo. Non vedi come sono tenera, dolce, indifesa? La mia bellezza dura un attimo, ma chi sa coglierlo non potrà ammirare niente di più struggente. Approfitta e sarai felice”. L’Uomo ne fu scosso nel profondo. Non era solo bella, ma colpiva il cuore come una lama rovente. No, non bastava. Un soffio passeggero non riusciva a saziarlo. La commozione è un sentimento troppo breve. Continuò a vagare.

Un filo d’erba smeraldino gli bloccò il passo. “Guardami Uomo. Non sono bello, ma vivo di umiltà e semplicità. Non ho niente da offrire tranne che la mia esistenza, ma cosa c’è di meglio?” L’Uomo ne fu colpito e lo accarezzò dolcemente. Una lama di purezza trafisse il suo cuore. Subì un lungo torpore di tenerezza e comprensione. La genuinità gli ricordava quello che stava cercando, ma che non conosceva. Tuttavia, voleva di più; non gli bastava un’estasi passiva e statica. Riprese il cammino.

Incontrò una roccia scura come la notte. “Guardami Uomo. Non m’interessa né la potenza, né la ricchezza, né la saggezza. Sono qui per te. Plasmami, tagliami, deformami, sono nelle tue mani. Dentro di me ho immagazzinato tutto ciò che è accaduto. Sta solo a te scoprirlo e farlo rivivere”. L’Uomo sentì un fremito. Una lama di orgoglio gli ingigantì il cuore. Era libero di fare, di agire, di creare. Ma sarebbe stato solo e questo non lo voleva. Il suo passo lo portò lontano.

Sul sentiero apparve un drago. Immenso e maestoso, esclamò: “Fermati Uomo. Ti dono tutta la mia potenza. Ti accompagnerò e ti difenderò contro tutti e tutto. Io non temo nessuno. Sono invincibile”. L’uomo lo guardò negli occhi infuocati. Una lama di sicurezza calmò il suo cuore. Ma lui doveva lottare, rischiare, vincere con le sue sole forze. Si mosse e non si voltò più indietro.

A terra scorse un frutto magnifico, enorme e profumato. “Assaggiami Uomo e ne sarai rapito. Riesco a trasmettere tutti i gusti più raffinati. Devi solo cogliermi e ne sarai incantato”. L’uomo addentò quella meraviglia. Stupendo. Tutte le sfumature del dolce penetravano come una lama succulenta nei suoi sensi, ma non colpivano il cuore. Riprese il cammino, pensando alle esperienze di quel giorno, di quella vita, di quella era.

Aveva conosciuto la bellezza, l’amore, la tenerezza, la potenza, la delicatezza, l’orgoglio, la sudditanza. Vivevano però isolati. No, l’Uomo cercava altro, quello che voleva, ma non conosceva. E non l’aveva ancora trovato.

Mentre la sua mente vagava come il suo passo, sentì un fruscio. Alzò gli occhi e vide quel tronco contorto, stanco e deforme. Vi era potenza, saggezza, ma anche tenacia e umiltà. Non nascondeva i suoi anni e le sue sofferenze. Poi vide anche le foglie. Piccole, chiare, di una bellezza semplice e disarmante. Erano discrete e appena accennate. Dimostravano che non vi era bisogno di dare più del necessario. Non esibivano niente, facevano solo il loro lavoro. Poi vide i frutti. Anch’essi erano minuti. I loro colori li mimetizzavano tra le foglie. Non ostentavano grandezza e bellezza, ma sapevano molto bene qual era il loro compito.

L’albero non parlò, né le sue foglie, né i suoi frutti. Fu l’Uomo a parlare. “Guardami albero. Tu non vuoi dimostrare niente, ma hai grande saggezza. Le tue foglie sono misere, ma ti fanno sembrare un mare increspato dalle onde. I tuoi frutti si nascondono, timidi, ma recepiscono ogni vibrazione della Natura. Tu sai tutto, hai tutto, ma non chiedi e non offri niente. Non hai bisogno di me, ma mi hai attratto con violenza. Una lama di completezza mi ha trafitto il cuore e la mente. Non posso lasciarti. Insegnami qualcosa!” 
 

L’albero non rispose, ma un piccolo frutto cadde nella mano dell’Uomo. Gli venne spontaneo schiacciarlo e ne uscì l’anima dell’albero, della Natura, dell’Universo. Il suo pianto era luminoso come la luce delle stelle, il suo colore non aveva confini. L’Uomo lo portò alla bocca e quella lacrima non fu una lama, ma gli cambiò il cuore e la mente. In una goccia aveva trovato quello che voleva, ma non conosceva. E avrebbe dovuto lavorare duro, senza sosta per comprendere e assimilare ciò che non gli era stato offerto, ma che non poteva più lasciare. L’Uomo si fermò e iniziò la sua impresa.

