Grazie a tutti i partecipanti.
Lamberto Tosi
Un
vino...un libro...
Edizione
2016
Allegorie,
distopie & dintorni
in
Quando eravamo prede
di
Carlo D'Amicis
«Deus
sive natura»
Baruch
Spinoza, Ethica
«Mentre
arde il corpo di colui che fu mio padre, penso al giorno
in
cui mi condusse per la prima volta a cacciare nel bosco, e le cose
si
staccarono tra loro pretendendo un nome, una forma, un racconto.
Pretendendo
di essere altro da me. Un tempo noi e la natura siamo
stati
un bosco solo. Poi una moltitudine di forme viventi.
Ora
un luogo da cui dover fuggire»
Carlo
D'Amicis, Quando eravamo prede
- Carlo D'Amicis, Quando eravamo prede, Minimum fax, Roma 2014.
E'
uno dei libri più interessanti e belli che abbia letto in questi
ultimi due anni. E si pone, a mio parere, alla stessa altezza di
altri romanzi distopici divenuti ormai classici della letteratura
internazionale. E' di rigore, infatti, menzionare fra i molti
possibili: Il padrone del mondo
di Robert Hugh Benson (1907), Il tallone di ferro
di Jack London (1908), Noi
di Evgenij Zamjatin (1921), Il mondo nuovo
di Aldous Huxley (1932), La notte della svastica
di Katherine Burdekin (1937), motivo riscritto da Philip K. Dick nel
suo capolavoro, La svastica sul sole
(1962). Per citare, infine, come è stato giustamente fatto in varie
recensioni del romanzo di D'Amicis apparse sulla stampa, i più
famosi: da La fattoria degli animali
(1945) e 1984 (1948/9)
di George Orwell, fino a La strada
di Cormac McCarthy (2006). Molti di questi romanzi più che distopici
vengono definiti, dai tecnici della critica letteraria e delle sue
sotto-sotto-categorizzazioni di genere, ucronici,
ovvero appartenenti a un non-tempo, o a una Storia che ha preso altre
vie. D'Amicis stesso, per denunciare da subito l'appartenenza di
genere ed introdurci nell'atmosfera del romanzo, mette come Soglia
una citazione da Il signore delle mosche
di William Golding (1954):
«Non
c'è niente di vero, naturalmente. Solo un'impressione. Ma sembra che
invece di andare noi a caccia, ci sia … qualcuno che dà la caccia
a noi».
Carlo
D'Amicis,
classe 1964, oltre che ottimo scrittore, è persona amabilissima e
piacevole, il che non guasta nel panorama degli attuali scrittori
che, vivendo sempre meno di diritti d'autore, sono costretti ad
inventarsi un “personaggio”, e a realizzare, in occasione delle
presentazioni dei loro libri, delle vere e proprie performances
in cui il più delle volte il narcisismo e la voglia d'imporsi per
simpatia ed eccentricità straripano oltre l'offerta del loro
“prodotto”. Carlo D'Amicis è certamente simpatico, ma ascolta e
non s'impone, parla ma non declama, e soprattutto risponde alle
domande senza seguire il canovaccio prestabilito dagli organizzatori
editoriali del tour
delle presentazioni.
Noto
da tempo come conduttore su Radio 3 della trasmissione Fahrenheit
– i libri e le idee (e
come non pensare, in questo caso, a un'altra grande distopia
“fantascientifica”, quale il romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit
451
del 1953), è anche uno degli autori di Pane
quotidiano,
programma culturale di Rai 3 condotto da Concita De Gregorio. Come
scrittore “ha già al suo attivo” (la formula è questa!) alcuni
romanzi: Piccolo
venerdì
(Transeuropa 1996), Il
ferroviere e il golden gol
(Transeuropa 1998), Ho
visto un re
(Limina 1999), Amor
tavor (Pequod
2003); per i tipi di Minimum fax sono usciti: Escluso
il cane (2006),
La
guerra dei cafoni
(2008), da cui pare si stia scrivendo la sceneggiatura per un film,
La
battuta perfetta
(2010) e, infine, Quando
eravamo prede
(2014) che, a mio parere, potrebbe anch'esso trasfomarsi in un bel
film. Non ho letto gli altri libri di D'Amicis (e lo farò quanto
prima, lo giuro), ma la critica dice che Quando
eravamo prede
è il suo primo romanzo distopico, che per genere, stile ed argomento
si discosta dal “realismo” degli scritti precedenti. E noi, per
ora, ci crediamo.