Solo di notte e con la Luna Piena scorse ogni tanto un sorriso in quel tronco contorto e stanco, mentre le foglie intonavano il loro canto senza inizio e senza fine.





Una foglia nel vento
Uli e Iva erano due simpatiche e giovani olive nate in Marocco. Sapevano già benissimo quale sarebbe stata la loro fine: schiacciate insieme a tante sorelle fino a diventare olio. L’olio è sempre e comunque una grande meraviglia, ma nel loro paese la grande qualità rimaneva una chimera. Era sempre stato così, eppure Uli e Iva non volevano accettare la realtà dei fatti. Desideravano ardentemente provare qualcosa di nuovo, conoscere amici lontani, sapere tutto dei compagni di altre razze e paesi. Il loro colore non lasciava dubbi, ma avevano sentito dire che non esistevano problemi razziali nelle altre nazioni del mondo. Un po’ ovunque c’erano olive di tinte diverse, che convivevano senza nessun pregiudizio di sorta.
Come avrebbero voluto essere nate da alberi dai nomi celebri e importanti, la cui fama era giunta fino a loro per il nettare sopraffino che sapevano produrre. Molte volte, nel riposo notturno, avevano entrambe la stessa visione, ma si svegliano tristi e deluse quando la brezza del mattino le faceva vibrare. Era stato solo un sogno, e la varietà del loro albero, benché benevolo e gentile, era pur sempre una Picholine Marocaine, Zit per gli amici, la stessa che si trovava ovunque in Marocco. In mezzo a quel turbinio di emozioni, speranze e delusioni, le due amiche stavano pian piano “maturando”: se volevano fare qualcosa, dovevano farlo subito! Non sarebbero passati molti mesi prima del fatidico momento della raccolta.
La fortuna venne loro incontro. Quel giorno si era sollevato un vento fortissimo che faceva inchinare perfino il vecchio e contorto genitore. Uli e Iva danzavano e dondolavano, dandosi colpi e faticando perfino a mantenere l’orientamento. Proprio allora ebbero l’idea: invece di cercare di stare ancorate al ramo che le proteggeva, iniziarono ad assecondare il turbinio del vento. Dettero esse stesse strattoni nella direzione in cui soffiava, fino a sentir cedere la presa. L’albero le ammoniva e le sgridava, ma Uli e Iva non lo sentivano più, perse nel loro folle sogno. Alla fine furono libere e caddero al suolo, rotolando giù per la piccola collina e fermandosi vicino a dei grossi cespi di datteri accumulati sotto le alte palme. Ormai quello che era fatto era fatto e non potevano più tornare indietro. Non c’era tempo per pentirsi della pazzia che avevano compiuto e che le aveva trascinate verso il mistero e probabilmente verso una fine miserabile. Calpestate e schiacciate prima che potessero regalare il loro prezioso succo.
Si guardarono intorno e chiesero aiuto al cespo più vicino. Furono nuovamente fortunate. Era buono e gentile e con gran fatica riuscì a rotolare coprendole con la sua famiglia di frutti, fino a nasconderle nel suo interno. Appena in tempo. Pochi secondi dopo i datteri, ed esse con loro, furono gettati in una cassa. Poi caricati su un camion e infine su una nave in partenza per la Sicilia. La Sicilia, l’Italia, la patria del grande olio! Sembrava un sogno, ma questa volta era realtà. E proprio dall’isola del grande vulcano sbuffante iniziò il loro viaggio. Furono scaricate nel porto di Trapani e rotolarono fuori dall’amico cespo, dopo averlo ringraziato a lungo, augurandogli una buona fortuna. Ora dovevano agire da sole.
Si, ma come? Uli e Iva erano sveglie e intelligenti e, guardandosi attorno, pensarono a tutte le possibili soluzioni. Alla fine la loro attenzione venne catturata da un albero gigantesco e dalle sue grandi foglie che cadevano a terra veleggiando, trasportate da un debole venticello. Erano così grandi e ampie che bastava un soffio d’aria per farle sollevare e portarle anche molto lontano. Valeva la pena tentare. Riuscirono a raggiungerne una che sembrava particolarmente vivace e capiente e la interrogarono: “Vuoi portarci con te in giro per l’Italia? Ti faremo conoscere posti meravigliosi e boschi e pianure e tanti alberi grandi e contorti … sarà magnifico.” La foglia pensò a lungo, guardò l’albero da cui era caduta prematuramente e infine rispose: “Perché no! Ormai sono stata abbandonata e finirei schiacciata o nelle pagine di qualche quaderno. Sono con voi. Salite e partiamo!”. Dovettero aspettare solo pochi minuti e poi un soffio più impetuoso sollevò le tre amiche a parecchi metri d’altezza. Il viaggio era cominciato e le due olive si misero al posto di comando per dirigere il simpatico mezzo di trasporto verso la direzione voluta.