Quando
eravamo prede
è
anche un romanzo d'avventura (antico macrogenere che non guasta qui
menzionare); è la storia di una comunità di cacciatori sui
generis
che vivono nel Cerchio, un non-luogo in un non-tempo, immersi nel
bosco che li nutre e gli dà riparo; oltre il Cerchio, la non
precisata Linea, un limes
al di là del quale vivono scimmie e gorilla, ovvero femmine e maschi
d'uomo; forse il mondo attuale, in un tempo attuale, in un luogo
attuale. I cacciatori hanno nomi di animali («...avevano mani di
fango e nomi da bestia...si facevano chiamare come l'animale a cui,
per indole o fisionomia, sentivano di assomigliare», p.7), Alce,
Toro, Leone, Ghepardo, Formica e Farfalla.
La
comunità vive in uno stato di natura, ma non proprio edenico per
dirla tutta; Linea e Cerchio andranno in collisione, natura
e
cultura
confonderanno caoticamente i propri pezzi – ma anche oltre la Linea
la “civiltà” non è propriamente civile; delle interferenze e
una vera e propria violenza si riverseranno dal mondo esterno nel
Cerchio, scombinandone regole e leggi, costringendo la comunità a
fare i conti con l'abbandono da parte degli animali, la morte del
bosco e il sopraggiungere di altre creature mutanti, inquietanti e
portatrici di un ulteriore livello di crudeltà. Costringendo la
comunità a fare i conti con una concreta possibilità di estinzione.
Evoluzione
ed estinzione
si configurano come parole chiavi di questo romanzo. Il Cerchio
sembra rappresentare una discontinuità evolutiva (è infatti
fisicamente descritto come una valle o una depressione geografica),
la Linea, invece, una continuità evolutiva, ma più apparente e
supposta che reale. Il tutto narrato in prima persona da Agnello, un
bambino di 10 anni, appartenente alla comunità, di cui assisteremo
all'accidentato rito di iniziazione a cacciatore e dalla cui voce
apprenderemo le leggi del bosco, i rapporti fra i cacciatori, la loro
organizzazione sociale e gli eventi funesti che si andranno
verificando. Una voce a volte in presa diretta, a volte lontana,
dis-locata
come quella di Ulisse alla corte dei Feaci.
Il
libro procede per scansioni bibliche, che ne informano anche lo
stile. I 12 capitoli infatti hanno per titolo altrettante citazioni
tratte, per i primi 11 capitoli dall'Antico Testamento (Genesi, libri
storici, profetici, sapienziali e un salmo), solo per l'ultimo, il
dodicesimo, dal Nuovo Testamento e, non a caso, dall'Apocalisse di
Giovanni, l'ultimo testo profetico della Bibbia cristiana. Niente è
lasciato al caso in questo romanzo, piacevole da leggersi come un
racconto epico, e, al contempo, per potenza allegorica e raffinatezza
d'ordito sottotestuale, profondo da meditarsi. Molte sono le Fonti
che la memoria letteraria di D'Amicis impiega e trasfigura; e
l'esercizio di individuarle aggiunge piacere a piacere. Sicuramente
il Testo adottato (l'Urtext) è la Bibbia, il libro per
eccellenza, l'enciclopedia della nostra civiltà, che non compare
solo nei titoli come citazione, ma anche direttamente nel romanzo
come strumento destabilizzante, introdotto nella comunità da una
scimmia in fuga dal mondo oltre la Linea.
Al
lettore, come per ogni racconto distopico ad elevato gradiente
allegorico, si richiede una completa “sospensione
dell'incredulità”, una complicità che sappia rinunciare ad ogni
criterio di verosimiglianza elementare. Per decodificare in
profondità l'allegoria, per alcuni versi esopica, il lettore non
dovrà chiedersi, ad esempio, perché i cacciatori usano fucili,
bevono birra e hanno dimestichezza con alcune tecnologie, mentre ne
ignorano altre. Farsi queste domande o individuare delle incongruenze
di questo tipo, significherebbe non essere nella dimensione della
favola che la distopia impone; insomma significherebbe non voler
leggere, o non voler apprezzare, la Fattoria
degli animali solo
perché Orwell ha antropomorfizzato gli animali e li ha perfino fatti
assurdamente parlare.
La
copertina, il titolo e l'elogio dell'imperfetto.
Per ogni libro che leggiamo, vale la pena compiere sempre una
preliminare ricognizione paratestuale. In realtà, inconsciamente e
meccanicamente, lo facciamo sempre quando si tratta di acquistare un
libro. Il titolo, se ci colpisce o meno; i risvolti di copertina o la
quarta di copertina, se catturano la nostra attenzione e l'argomento
ci seduce; l'autore, se lo conosciamo; l'immagine di copertina, se ci
evoca “qualcosa” e ci intriga in qualche modo. Poi, magari,
indugiamo anche in una prospezione più accurata: l'epigrafe in
esergo (la Soglia),
se c'è, fino ad arrivare vicini vicini al testo e lambirlo:
l'incipit.
Se l'incipit
ci convince, il libro è aggiudicato. Questa prima recensione,
sommaria e prossima al testo vero e proprio, è anche un primo atto
critico che, più o meno consapevolmente, noi facciamo stazionando
nelle librerie. Pare che alcuni recensori professionisti si limitino
solo a quello, per poter poi scrivere il loro articolo. Per
non essere condizionati nel giudizio,
come recita una battuta nel milieu
dei critici letterari. E pare che anche Borges, l'enciclopedico
Borges, dalla lettura di una voce di enciclopedia su un autore, dal
riassunto di un'opera, o dai risvolti di copertina di un libro, ne
ricavasse poi un saggio, su quell'opera e su quell'autore. E pare che
ci azzeccasse pure, come stigmatizza Umberto Eco che riporta questa
diceria, fra il serio, il faceto.
Trovo
la copertina del libro di D'Amicis estremamente interessante,
stilizzata e complessa al tempo stesso (in una parola direi
“simbolica”) e mi provo a descriverla.
Una
testa d'alce, con le sue ampie corna come il largo pettine di un
gigante, nascosta dall'altrettanto ampio fondo-schiena dello stesso
cèrvide (evidentemente il punto di osservazione è da
dietro),
con lanceolate orecchie che schizzano dai fianchi, il tutto
conficcato in un'altra testa, quella di un uomo nero, dalla bocca e
dal naso rosso-sangue e dagli orecchi spessi, che sembra guardarci
(ma con quali occhi?) di
fronte,
come una scultura arcaica, africana o greca, fate voi. E dico
“sembra” guardarci, perché il culo dell'alce, dalla coda di
cactus fiorito, nasconde quasi del tutto il suo volto.
Se
questo è un uomo, dunque, un uomo nero e non un gorilla, la
copertina ci rappresenta una sorta di homo
theromorphus
(“dalla forma bestiale” - non controllate nelle classificazioni
dei paleontologi, credo che non esista), la cui umanità di
faccia
è incisa, interrotta da un deretano
bestiale, che non sappiamo cosa stia facendo (se se ne vada,
lasciando che l'umano si liberi dalla bestia, o se si insedii meglio,
per ricordarci la bestia che s'annida in ogni uomo). Guardate che
perifrasi mi tocca fare per non usare un'unica, pertinente
locuzione...