La prima tappa fu molto vicina. Toccarono terra nei pressi di una bellissima montagna che dominava il mare e che era incoronata da una splendida antica città: Erice. Erano circondate da ulivi, e si sentivano timorose e imbarazzate al cospetto di alberi tanto famosi. Alla loro destra riconobbero una coltivazione di Cerasuola, a sinistra di Nocellara e poco più in là di Biancolilla. Che meraviglia! Si sentivano molto importanti anche loro tra tante celebrità. Trovarono il coraggio e chiesero informazioni alle nobili compagne che pendevano dai rami. Queste dimostrarono grande cordialità e non si fecero pregare. Impararono così che uno dei grandi pregi delle olive, di qualsiasi albero esse siano, è quello di essere estroverse, amichevoli, pronte a unirsi con sorelle di razza diversa.
Seppero anche che l’olio di quelle parti era forte, austero, maschio come il gigantesco vulcano che dominava l’isola. Il sapore era intenso, piccante e duraturo. L’amica foglia cominciava a scalpitare per l’impazienza e le due olive decisero che era tempo di ripartire. Salutarono con enfasi le nuove compagne e si sistemarono sul loro velivolo. Che bell’incontro avevano avuto e che simpatiche le nuove amiche! Ma non era il posto per fermarsi. Dovevano imparare ancora troppe cose e vedere molte altre zone. Il vento, proveniente dal mare, le sollevò in fretta ed esse sorvolarono tutta l’isola, con i suoi tesori di arte, storia e cultura. Non avevano tempo di visitare altri uliveti, ma li videro chiaramente dall’alto.
Giunsero in terraferma e scesero nei pressi dell’antica città di Lamezia. Altri ulivi, altre amiche, altri oli. I loro sapori erano molto fruttati, il colore verde intenso, il sapore delicato. Quasi tutti gli alberi appartenevano alla varietà Cariolea, di origine vetusta. Proseguirono verso nord, ben sapendo che avrebbero perso qualcosa, ma in quella terra così ricca non si poteva conoscere tutto. Dovunque guardassero, vedevano uliveti e sentivano le loro compagne che scuotendo le foglie le salutavano con un intenso fruscio portato dal vento. Dall’alto videro la Puglia, e scorsero decine e decine di chilometri di vecchissimi ulivi contorti con le braccia scheletriche protese verso il cielo. Enormi distese di alberi i cui nomi gli giungevano da lontano: Cellina, Ogliarola, Coratina, Peranzana, Garganica, e altri ancora. Impossibile ricordarli tutti. Benché in preda ad una smania indicibile di conoscenza, non potevano fermarsi a loro piacimento, vincolate com’erano alla direzione e alla forza del vento. Furono trascinate verso una regione ricca di vulcani antichi e recenti: la Campania.
La foglia doveva riposarsi un poco e loro stesse avevano voglia di scambiare nuove impressioni e conoscere nuove varietà. Videro una piccola isola che sembrava una gemma incastonata nel turchese. Manovrando con destrezza, riuscirono a raggiungerla. Che meraviglia le rocce che cadevano in mare e gli ulivi che si aggrappavano un po’ ovunque. Pensarono alla fortuna di quelle compagne che ogni tanto potevano tuffarsi direttamente in quelle acque così trasparenti. Conobbero la Minucciola e la Rotondella. Il loro olio variava dal verde al giallo paglierino, il fruttato del profumo si trasformava in un sapore leggermente piccante e amarognolo. L’origine vulcanica di quella terra si rispecchiava nel carattere delle olive. Erano estroverse, allegre, infuocate nei discorsi. Sembravano esse stesse sprizzare ancora fuoco e fiamme.
Uli e Iva si accorsero con sorpresa e con grande piacere che il loro viaggio era ormai noto alle nuove amiche. La voce si era sparsa, andando di fronda in fronda, di albero in albero, di uliveto in uliveto. E il vento trasportava velocemente l’informazione. Dovunque fossero andate, d’ora in poi, le avrebbero aspettate con gioia e allegria. Lasciarono con tristezza quell’isola fantastica e quei colori da favola. Malgrado fossero giunte in una specie di paradiso terrestre, sentivano che non dovevano e non potevano fermarsi. La strada era ancora lunga.