Ma
questo homo
theromorphus
non è il classico e pulito centauro della mitologia, né la netta,
nella nostra memoria, figura della sirena della fiaba, bensì un
moderno, decisamente più incasinato e destrutturato, Minotauro,
racchiuso nel circuito del suo labirinto. Questo Minotauro o
Mino-alce che sia, è la perfetta rappresentazione iconografica dei
personaggi del Cerchio e del loro universo ibridato. Quasi ad
indicare, come ci suggerisce il romanzo, non tanto un mondo alla
rovescia, un universo reversibile o un decisamente più ameno paese
del carnevale, quanto un Eden irreversibilmente decaduto,
contaminato, la cui traiettoria ha deragliato dal pacifico binario
dell'evoluzione a quello drammatico dell'estinzione. Ma il romanzo
non dà mai risposte assolute, né la sua esemplarità è mai
monodirezionale e moraleggiante. Forse le cose non stanno proprio
così, come vedremo meglio più avanti. Del resto, infatti, anche il
mondo oltre la Linea non è un paradiso, anzi, con la sua pulita e
crudelissima violenza, è un mondo che ha bruciato le sue possibilità
di redenzione, con la sua spietata indifferenza, anche a se stesso,
ha dissipato ogni creativa opportunità evolutiva (l'intelligenza)
nella coazione a ripetere di modelli difensivi, ma di fatto
autodistruttivi (del resto, scimmie e gorilla non sono considerati i
grandi imitatori del mondo animale?).
Siamo
di fronte alla rappresentazione di due inferni, quello possibile e
delle possibilità (il Cerchio) e quello “reale” (il mondo oltre
la Linea). Questo ci dice la copertina e il romanzo che vi è
custodito. E forse è la Linea stessa, il con-fine, l'ultimo luogo
possibile per un'agnizione ancora salvifica. Il punto (cerchio,
linea, punto) dove l'evoluzione, per i cuccioli del Cerchio almeno,
può intraprendere un'altra strada, cambiare direzione, tornare un
po' indietro magari, aggirare e risolvere l'altrimenti inevitabile
estinzione.
Le
grandi allegorie, in special modo quelle distopiche, come nel caso
del libro di D'Amicis, vivono dell'ambiguità e delle potenzialità
dei simboli. E la loro ricchezza risiede nelle molteplici letture che
se ne possono fare. La loro verità nelle possibilità che evocano e
ci suggeriscono. Molto di più, dunque, della descrizione di un
mondo-incubo, di una semplice ancorché vibrante denuncia e di una
ricetta risolutiva conseguente.
Anche
il titolo, a suo tempo, mi intrigò alquanto, Quando
eravamo prede;
e non solo per lo spessore del termine “preda”, così
esistenzialmente connotato, così soggetto alla biunivocità e allo
scambio dei ruoli, sia in natura che in cultura, ma anche per
quell'imperfetto, eravamo,
così consono alla dimensione del racconto, e di un racconto
distopico in particolare.
Cito
di terza mano - cosa che non si dovrebbe mai fare – ancora Umberto
Eco:
«L'imperfetto
è un tempo molto interessante, perché durativo e iterativo. In
quanto durativo ci dice che qualcosa stava accadendo nel passato, ma
non in un momento preciso, e non si sa quando l'azione sia iniziata e
quando finisca. In quanto iterativo ci autorizza a pensare che
quell'azione si sia ripetuta molte volte. Ma non è mai certo quando
sia iterativo, quando sia durativo e quando sia entrambe le cose»
(da G. Montesarchio, G. Buccoleri, Fabula
rasa – dalla favola interpretata alla favola narrata,
Franco Angeli 1999, 2002).
L'imperfetto
è dunque un tempo a
parte.
Il tempo dell'introspezione di un personaggio, ma anche il tempo del
gioco («si fa(ceva) che io ero...,
mentre tu eri...
e si
andava...»),
della favola («C'era
una volta»), il tempo incompiuto (imperfetto appunto) che vorremmo
durasse un'eternità. Eternità che non possiamo esperire e che non
sappiamo esprimere con nessun altro tempo verbale a nostra
disposizione. L'imperfetto è una parentesi fra un mai
e
un per
sempre,
un ponte fra ciò che non esiste (ma che potrebbe esistere e che si
finge) e ciò che esiste (ma che si dimentica, per tutta la durata
del gioco o della narrazione). Una sospensione, che descrive, pur
tuttavia, e itera, più e più volte. E' qualcosa di perennemente
incompiuto e che si ripete, e al contempo uno stato profondo nel
passato che perdura nel presente. E' il tempo del non-tempo, ovvero
dell'ucronia.
Indica un modo dell'azione (e quindi è narrazione pura) ed è futuro
nel passato. L'imperfetto è continuità, ma al contempo, per la sua
separatezza, anche staticità. E' evocazione (chiamare da un
non-luogo a un luogo, seppur provvisoriamente). Con l'imperfetto si
evoca. Quindi, non poteva che essere il tempo del Cerchio e delle sue
possibilità di esprimersi, della sua possibilità di esserci
raccontato. Quando
eravamo prede è
dunque il racconto di un tempo imperfetto, di una catena interrotta,
di una storia che viene raccontata da un non
si sa dove
e che ci parla di un altrove
che forse stiamo già vivendo, ignari di viverlo.
L'imperfetto
è ancora una possibilità di equilibrio ed integrazione (di
armonia?) fra la physis
e
il nòmos
dei greci, o, se vogliamo, fra la physis
e
la tèchne.
A pagina 12, messo fra parentesi, si legge:
«(Era
questo, che tanto ci stancava: l'impulso a sovrastare la natura si
accompagnava sempre al bisogno di non sentirla del tutto soggiogata.
Perché noi eravamo ancora, allo stesso tempo, la civiltà e il
creato. Eravamo l'arma, ma anche il bersaglio)».
Nel
capitolo primo, dal titolo inequivocabile: Dio
vide cosa aveva fatto, ed ecco era molto buono
(Gen 1,31), è operativa la memoria della creazione biblica e
l'incipit
così suona:
«In
principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro
morte. (…) Tacere era la più diffusa tra le tecniche con cui
miravano ad imitare l'unica autorità che riconoscevano sopra le
proprie teste: la natura e le sue leggi».
In
questa variazione “umile” della creazione biblica, operata
dall'autore, che apparentemente ne sembra una riduzione banalizzante,
in realtà risuonano e a distanza si richiamano, dall'Antico al Nuovo
Testamento, i 2 più famosi “In
Principio”
della bibbia cristiana: il Bereshit
di Genesi e l'En
archè en o Lògos
del Vangelo di Giovanni (il primo libro della Bibbia e l'ultimo dei
Vangeli). Principi
che sono sia “inizi” (origini), ma anche e soprattutto fondamenta
perduranti, continue, della realtà creaturale, le Leggi (i Principi,
appunto) che la regolano e che la ricapitolano.
Oltre
a questi Principi, ci sono le leggi della natura che la comunità
rispetta (in genere). Di queste leggi, mano a mano che si procede
nella lettura verremo a sapere molto, ma una mi piace qui ricordare
e, nel libro, la ritroviamo nell'iniziazione alla caccia di Agnello
da parte del padre, Alce. Non si configura propriamente come legge
“naturale”, o forse sì, se consideriamo il linguaggio “uno
straordinario contagio perpetuo” (Emanuele Trevi).
«”Stabiliamo
una regola”, disse sulla zattera che dalla botte ci portava
all'altra riva. “D'ora in poi si può uccidere soltanto ciò che ha
un nome”. Non c'era niente di più stupido. Per attribuire agli
altri animali un'identità dovevamo ammettere la nostra: quindi
candidarci a morire con loro. (…)
(Stabiliamo
una regola: non si può uccidere ciò che non si conosce.)»
(pp.17,19).
Passare
dall'indifferenziato al differenziato (dare un'identità), questa
forse è la Creazione.
Conoscere
è nominare le cose per poterle uccidere. Conoscersi è darci un
nome, o quando ci danno un nome. Ricordiamo il già citato: «si
facevano chiamare come l'animale a cui, per indole o fisionomia,
sentivano di assomigliare» (p.7), a cui potremmo aggiungere:
«Agnello, per il momento, era il mio nome. In seguito si sarebbe
stabilito se sarei diventato una pecora o un montone» (p.10); che
equivale a dire: “in seguito si sarebbe stabilito che scelta
evolutiva avrei fatto/avuto”. La realtà si forma (o forse si
sostanzia?) dando un'identità alle cose, dando un'identità agli
esseri viventi, dando un nome. Che Agnello e i cacciatori del Cerchio
siano dei nominalisti, alla stregua dei filosofi della
Scolastica medievale, è sicuramente impensabile. Ma è certo, direi,
che qui, nella memoria letteraria dell'Autore è operativo, e
distopicamente rielaborato, il passo di Gen 2,19-21:
«Allora
il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come
li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno
degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo
impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a
tutti gli animali selvatici, ma per l'uomo non trovò un aiuto che
gli corrispondesse».