Il vento non mancava e in breve lasciarono la Campania e passarono sopra una città meravigliosa, la capitale di quella nazione così ricca di ulivi celebri e antichi. Roma si estendeva sotto di loro, con i suoi monumenti e il suo placido fiume che la tagliava in due senza recarle alcun dolore. Anche in quella nuova terra gli ulivi non mancavano e le due amiche non poterono non fermarsi vicino alle antiche tombe degli Etruschi. Sembrava di respirare un’aria arcaica. La natura stessa pareva stanca di anni, secoli e millenni di cultura, storia e civiltà. I colori erano quelli di un continuo tramonto e la pace regnava sovrana. Le piccole città sorgevano su baluardi di roccia tufacea e le case facevano un tutt’uno con le pareti verticali modellate dalla paziente opera della Natura.
Fu una pianta in particolare che le colpì: era enorme e antica, ma ancora vigorosa e bellissima. Quando furono vicine apparve ancora più gigantesca: un vero capolavoro. Le sue olive dal portamento austero e solenne, parlavano con saggezza e dignità. C’era chi diceva che il grande vecchio avesse forse visto da fanciullo gli antichi re romani. Probabilmente era solo una leggenda, ma di sicuro la sua età superava i mille anni. Era veramente enorme. Nove metri di circonferenza, eppure produceva ancora dodici quintali di frutti all’anno. Lo chiamavano l’Ulivone nel pittoresco villaggio di Canneto Sabino. Uli e Iva ebbero perfino paura di parlare al più grande e vetusto ulivo dell’intero continente. Anche se solo per quella visione il loro viaggio avventuroso aveva avuto uno scopo. Ne era sicuramente valsa la pena.
Pensarono per un attimo di fermarsi in quella terra così aspra e tranquilla, ma era ancora presto e salutarono con deferenza il gigante verde. L’Italia con i suoi ulivi scorreva sotto di loro. Videro bellissimi laghi circolari e poi una montagna quasi perfetta nella sua forma a cono. Sicuramente anche lì il fuoco sotterraneo aveva modellato e sagomato la superficie. Planarono lentamente alle falde del vecchio vulcano, ora addormentato e protetto da una coperta di fitte foreste. Sebbene molto in alto, perfino in quel luogo sorgevano uliveti. Uli e Iva ne furono sorprese e si fermarono. La loro curiosità fu presto soddisfatta. Appartenevano alla varietà Seggianese ed erano in grado di resistere con vigore ai freddi inverni del Monte Amiata. Le olive erano un po’ rudi e di poche parole, ma schiette e sincere. Sapevano di essere una piccola comunità rispetto alle altre compagne toscane, ma non avevano sensi d’inferiorità. Anzi, erano convinte di produrre uno dei migliori oli in assoluto, dai tratti decisi e piccanti, senza mezze misure.
Uli e Iva, abituate ai caldi africani, cominciarono ad avere freddo: l’estate era già terminata. Chiedendo scusa, ripresero il volo. Solo allora si accorsero che la loro amica foglia, così gentile e disponibile, stava ingiallendo. Aveva cercato di nasconderlo alle due olive, ma si vedeva che cominciava a soffrire. Volava a bassa quota e ogni tanto eseguiva manovre non del tutto controllate. A Uli e Iva spiacque molto e si sentirono in colpa: forse l’avevano stancata troppo senza curarsi di lei, prese com’erano dai nuovi incontri che le emozionavano a non finire. Ma la foglia, oltre che gentile, era molto saggia e comunicò con serenità che quello era il suo destino. Ancora pochi giorni e poi si sarebbe lentamente sgretolata. Aveva comunque vissuto alla grande, visitando luoghi che mai da sola avrebbe osato sfidare.
Uli e Iva, profondamente commosse, consigliarono alla loro amica di cercare di assecondare il vento il più possibile per risparmiare le forze. Anzi, se voleva, erano disposte a fermarsi in qualsiasi punto lei avesse desiderato: in fondo avevano scoperto il mondo grazie a lei. Il rifiuto della foglia fu deciso e irrevocabile. Voleva andare fino in fondo e consegnare le due amiche al territorio più idoneo. Con malcelata fatica si rimise in volo e sorvolò il Chianti con le sue vigne e i suoi ulivi radiosi. Improvvisamente, di fronte a loro, si parò minacciosa una catena montuosa cupa ed altissima. Erano gli Appennini tosco-emiliani che sfidavano, incuranti di tutto e di tutti, i duemila metri. Niente da fare: per proseguire bisognava valicarli, ma la battaglia era veramente senza speranza.