Conoscere
e dare un nome, compiere l'atto creativo della differenziazione
attraverso il linguaggio (Dio è La Parola; noi siamo le parole), è
votarsi alla morte, e alla possibilità di dare la morte. Secondo
determinate scelte evolutive, o “direzioni” evolutive che
Qualcuno o Qualcosa ha preso per noi, e che noi, a un certo grado di
sviluppo, autonomamente prendiamo. L'economia della creazione e
l'economia del libero arbitrio (per così dire), qui si confrontano,
si scontrano, forse si mescolano, producendo mostri. Deragliandoci
nella distopia. Ma quale?
Mentre
l'utopia è un mondo irreale e di sogno, un buon-non-luogo in cui
vivere, la distopia, che i dizionari avvertono essere il contrario
della prima, è sempre un mondo da incubo, un cattivo-(doppio)-luogo
in cui vivere, ma soprattutto la conseguenza di qualcosa o
qualcuno che ci ha condotto fino lì.
Il
termine utopia è attribuito a Tommaso Moro (XV/XVI sec.), che così
titolò la sua più famosa opera. Distopia è termine usato per la
prima volta, pare, da John Stuart Mill (XIX sec.). Il conio di
formazione dal greco è facile: dys (male-cattivo) – tòpos
(luogo). Ma, se lo traduciamo in italiano, fuor dall'ambito
letterario e filosofico, abbiamo pari pari il termine “dislocazione”
(cioè, “spostamento”), il cui significato nell'uso resta
sostanzialmente neutro (una vox media). Nella terminologia
medica, però, più etimologicamente attenta, “distopia” è «la
dislocazione
di un viscere o di un tessuto dalla sua normale sede»,
niente di buono presumo.
Volendo
ancora giocare un po' con questa parola, esiste un'altra possibilità
di significato, attivabile con una “variazione fonematica minima”
(come direbbe un linguista): se cambiassimo il prefisso dys
(male-cattivo) con dis (lat. Bis, due volte; quindi
qualcosa di doppio), avremmo una dis-topia che è un doppio-luogo.
Il
doppio, la duplicità, la doppiezza, non godono nella nostra cultura,
fin dai primordi, di buona fama. Pur tuttavia, in uno sbocco
d'ottimismo, immaginiamoci questa “distopia”, questo spostamento,
questo luogo messo a parte dal tempo e dallo spazio che
conosciamo, come un luogo del bivio, o un punto dove il
sentiero si biforca e c'impone una scelta nel percorso. Un luogo a
parte, dove è ancora possibile bene o male, fra bestialità e
umanità, scegliere la direzione giusta da prendere. Se immaginiamo
in questo modo la “distopia” creata da D'Amicis, ecco che la
possiamo identificare col Cerchio e il bosco e la comunità di
creature “giustapposte” che lo abitano, così in BI-lico fra
umano e ferino, fra evoluzione, ma anche estinzione.
Ma
se il Cerchio è questo, allora la “distopia” come cattivo-luogo
e basta, la “vera” distopia irreversibile, non può essere altro
che il mondo dei gorilla e delle scimmie, il mondo oltre la Linea, il
nostro mondo, così asettico, sterile, violento e totalmente
disumano. Il mondo dove una scelta è stata già forse da tempo fatta
ed è la scelta dell'estinzione. Il nostro mondo che D'Amicis,
volutamente non racconta, perché ci siamo dentro, lo viviamo, ma a
cui allude, e che rappresenta, nella trama del libro, solo attraverso
le sue pesanti “interferenze”.
Il
Cerchio, allora, è l'anello mancante che si racconta attraverso un
cucciolo. L'anello mancante che, pur nei pericoli che corre e nella
sua brutalità quotidiana, può ancora redimersi e sperare di
diventare, conquistando memoria e capacità di sogno, utopia. Un
luogo privilegiato dove una comunità di disperati minotauri può
ancora provare a scegliere una terza via di evoluzione, dove umanità
e ferinità trovino da soli e finalmente, senza che nessuno prometta
loro alcuna “terra promessa”, quel paese dove scorre latte e
miele e il lupo vive con l'agnello. Quel paese da cui forse “ora”
(l'ora narrativo che giustifica il c'era una volta) sta
raccontando la sua storia la voce dislocata di Agnello.
Oltre
la Linea, scimpanzé evoluti, complessi e contagiosi, celebrano
l'incubo, la distopia del mondo presente dove, per dirla con Orwell
(1984): «La guerra è pace, la libertà è schiavitù,
l'ignoranza è forza»; e l'utopia, una speranza che non sappiamo
sperare. E neppure più sognare.
Seravezza,
20 Febbraio 1016
Francesco
Parasole
Altri
riferimenti & annotazioni sparse
(se
c'è tempo, o mentre si cena) + citazioni capitolari
Versetti
biblici sono i capitoli, la Bibbia è portata dalla scimmia che dalla
Linea entra precipitosa nel Cerchio, col suo pick-up, per fuggire da
non si sa cosa. La scimmia resterà incinta di Toro...maternità
simbolicamente connotata (“maternità mariana”). L'introduzione
della Bibbia provoca l'interrogazione su Dio. Dal pregare e
dall'imprecare al bosco, si passa a pregare e ad imprecare a Dio. La
religione (“legame”) c'è anche nel Cerchio, cambia l'onnipotenza
ontologica.
Sulla
tipologia del sesso nel Cerchio e la questione della sterilità del
branco, delle donne in montagna (come delle Oreiadi) e della Cagna ai
fornelli, del voyeurismo non proprio mistico di Alce, non ho detto.
Dovrete pur leggervelo, il libro!
Così
come anche dei monocoli “topi” invasori, dagli occhi di bragia, e
tutta la relativa evocazione infernale, dalla morte del bosco, la
scomparsa degli animali in poi...
Potente
la scena del bosco che si ribella all'introduzione della scimmia (non
solo “Maria”, ma anche “Eva” … mutatis mutandis per
non offendere la sensibilità di nessuno).
Trovo
che sia una chicca (anche metonimica, riguardo alla rappresentazione
e al disvelamento mitologico dei cacciatori) il punto in cui il
navigatore del pick-up della scimmia dentro il Cerchio non
funziona più, e la donna “attiva” una statuina di San Cristoforo
cinocefalo! A parte tutto quel che si può dire su questo santo del
III sec., dalla copiosa letteratura sia di parte orientale che di
parte occidentale (sinassari, menologi, agiografie, acta martyrum,
la Leggeda aurea di Jacopo da Varagine, etc.), patrono dei
pellegrini e dei motociclisti, la sua funzione di psicopompo è
stupendamente congruente al mondo in cui si trova proiettata la
scimmia e al teromorfismo dei suoi abitanti.
Le
incursioni dei gorilla nel Cerchio, invece, sono degne delle fiction
di Fox-Crime.
Notevole
per valenza simbolica l'incontro/scontro del lupo con Agnello,
durante la reiterata Iniziazione a cacciatore di quest'ultimo.
Ma
da nessuna parte sembrava esserci un rifugio per l'Agnello
(p.34): biblico (e ce ne sono altri).
Leggere
eventualmente pp.48-51, l'orso e dintorni.
Vita
e morte nel bosco s'intridono.
L'allegoria
di Quando ervamo prede si fonda su motivi e figure
archetipiche attinte dalla mitologia occidentale (greco-latina),
tenute insieme da un'intelaiatura biblica (giudaico-cristiana) e
intrecciate per significare altro (come tutte le allegorie,
che secondo Aristotele (ma anche Cicerone e Quintiliano) sono
“metafore continuate”). Qualche incursione Zen: il tiro con
l'arco insegna a pensare senza pensare … a volere senza volere
(p.10). Il tutto è governato con consapevolezza antropologica e
filosofica (creazionismo, evoluzionismo); e forse anche teologica:
(mi fu chiaro, allora, che ognuno aveva il suo Dio e ne faceva
quello che voleva) (p.175).