Piegarono verso sinistra, in vista del mare, con manovre sempre più titubanti e rischiose. Fu una dura lotta contro un vento impetuoso che faceva scricchiolare la struttura della foglia, ormai di un colore tendente al bruno. Uli e Iva non pensarono mai alla loro vita, ma solo a quella della loro fedele compagna. La rincuorarono e la spronarono nei momenti più difficili; la osannarono e l’acclamarono nei pochi istanti di quiete. Alla fine, però, Il mare fu sotto di loro, bloccato improvvisamente da cime acuminate come coltelli e bianche come la neve. Sembrava che volessero trafiggere la foglia quasi con rabbia. Ma era solo un’impressione, quelle montagne avevano sofferto per secoli, subendo l’opera impietosa dell’uomo. Profonde spaccature, profili levigati come specchi avevano scavato ferite profonde che ne mettevano a nudo il loro cuore bianco e lucente. Erano tristi nel loro splendore e sprigionavano un senso di forza arcaica e mai sopita. La foglia era alla fine, dovevano fermarsi assolutamente. Pazienza, non erano riuscite a completare la loro splendida avventura, ma era comunque stata una magnifica conquista.
Tra la bruma del mattino, videro che una timida e popolata striscia di pianura separava la calma del mare dalla rabbia dei monti. Case, cemento, urla e frastuono. Peccato, non poteva esistere posto peggiore per finire il viaggio. A mano a mano che scendevano in preda alla disperazione e alla tristezza, li videro ai bordi della grande macchia grigia di cemento che ricordava un’ameba gigantesca che tutto ingoiava. Sembravano giganti sconfitti e imprigionati. Titani in balia della sfrenata corsa senza ragione dell’uomo. Ma ancora impavidi e vitali: non volevano e non dovevano essere sconfitti.
La foglia, ormai allo stremo, cominciò a cadere verso terra: non ce la faceva più. Logora, stanca e scheletrita ebbe un mancamento e piombò senza più forze, verso un quadratino verde. Un miraggio? Uno scherzo dell’immaginazione? O Forse l’ultimo, disperato, regalo della foglia? L’impatto non fu violento: Uli ed Iva ne uscirono sane e salve. La loro amica, però, stava morendo.
Ridotta a uno scheletro ramificato si stava disintegrando sotto la brezza che soffiava soltanto in quel quadratino di paradiso. Il suo ultimo sussurro fu un “grazie” diretto alle due olive. Poi si spense e la sua polvere si perse nel vento. Uli ed Iva stettero molti minuti in silenzio, piangendo lacrime di olio. Questo fenomeno inatteso le fece tornare alla realtà. Erano ormai mature: anche per loro si avvicinava la fine. Si guardarono intorno in preda a sgomento e paura, ma si videro circondate da alti fusti commossi che stavano in silenzio per non disturbare. Le due olive li salutarono con rispetto e rinnovata fiducia. Furono accolte con gioia ed entusiasmo. Era una piantagione di Quercetana e le compagne che pendevano cariche di succo dai rami le accolsero con spontanea amicizia, felici di averle tra loro. Stava cominciando la raccolta e poi la pigiatura. Senza bisogno di inutili parole, Uli e Iva furono abbracciate dalle nuove amiche e tutte insieme riempirono le ceste, chiacchierando e ridendo.
Era la fine, ma una fine allegra e spensierata. Le due olive, nate così lontano, dettero il loro piccolo contributo per produrre un olio magnifico, che aveva mille fragranze ma che profumava soprattutto di storia e cultura. Anche lui rischiava di morire, a causa della stupidità umana. Ma non tutti quegli esseri a due gambe erano così e i vecchi ulivi speravano ancora.
L’ultimo sguardo di Uli e Iva fu per i giganti di roccia feriti che proteggevano i pochi gruppi di ulivi che si difendevano stringendosi tra loro, mutilati severamente per opera dell’uomo, sempre egoista e mai rispettoso del suolo che lo aveva nutrito per secoli e secoli. Mentre calava sul mare, Il Sole mandò un saluto particolare, un bagliore improvviso e inaspettato. Le pareti di marmo sembrarono diventare d’argento: un immenso lago argenteo che si alzava in verticale verso le nuvole violette che si spostarono per accoglierlo.
Anche Uli e Iva si fusero in un lago, splendente e dorato, condividendo una gioia immensa.


GRAZIE E VINCENZO ZAPPALA' E A ALDO VAJRA PER LA PARTECIPAZIONE.

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