L'allegoria
è un discorso che significa altro, immagini che adombrano altre
immagini fra cui sussiste un rapporto esclusivamente analogico,
rapporto sostanzialmente ineffabile e quindi linguisticamente
esprimibile solo attraverso uno scarto, una deviazione. Fra le
immagini s'instaura un confronto, per vicinanza, e se il confronto
risulta “esemplare”, e molto prossimi i pensieri, i concetti e le
immagini, lo chiamiamo parabola (“paragone”: “metto di
lato”, “metto al fianco”), e se c'è qualche morale, apologo
(qualcosa che discende dal logos, che, come tutti ormai ben
sappiamo, non è solo “parola”, ma Parola, etc.).
Infine,
il problema del linguaggio:
- Va bene. E se anche fosse? Se i suoni che ora sto emettendo non fossero parole ma solo versi animaleschi, perderebbero per questo di senso? Di valore? Di bellezza? Non abbiamo sempre detto che niente, a questo mondo, è più perfetto della perfezione animale? -
- Noi non siamo più animali, Agnello -. Fece una breve pausa. Poi aggiunse:
- Né siamo ancora esseri umani -.
- E cosa siamo allora? - (p.129).
Spunto:
Agnello come alter ego postmoderno dell'Emilio di Rousseau?
(Nel
qual caso Farfalla corrisponderebbe ad una postmoderna Sofia).
Le
citazioni bibliche capitolari (non tutte letterali, alcune
modificate):
Cap.
1: Dio vide ciò che aveva fatto, ed ecco era molto buono. (Gen
1,31).
Cap.
2: Cosa può esserci in comune tra il lupo e l'agnello? (Sir
(Eccl), 13,17).
Cap.
3: Era per me un orso in agguato. (Lam – Ger, 3,10).
Cap.4:
E voi li avvertirete da parte mia.
Trova
un suo riscontro in 2 passi del profeta Ezechiele:
- Ez 3,17: Figlio dell'uomo, ti ho posto come sentinella per la casa di Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Il profeta come sentinella.
- Ez 33,7: stesso testo ripetuto, stessa esortazione al profeta/sentinella. La domanda esistenziale è: In che modo potremo vivere? (Ez 33,10).
Cap.
5: Oh come siede solitaria, la città che abbondava di popolo.
(Lam – Ger, 1,1). Ancora le Lamentazioni di Geremia
(l'esordio). La traduzione più propriamente recita: Come mai
siede solitaria la città che era gremita di popolo? La citazione
da interrogativa viene trasformata in assertiva.
Cap.
6: Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e
risalire. (1Sam, 2,6). Preghiera di Anna, madre di Samuele.
Cap.
7: Ecco, io sono un albero secco. (Is 56,3).
L'intero
versetto recita: Non dica l'eunuco:
ecco io sono un albero secco!
Cap.
8: Spargerò per i
monti la tua carne.
(...e riempiròle valli
della tua carogna.)
(Ez 32,5).
Cap.
9: Allora disse: “chi
ti ha fatto sapere che eri nudo?”.
(Gen 3,11) … hai
forse mangiato dell'albero ...
Cap.
10: Fuggono, fuggono i re degli eserciti! (Sal 68,13).
...nel
campo presso la casa ci si divide la preda
… Canto davidico di
gloria e trionfo.
Cap.
11: Corona dei vecchi
sono i figli. (Pr
17,6). Intero:
Corona
dei vecchi sono i figli dei figli, onore dei figli i loro padri.
L'immagine – Corona
dei vecchi
- si ritrova in un altro libro tardo-sapienziale, Sir 25,6, dove però
il motivo di vanto è: un'esperienza
molteplice.
Cap.
12: Ecco io sono
l'alfa e l'omega.
(Ap 1,8 – 21,6 e 22,13). Si chiude con l'Apocalisse di Giovani e
un'espressione ripetuta 3 volte nello stesso testo. Apocalisse dove
ciò che viene svelato continua a restare un mistero, in un
non-tempo, in un non-luogo, a cui potremmo dare il nome di speranza.
Se speranza fosse profezia.
FP
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